..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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venerdì 30 luglio 2021

La società post-democratica o il neofascismo di domani

I regimi liberali dell'Occidente avanzano lungo percorsi inesplorati verso un modello di gestione politica e organizzazione sociale che, in mancanza di un termine appropriato, è definibile come neofascismo o fascismo di nuovo conio. Le caratteristiche di questo regime socio-politico venturo che potremmo chiamare anche "post-democrazia" sono da un lato la spaventosa docilità della popolazione, dall'altro la progressiva inquietante dissoluzione della "differenza" (culturale e ideologica, esistenziale, soggettiva...) in mera "diversità" - versioni distinte dell'identico.

Percorsi di organizzazione sociale che condividono con i fascismi del passato due tratti fondamentali: in primo luogo, l'assenza di una critica interna, di una opposizione, di una resistenza da parte degli individui; e, in secondo luogo, una spinta alla belligeranza verso l'esterno, una foga espansionista, al giorno d'oggi anelito alla globalizzazione. La società post-democratica, il neofascismo di un domani, probabilmente già odierno, si esplicita attraverso altre due caratteristiche, che lo contraddistinguono come una novità storica: la rapida de-politicizzazione della cittadinanza che volta le spalle alla democrazia come formula politica senza affrontarla, tollerandola con rassegnazione, scetticismo e fastidio; e la reticenza a mostrare le dinamiche autoritarie, rendendo invisibili i meccanismi con cui agiscono la costrizione e il dominio: istanze di auto vigilanza e auto addomesticamento, brillanti tecnologie di controllo sociale che cercano di far sì che ognuno diventi il poliziotto di se stesso, comunque complice dichiarato della propria coercizione.

martedì 27 luglio 2021

Il progresso è distruggere il potere anziché servire il potere

Nei fatti si rischia che la terra non basti agli uomini, perché l'industria e l'agricoltura industrializzata stanno desertificando e avvelenando i terreni con la ricerca senza limiti del profitto.

La tragedia del genere umano sta per giungere al suo compimento, proprio con la desertificazione, il degrado e la reale morte della terra.

E' la Terra Madre di ciascuno di noi, terra singola, la terra da cui siamo nati, la terra che camminiamo, terra su cui ci adagiamo, la terra di cui cogliamo i fiori spontanei ed i frutti.

La terra degli ulivi e delle vigne, la terra che coltiviamo di fiori, di frutta e gli ortaggi, la terra che ci dà le raccolte, la terra su cui facciamo l'amore.

Sono stati così "capaci" e potenti da portarci al contrario di tutto.

Il progresso è distruggere il potere anziché  servire il potere.

"Un grido ha percorso le strade della nostra giovinezza: - no pasaran - non passeranno, non prevarranno. Siamo stati smentiti dai fatti: hanno prevalso e prevalgono. Oggi sappiamo che l'unico modo che può capovolgere questa incontrovertibile realtà, sia pur ridotti al minimo dall'impegno del denaro dei più ricchi è quello di imporci di cogliere ogni occasione per l'insulto veritiero e feroce, per la critica, è quello di Resistere".


sabato 24 luglio 2021

Il gioco come atto rivoluzionario

Dopo due secoli di negazione attraverso una continua idealizzazione della produzione, le funzioni sociali primitive del gioco si presentano solo più come sopravvivenze imbastardite frammiste a forme inferiori che deviano direttamente dalle necessità dell’organizzazione attuale di questa produzione. Nello stesso tempo, in rapporto dello sviluppo stesso delle forze produttive, compaiono delle tendenze progressive del gioco. La nuova fase di affermazione del gioco sembra debba caratterizzarsi con la scomparsa di ogni elemento competitivo. Il problema di vincere o di perdere, finora quasi inseparabile dalla attività ludica, appare legato a tutte le altre manifestazioni della tensione tra individui per l’appropriazione dei beni. Il sentimento dell’importanza del vincere nel gioco, che si tratti di soddisfazioni concrete o più spesso illusorie, è il prodotto avvelenato di una cattiva società. Questo sentimento è ovviamente sfruttato da tutte le forze conservatrici che se ne servono per mascherare la monotonia e l’atrocità delle condizioni di vita che impongono. Basta pensare a tutte le rivendicazioni sviate per mezzo dello sport agonistico. Non solo le folle si identificano con giocatori professionisti o con certe squadre, che assumono lo stesso ruolo mitico delle stelle del cinema che simulano la vita e degli uomini dello stato che decidono in vece loro, ma anche il succedersi senza fine dei risultati di queste competizioni non cessa di appassionare chi vi assiste. La partecipazione diretta a un gioco, anche preso tra quelli che richiedono un certo esercizio intellettuale, è altrettanto poco interessante appena si tratta di accettare una competizione, fine a se stessa, nel quadro di regole fisse.

