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domenica 24 agosto 2025

Global Sumud Flotilla – Resistere per esistere

Dal Mediterraneo a Gaza: la più grande flottiglia civile mai organizzata per denunciare il genocidio e portare solidarietà al popolo palestinese

In questo momento drammatico della storia umana assistiamo al genocidio dei palestinesi di Gaza, e da questa parte del Mediterraneo ci sentiamo impotenti. Possiamo protestare, manifestare, boicottare prodotti e servizi legati a Israele, ma resta la sensazione di non riuscire a fermare una violenza che sembra inarrestabile. È difficile credere che un popolo possa essere annientato con tale crudeltà in nome di Dio, o nel nome di un unico modo di pensare e vivere il mondo.

Intanto, il fanatismo cresce non solo in una larga parte della società israeliana e della diaspora ebraica, ma anche fra alcuni dei nostri connazionali, che sostengono apertamente uno Stato impegnato in un processo di colonizzazione sistematica. Case, scuole, ospedali, uomini, donne e bambini vengono cancellati da quella che molti ancora oggi insistono a chiamare “l’unica democrazia del Medio Oriente”. Il tragico attentato del 7 ottobre è stato trasformato in vendetta, non in giustizia.

I dati sono drammatici: secondo un’indagine congiunta di +972 Magazine, Local Call e The Guardian, basata su un database interno dei servizi segreti israeliani, almeno l’83% dei palestinesi uccisi durante l’offensiva su Gaza erano civili. Le autorità di Gaza, citate da Al-Jazeera, denunciano che tra gli oltre 62.000 morti dall’inizio delle operazioni militari israeliane, il 7 ottobre 2023, ci sono almeno 18.885 bambini. A questo si aggiunge il blocco degli aiuti umanitari: l’ONU ha dichiarato che, solo da maggio, 1.760 palestinesi sono stati uccisi mentre cercavano cibo o beni di prima necessità.

La distruzione sistematica emerge anche in episodi apparentemente paradossali: come rivelato dal Guardian, le Forze di Difesa Israeliane hanno pubblicato inserzioni su Facebook per reclutare autisti di bulldozer destinati alla demolizione delle abitazioni di Gaza.

Di fronte a tutto questo, l’Europa appare paralizzata, incapace di decisioni univoche, mentre le Nazioni Unite si limitano a richiami formali senza conseguenze concrete. Con il sostegno politico di figure come Donald Trump, il premier israeliano Netanyahu porta avanti indisturbato la sua politica di occupazione e colonizzazione.

In questo scenario tremendo, noi che crediamo nel dovere di “restare umani” ci chiediamo se ci siano azioni concrete capaci di portare aiuto a una popolazione che, proprio perché continua a esistere, continua anche a resistere.

“Sumud” è una parola araba intraducibile con un solo termine. Racchiude fermezza, perseveranza, resilienza e resistenza. Non indica la lotta armata, ma un atteggiamento di forza silenziosa e ostinata. Per i palestinesi rappresenta al tempo stesso un simbolo nazionale, una strategia politica e un valore culturale.

Sumud è oggi anche il nome della più grande missione marittima civile mai tentata verso Gaza: la Global Sumud Flotilla.

La flottiglia partirà da Barcellona e da due porti italiani, con decine di imbarcazioni, il coinvolgimento di attivisti in 44 Paesi, una campagna coordinata a terra e l’obiettivo dichiarato di rompere il silenzio internazionale sul blocco e sulla negazione degli aiuti umanitari.

Già lo scorso giugno la coalizione aveva promosso una mobilitazione globale via terra, mare e aria. Ora, con un coordinamento internazionale senza precedenti, persone comuni — attivisti, medici, operatori umanitari, artisti, religiosi, avvocati, marinai — si sono unite nella convinzione della dignità umana e della forza dell’azione nonviolenta. «Pur provenendo da Paesi, fedi e convinzioni politiche diverse, siamo uniti da una verità comune: l’assedio e il genocidio devono finire. Siamo indipendenti