L’elemento di competizione dovrà scomparire a vantaggio di una concezione davvero più collettiva del gioco: la creazione comune degli ambienti ludici scelti. La distinzione centrale che bisogna superare è quella che si stabilisce tra il gioco e la vita corrente, in quanto il gioco viene considerato un’eccezione isolata e provvisoria. La vita corrente, condizionata finora dal problema del sostentamento, può essere dominata razionalmente e il gioco, che rompe radicalmente con un tempo e uno spazio ludico delimitato, deve invadere l’intera vita. In questa prospettiva storica il gioco non appare affatto al di fuori dell’etica, del problema del senso della vita. L’unica riuscita che si possa concepire nel gioco è la riuscita immediata sul proprio ambiente e l’aumento costante dei propri poteri. Mentre, nella sua attuale coesistenza con i residui di questa fase di declino, il gioco non può liberarsi completamente da un aspetto competitivo, il suo scopo deve essere perlomeno quello di provocare delle condizioni favorevoli per vivere direttamente. In questo senso è ancora lotta e rappresentazione: lotta per una vita a misura del desiderio, rappresentazione concreta di una simile vita.


giovedì 22 luglio 2021

A.L.F.

 L'A.L.F., il Fronte di liberazione della terra è un nome "adottato" da individui o gruppi anonimi ed autonomi (nessuna gerarchia, nessun portavoce) che, attraverso l'azione diretta (in forma di sabotaggio) causano danni economici e/o blocco alle imprese implicate, appunto, nella devastazione ambientale (ingegneria genetica, urbanizzazione/deforestazione, settore energetico, dei trasporti ed informatico, etc.), e coloro che agiscono in tal senso prendono tutte le precauzioni necessarie per non danneggiare nessuna vita. La nascita dell'' E.L.F. (che non è quindi un organizzazione ufficiale) pare che sia avvenuta nel 1992 a Brighton (Inghilterra), in seguito al distacco di alcuni attivisti da Earth first! nell'intenzione di passare a metodi di azione più radicali e concreti, per poi diffondersi fortemente in particolare negli Stati Uniti. Non a caso, nel Marzo del 2001 l'E.L.F. è stato classificato dall' F.B.I. tra le minacce principali del terrorismo interno (o eco-terrorismo), ovviamente viene quindi dipinto attraverso la propaganda di regime come un qualcosa di pericoloso e nocivo, e non mancano le scontate e forti critiche (e le varie contrapposizioni) da parte dei movimenti ambientalisti istituzionalizzati/tradizionali, i quali promuovono il cambiamento attraverso mezzi legali che rarissimamente da soli ottengono dei risultati veramente concreti e positivi. Questo perché i mezzi concessi dalle istituzioni rafforzano strutturalmente e culturalmente il sistema stesso che è alla radice del problema, un sistema che non può accettare un reale cambiamento.

 

Infliggere un danno economico a coloro che traggono profitto dal tormento e dallo sfruttamento degli animali

 

Liberare gli animali dai luoghi di abuso, come laboratori, industrie, allevamenti di animali da pelliccia ecc. e sistemarli in luoghi di pace dove possano vivere le loro vite naturali, liberi dalle sofferenze

 

Rivelare l'orrore e le atrocità commesse contro gli animali dietro le porte chiuse, usando azioni dirette non violente e liberazioni

 

Prendere tutte le necessarie precauzioni per evitare di arrecare danno ad animali, umani e non

  

Ogni gruppo di persone o persone singole che sono vegani e fanno azioni in accordo con le linee guida dell'ALF hanno il diritto di sentirsi parte dell'ALF


mercoledì 21 luglio 2021

G8 2001: cosa resta di Genova? Radicali e radicati

 

La memoria dei tre giorni contro il G8 del 2001 a Genova fugge al rischio della ritualità e della celebrazione, perché non è mai stata una memoria condivisa e, quindi, pacificata.

In quegli anni come anarchic* ci sentivamo parte di un movimento di contestazione globale che alludeva alla possibilità di rinascita di un’internazionale delle lotte, che mettesse in difficoltà non solo i governi ma la stessa governance transnazionale che proprio allora stava consolidando strumenti e trattati. Dal WTO agli accordi sulla proprietà intellettuale, che rendevano commerciabile e brevettabile anche il vivente, la globalizzazione all’alba del terzo millennio andava oltre le relazioni mercantiliste dell’era degli imperi coloniali e postcoloniali, investendo il cuore del nord, ricco e predatore.

Allora parlavamo di globalizzazione dell’economia. Dopo vent’anni sappiamo che il processo che tentavamo di contrastare era la globalizzazione della povertà e dello sfruttamento. Una dinamica che si dispiega oggi in tutta la sua potenza.

Depredare e distruggere, senza alcuna tensione al futuro, senza alcun senso del limite è il segno distintivo della logica del dominio e degli affari che si è imposta ovunque. La violenza che investi i movimenti No Global diventa interpretabile solo con la cartina di tornasole rappresentata da movimenti, che, proprio perché sviluppati su scala planetaria, facevano paura ai signori della terra.

Nel luglio del 2001 quei movimenti avevano sfiorato da poco l’Italia, un paese in cui il secolo breve lambiva ancora l’alba di quello nuovo.

I social forum, le reti cittadine, la spinta partecipativa dal basso nacquero poco prima di Genova. Avrebbero dovuto rappresentare un colpo di reni di un movimento che sapesse radicarsi nei territori, ma furono solo la cassa di riassorbimento di relazioni e lotte che sarebbero potute nascere e svilupparsi intorno al vertice del G8 a Genova, ma ne vennero abortite. Con violenza.

Le cronache main stream di quelle giornate, preparate per mesi dai media in un crescendo di allarmismo, divennero quelle prevalenti. C’erano i buoni che non meritavano la repressione e c’erano i cattivi, infiltrati e manovrati dalla polizia. Poco importa che questa dicotomia fosse il frutto di una lettura mediatica di qualche foto il cui senso venne consapevolmente distorto. I buoni e i cattivi, le mani bianche ed i black bloc divennero l’asse portante di una narrazione, in cui le botte, le torture, l’omicidio erano i frutti di una democrazia malata, dove era considerato nevralgico il ruolo del post fascista Fini. I fatti di Genova dall’assassinio di Carlo Giuliani alle cariche sul lungomare, sino alla Diaz e a Bolzaneto, venivano dipinti come fatti gravissimi ma correggibili, un’eccezione nella normale vita democratica.

La criminalità del potere che era emersa con potenza l’indomani della strage di piazza Fontana, contribuendo a formare una generazione consapevole che la democrazia non può essere tradita, ma semmai tradisce la propria natura di sistema che tollera la critica, solo quando è ineffettuale, a Genova trova un comodo alibi dietro cui celarsi. Eppure vi erano stati dei precedenti molto chiari, per chi avesse voluto leggerli: le giornate del giugno 2001 a Goteborg, quando un poliziotto piantò tre palle nella schiena di un manifestante di 19 anni, che solo per fortuna sopravvisse, avevano dato un segnale che le regole di ingaggio delle polizie erano cambiate e il marzo del 2001 quando le contestazioni al Global forum a Napoli finirono con una mattanza di polizia in piazza Plebiscito e con le torture dei fermati portati nella caserma Raniero. Un anticipo chiaro di quello che sarebbe successo a luglio. Con un’importante differenza: al governo c’erano i post comunisti.

L’alibi per la democrazia venne scritto dalle compagini della sinistra istituzionale, dell’associazionismo cattolico e non, delle reti che si illudevano bastasse un taglio delle tasse dei più ricchi per rivoluzionare il mondo.

Il Novecento, i cui assi fondanti erano ormai in crisi profonda ovunque, manteneva ancora un solido retaggio nel 2001. La consapevolezza che il mondo in cui eravamo forzati a vivere fosse intollerabile era comune a tutti, ma troppi ritenevano che ci fosse un margine per le politiche riformiste, riducendo il ruolo dei movimenti a mero pungolo nei confronti delle istituzioni.

Oggi sappiamo che, al di là della facile ritualità dei numeri e degli anniversari, quel 2001 fu davvero la boa del secolo che veniva. Nel decennio successivo, nel bene e nel male, si consumerà la fine del secolo breve e l’inizio dell’epoca in cui siamo immersi.

La violenza del G8 e la guerra al terrorismo scatenata dagli Stati Uniti e dai loro alleati dopo l’11 settembre fecero evaporare la spinta intrisecamente sovversiva dei No Global che, nel giro di pochi anni erano stati capaci di coordinarsi e agire in ogni dove in contemporanea, a volte anche al di là dei grandi vertici e della spettacolarizzazione del dissenso che li caratterizzava.

Per chi è nato dopo vale la pena ricordare che in quel luglio pochi avevano un telefono cellulare e quasi nessuno era dotato di telecamera o collegamento internet, non esistevano i social media, ma solo mailing list e la rete Indymedia. Eppure ci sentivamo fortemente connessi, collegati, capaci di creare reti transnazionali.

La spettacolarizzazione del conflitto e la scommessa del radicamento.

L’enorme attenzione mediatica che precedette le giornate del G8 indusse alcune componenti del movimento No Global a cercare di conquistarsi un ruolo nel grande spettacolo. In un modo o nell’altro. Le tute bianche credevano di poter continuare a mimare un conflitto radicale, con due spintoni e qualche metro in più concordato con la polizia, ma subirono una dura lezione di dottrina dello stato. I Black Bloc vennero a Genova replicando le stesse pratiche delle mobilitazioni precedenti, ma non capirono che la situazione genovese era ben diversa, e alla fine recitarono – probabilmente senza accorgersene – il copione che gli era stato cucito addosso. Non solo. La rivolta di strada agita da soggettività spurie come gli ultras delle curve o i ragazzi dei vicoli genovesi a cavallo di vespe e motorini diede un altro volto ad una rivolta di piazza rispetto alle azioni del Black Bloc, radicali ma simbolicamente mirate ai simboli ed ai luoghi del lusso e del potere. Gli autonomi provarono senza successo a togliere il palcoscenico alle tute bianche e vennero colti alla sprovvista dalla radicalità del Black Bloc. Il blocco rosa imparò a proprie spese che la nonviolenza funziona solo se dall’altra parte c’e un avversario, perché quando l’avversario si rivela un nemico, non c’è spazio per la disobbedienza civile.

 La vasta galassia dell’associazionismo pacifista e neo-riformista della “società civile” ricevette una dura lezione a suon di manganellate su cosa sia la democrazia reale ma non imparò nulla da questa esperienza, continuando negli anni a venire a parlare di democrazia tradita.

Gli anarchici contro il G8, cui facevano riferimento buona parte degli anarchici e delle anarchiche di lingua italiana che scelsero di andare a Genova, fecero una scelta diversa. Decidemmo di fuggire il circo mediatico, le dichiarazioni roboanti, la sfida alla zona rossa, dove si riunivano i capi di Stato del G8.

Scegliemmo Sanpierdarena, la Genova proletaria, quella delle grandi lotte operaie, molto distante sia fisicamente che simbolicamente dalle recinzioni della zona rossa.

Puntammo sullo sciopero generale, costruendo faticose alleanze con settori del sindacalismo di base ed autogestionario, creammo comitati di sciopero in diverse città, che diedero vita ad assemblee territoriali. Puntavamo sulla radicalità degli obiettivi e sul radicamento sociale. Sul numero di Umanità Nova che venne diffuso a Genova scrivevamo: “Le manifestazioni internazionali, come quella odierna di Genova, sono state e saranno importanti perché riescono a di mettere in luce il carattere distruttivo, violento, irriformabile dei vari organismi sovranazionali, ma non possono rappresentare il punto centrale di un percorso che deve, necessariamente, svilupparsi altrove. La forza di questo movimento è nella capacità di coniugare radicalità e radicamento, agire e pensare localmente ed agire e pensare globalmente e non deve inaridirsi nella mera contestazione dei vertici dei potenti. Altrimenti si rischia di diventare una sorta di “tour operator” della contro globalizzazione, specializzati in viaggi in paesi esotici. Una specie di Camel trophy della sovversione, con tanto di emozioni già programmate. O, peggio, di fare da sponda di movimento ad un’esangue sinistra istituzionale a caccia di poltrone e di volti nuovi. Al Genoa Social Forum hanno preso parte politicanti di ogni risma bisognosi di legittimazione. (…)

Questo è un mondo che corre, corre sempre più in fretta, ed altrettanto in fretta macina esperienze, percorsi ed anche i movimenti sociali che non sanno sottrarsi allo spettacolo, alla logica folle che, mimando insensatamente le regole imposte dal marketing, consuma rapidamente, rendendola improvvisamente desueta, persino la capacità di critica, oltrepassamento, negazione dell’istituito.

È una trappola da schivare, spiazzando l’avversario, moltiplicando la propria capacità di dissodare terreni nuovi, zone autonome, spazi liberi. Per superare le numerose empasse in cui rischia di bloccarsi occorre che il movimento sappia spargersi sul territorio come polvere, costruendo rapporti conflittuali che si alimentino della capacità di costruzione intenzionale di mondi altri, di relazioni altre, di vite altre. Ogni giorno, ovunque.

La tensione ad un’azione radicale che sappia trarre linfa da un radicamento profondo, da una progettualità capace di innervare profondamente il presente, può essere il segno di un movimento rivoluzionario capace di costruire il proprio futuro nell’oggi.

Come anarchici abbiamo cominciato, non senza difficoltà, a muoverci in questa direzione, l’unica capace di raccogliere le istanze più feconde di questi movimenti. Ma si può e si deve fare di più.”

Vent’anni dopo, pensiamo che quelle parole siano più attuali che mai.

La storia di questi due decenni ha infatti reso chiaro che, solo dove sono nati movimenti ampi che sono riusciti a coniugare una forte presenza territoriale con il metodo dell’azione diretta di massa (e non quindi solo delle minoranze di militanti), governi e padroni hanno avuto paura. In questo senso l’esempio del movimento No Tav in Val di Susa, senza volerne fare un mito, è paradigmatico.

La scelta di provare ad essere radicali e radicati è quindi per noi il lascito principale di quei giorni di luglio, una scommessa che si rinnova ogni giorno nelle lotte che promuoviamo ed attraversiamo. Un’azione costante di sottrazione conflittuale dall’istituito che si coniuga con la pratica dell’autogestione e della lotta quotidiana.

La strada è ancora in salita. Il movimento No Global perse la sua partita quell’estate. Da allora i movimenti sociali solo occasionalmente, a livello locale, sono riusciti ad impensierire i potenti della terra.

Ma le ragioni di allora sono oggi ancora più forti.

 

FD & MM

(Quest’articolo è uscito sull’ultimo numero di Umanità Nova)



lunedì 19 luglio 2021

L'anarchismo antiorganizzatore

Come è noto, la critica di Bakunin nei confronti dell'Internazionale marxista coinvolge i concetti di autorità, burocrazia e centralismo, tutti elementi ritenuti dannosi per il movimento rivoluzionario. Da lì in avanti gli anti-autoritari dibattono e sviluppano ulteriormente il tema dell'organizzazione.

La sezione italiana della Prima internazionale è una associazione allo stesso tempo socialista, anarchica, comunarda, collettivista, atea, rivoluzionaria e federalista. Organizza diversi congressi regionali tra il 1871 e il 1880, anche se dal 1880 è indebolita a causa della continua repressione. Include quattro diverse tendenze: l'evoluzionista, la socialista rivoluzionaria, la comunista anarchica, l'individualista.

L'anarchismo nasce dalle sue ceneri, è un movimento plurale che comprende militanti favorevoli all'organizzazione, oltre ai cosiddetti anti-organizzatori, individualisti e amanti della “propaganda del fatto”.

Un processo di organizzazione in “partito”, come lo definisce anche Malatesta, nel senso di “associazione fra anarchici”, comincia al congresso di Capolago del 1891. È però una dinamica lenta e Capolago è una tappa di un cammino molto lungo e difficile: il convegno nazionale successivo si sarebbe svolto sedici anni dopo a Roma (1907), e dopo di esso sarebbero passati altri otto anni prima di un nuovo appuntamento nazionale (Pisa, gennaio 1915). La fine della prima guerra mondiale e la rivoluzione russa sono tra i fattori che contribuiscono ad accelerare il processo di organizzazione: alla fine degli anni Dieci si tengono vari convegni e congressi che sfociano nella fondazione dell'Unione comunista anarchica italiana nel 1919, che diventerà l'Unione anarchica italiana nel 1920.

La maggioranza degli anarchici italiani è anti-organizzatrice fino alla fine degli anni Dieci e molti anche dopo. Bisogna dire però che da una parte costoro, nonostante tale definizione, non rifiutano di organizzarsi, dall'altra grosse differenze li separano dagli individualisti, cui spesso vengono erroneamente accomunati. Questi ultimi sono influenzati dalle idee di Max Stirner, spesso mescolate con influenze nicciane. Più che Stirner e Nietzsche a formare il retroterra politico degli anti-organizzatori sono invece Bakunin, Kropotkin, Gori, Reclus ecc. Al contrario degli individualisti, gli anti-organizzatori riconoscono il valore dell'azione collettiva e il ruolo del proletariato nel processo rivoluzionario.

Anche se il tema dell'organizzazione è sempre oggetto di dibattito nel movimento, ben pochi anarchici rifiutano nei fatti il concetto di organizzazione. Infatti gli antiorganizzatori negano la validità di qualsiasi struttura formale stabile e continua perché in essa vedono i primi segni dell'elitismo e della burocrazia, ma ciò non toglie che essi ritengano utile organizzarsi praticamente per migliorare la propria azione rivoluzionaria. 


 

venerdì 16 luglio 2021

Fascismo democratico o demo-fascismo

Il fascismo, sotto nuove sembianze, è il destino della Democrazia, la sua verità e il suo futuro, ciò a cui mira. il luogo a cui ci conduce, la sua essenza spostata è posticipata.

La democrazia rappresentativa conduce a un fascismo di nuovo conio e, globalizzandosi  come formula di organizzazione politica, ai giorni nostri si mondializzato anche questo neo-fascismo in quanto conclusione dell'Umanità.

Stabilita questa affinità di fondo tra fascismo e democrazia, niente esclude che il primo possa succedere alla seconda - o, meglio, sovrapporsi - soprattutto se si adopera un concetto ampio, poco limitativo, dello stesso. Nell'elaborazione di questo concetto ampio di fascismo, che ammetterebbe una diversificazione considerevole nelle sue manifestazioni e legittimerebbe l'idea di un fascismo di nuovo conio - con un formato diverso da quello antico, pur identificandosi nelle sue caratteristiche fondamentali che l'hanno generato - .

L'assenza di resistenza interna (assenza di opposizione degna di nota, di critica, di contestazione; Ovvero docilità della popolazione) e l'espansionismo verso l'esterno (belligeranza, brama di universalizzazione) costituirebbero le due caratteristiche principali che definiscono il fascismo come fenomeno socio-politico insieme alla volontà di sterminare la Differenza (differenza culturale, psicologica, politica economica...).

Queste tre caratteristiche accomunano le esperienze tedesca italiana di fascismo - i cosiddetti fascismi storici -  ai modelli di formazione dello spazio sociale (norme per il governo delle popolazioni,  modalità di gestione socio-politica) che tendono a caratterizzare i regimi demo-liberali.

Si potrebbe parlare così di un neo-fascismo sovrapposto, in grado maggiore o minore, all'apparato politico della democrazia (elezioni, parlamento, partiti. Etc); un neo fascismo delle e nelle democrazie - fascismo democratico o demo-fascismo - non so se venturo ho già installato nella nostra società.

martedì 13 luglio 2021

La povertà modernizzata

 

La povertà modernizzata non consiste nella iniqua distribuzione della ricchezza, ma nella frustrazione prodotta da quelle istituzioni che create per migliorare la condizione umana, finiscono invece con il peggiorarla, privando l’uomo di quelle capacità di far fronte autonomamente alle difficoltà e alle necessità che gli si presentano nel corso della sua vita. Questo tipo di povertà si manifesta quando l’intensità della dipendenza dal mercato arriva a una certa soglia.

Essa non fa altro che privare le sue vittime della libertà di vivere in maniera autonoma e creativa riducendole a sopravvivere solo perché, e solo se, inserite in relazioni di mercato.

La controproduttività è cosa diversa dalle esternalità negative e indesiderabili. Sono esternalità indesiderabili i danni degli incidenti automobilistici, la degradazione ambientale, il carico fiscale di scuole e ospedali, superiore a quanto la maggior parte delle economie riesce a tollerare, le “città fantasma” che nascono in funzione delle strade e impoveriscono il paesaggio rurale e urbano, la distruzione di arti antiche e mestieri, la produzione e l’accumulo di rifiuti tossici, la creazione di costosi cimiteri per i rifiuti industriali. Le esternalità rappresentano costi che sono “al di fuori” del prezzo pagato dal consumatore per ciò che acquista ma che ricadranno a un certo punto su di lui, sugli altri o sulle generazioni future.

La controproduttività invece è un tipo di delusione, “interno” all’uso stesso della merce acquistata ed è componente inevitabile di tutte le istituzioni moderne. Ogni settore importante dell’economia produce le proprie contraddizioni. Ogni opera ha necessariamente degli effetti contrari a quelli per cui è stata strutturata.

Gli economisti sono incapaci di quantificare le conseguenze interne negative e di misurare la frustrazione intrinseca dei clienti prigionieri di un dato prodotto.


domenica 11 luglio 2021

Vivere la propria vita da protagonisti

Una società anarchica è, di per se stessa, comunista, essa sarà definibile una volta che noi ci saremo liberati dal peso di tutte le gerarchie interne ed esterne e avremo abbattuto tutti gli ordinamenti statali-capitalisti. Sarà definita quando ognuno sarà posto nella condizione materiale di poter seguire liberamente, senza alcuna ingerenza autoritaria, le sue particolari e inimitabili inclinazioni, fuori da tutti i tabù e da ogni genere di catene e inibizioni sociali.

E’ logico che questo modo di vedere la questione del vivere individuale e sociale porti a dar corso a nuove e più attraenti forme di vita liberata. Nella visione anarchica rivoluzionaria, il comunismo appare epurato da tutti i suoi più odiosi aspetti religioso-autoritari e viene quindi valorizzato criticamente nei suoi aspetti positivi, in quanto non mutila ne appiattisce la personalità dei singoli che comunitariamente lo mettono in pratica, ma, al contrario, il loro associarsi dà modo di esaltare qualitativamente le singole diversità.

In sostanza, l’utopia anarchica è un invito rivolto agli uomini per vivere la propria vita da protagonisti e non da anonime comparse, dentro il corso vivo degli avvenimenti interni ad una umanità non più popolata da fantasmi, ma da individui in carne ed ossa, divenuti finalmente consapevoli della necessità che l’unico ordine sociale che si può riconoscere è quello in armonia con il proprio movimento di vita, con la propria incessante ricerca di libertà e di desideranti orizzonti.

Al mondo dei bisogni creato dal capitale è necessario opporre il mondo nuovo che ci portiamo dentro. Questo mondo si fonda sulla praticabilità realizzativa dei nostri più propri desideri. Al giorno d’oggi pensiamo che non sia più valido dire semplicisticamente che sarà un dato modo di produzione a definire concretamente una società anarcocomunista. L’atto del produrre, in senso libero, non può essere disgiunto dall’avvenuta soppressione del lavoro in quanto tale, verso una riscoperta del gusto artistico soppresso dalla produzione del consumo massificato. Vogliamo essere artisti e non semplici manovali-artigiani. Quindi, partiamo dalla reintegrazione in ciascun individuo di tutte le sue facoltà, manuali e intellettuali, trasformando l’attività umana in attività libera e creativa, in una parola, in attività artistica. Noi vogliamo realizzare la vita come arte, così non avremo più alcuna necessità di recarci ai musei, al cinema, al teatro, ecc. Concepiamo lo sviluppo produttivo, come un fine in se di accrescimento di libertà materiale, per se stessi e nel contempo per gli altri individui liberatisi dal peso delle costrizioni e rivolti esclusivamente, con passionalità, a praticare la realizzazione di tutti i propri singolari desideri.


giovedì 8 luglio 2021

Scegliere la pista dell’anarchismo

Viviamo tempi strani, dove poche bussole non risultano impazzite e le strade della libertà non sono asfaltate. Scegliere la pista dell’anarchismo è in primo luogo, una precisa scelta di campo.

E se il movimento libertario, nella sua molteplicità di approcci e tendenze, offre disponibilità al confronto e riconosce come compagni di lotta anche chi non condivide le idee anarchiche, questo non significa affatto che sia un ombrello sotto cui porre qualsiasi interpretazione personale dell’anarchia.

Si può essere individualisti o comunisti, organizzatori o antiorganizzatori, educazionisti o insurrezionalisti, ma comunque certi presupposti sono fuori discussione perché definiscono l’anarchismo stesso.

Nessuno/a è obbligato a condividerli, ma sia chiaro che alcuni punti sono fondamentali per l’anarchismo. Il rifiuto coerente di ogni potere (politico, militare, religioso ecc.), di ogni sfruttamento (sia questo capitalista o statale), di tutte le discriminazioni (razziste, di genere ecc.), delle diverse forme di coercizione (polizie, leggi, carceri, lager, sedie elettriche, torture, repressione, proibizionismo ecc.) non sono un di più, bensì punti fermi di un pensiero davvero alternativo e antagonista al dominio.

Un metodo incentrato sull’auto-emancipazione, attraverso l’impegno per l’autoformazione individuale, l’azione diretta e l’autogestione collettiva. Perché la liberazione è rivoluzione quotidiana, a partire dal proprio intessere relazioni e vivere in un mondo che certo non è il migliore possibile.

La libertà non ammette limitazioni da parte dei suoi nemici. Fuori da questi paletti c’è l’autoritarismo comunque mascherato o l’illusione riformista, ossia la convinzione di poter pacificamente umanizzare l’inumano. D’altra parte la libertà non è obbligatoria, così come nessuna/o è tenuto ad essere sovversivo.


martedì 6 luglio 2021

Impedire il saldarsi del fascismo e della miseria

Antifascismo oggi è anche impedire il saldarsi del fascismo e della miseria. È portare le ragioni della rivolta e della sovversione sociale là dove il potere prova a diffondere razzismo, discriminazione e lotte fra poveri. Senza esitazione, perché viviamo già nella catastrofe e il punto di non ritorno potrebbe anche essere alle nostre spalle.

Per muoversi, in prospettiva, verso una “buona vita” occorre mettere in campo molteplici azioni.

Da un lato un’iniziativa di carattere culturale il cui obiettivo sia ridare senso alle parole: quelle con le quali delineare lo stato di cose esistente e attraverso le quali immaginarci una società diversa.

Dall’altro lato – e come premessa necessaria –un’iniziativa di carattere sociale tendente a sottrarre le individualità all’anomia e infonder fiducia laddove c’è uno scoramento diffuso, mirando a de-segmentare il sociale: dare vita, cioè, a reti di solidarietà, alleanze e sinergie tra gruppi e individualità fondate su relazioni non autoritarie.

Come fare? Nel quotidiano, è bene continuare a resistere e a opporsi alle politiche del dominio, mettendo in collegamento l’antifascismo con tutte le altre attività e lotte che portano avanti, con l’obiettivo di produrre un ribaltamento si senso.

L’antagonismo anche nelle sue espressioni più lucide ed efficaci, non riesce ancora a innescare questo ribaltamento di senso. Anzi, rischia di creare ulteriore segmentazione nel momento in cui dà luogo a forme di auto-ghettizzazione, riproducendo politiche identitarie che nulla hanno a che fare con pratiche di liberazione e lotta al dominio.

Contemporaneamente, appare sempre più evidente come non ci sia spazio per ipotesi di riforma – per quanto radicale – dell’ordine delle cose. È necessario lavorare per una prospettiva rivoluzionaria che inverta la devastante direzione di marcia della società contemporanea.

(Tratto da un documento su “A” dei compagni e le compagne del circolo anarchico C. Berneri di Bologna)   


domenica 4 luglio 2021

Vivere controcorrente la vita

La rivoluzione non è più nel rifiuto della sopravvivenza, ma in un godimento di sé che tutto congiura ad interdire, a cominciare dai sostenitori del rifiuto. Contro la spettacolarizzazione del corpo e dei desideri, la sola arma alla portata di tutti è il piacere senza riserve e senza contropartita.

L’emancipazione non ha peggior nemico di chi pretende di cambiare la società e non smette di dissimulare, esorcizzandolo, il vecchio mondo che si porta dentro. Procuratori della rivoluzione, sniffatori di radicalità, bottegai del merito e del demerito, questi sono gli avversari corazzati di nevrosi contro cui va a urtare, con incredibile violenza, tutto quello che comincia a muoversi al ritmo di una vita senza coercizioni.

Vivere controcorrente la vita, questa è la norma. Pertanto il rovesciamento di prospettiva si opera sotto ai nostri occhi, scombussolando gli architetti dell’inversione. Esso segna la fine dell’era economica alla soglia dell’autogestione generalizzata. Tiene occupato il cuore di tutti e sta al centro delle condizioni storiche. Fonda sulla gratuità dei godimenti il sabotaggio del circuito mercantile che paralizza i muscoli e spezza i nervi per inibire il desiderio in nome del lavoro, del dovere, della costrizione, dello scambio, del senso di colpa, del controllo intellettuale, della volontà di potenza. In esso, ciò che uccide con le migliori delle ragioni, si separa da quello che spinge a vivere senza ragioni. In esso, il rifiuto della sopravvivenza è vinto dall’affermazione della vita insaziabile.

venerdì 2 luglio 2021

Il consenso come abdicazione della libertà

 La società dei consumi interiorizza semplicemente la costrizione sociale, trasformando la paura della repressione in vergogna della emarginazione. Il paradosso è che la libertà circolante nella democrazia dei consumi “libera” tutte le forme di licenza corruttrice ed oltretutto miope e contraddittoria in funzione di un unico scopo, quello dell’interesse esclusivamente individuale che, per corrispondenza all’abrasione sociale dell’individualità, elimina semplicemente la relazionalità come condizione e partecipazione all’umanità. Contestare le istituzioni significa, contestare questo monopolio espropriante che mantiene in uno stato di inferiorità e di dipendenza permanente anzi progressiva, gli individui che compongono la società e che invece di maturare attraverso e grazie ad essa sono costretti sempre più e in ogni campo ad obbedire a chi comanda con una giustificazione che riduce di molto la differenza tra metodi violenti e metodi democratici, quando questi si avvalgono di mezzi di persuasione che fanno del consenso una vera e propria abdicazione alla libertà di giudizio e cioè all’esercizio effettivo della coscienza.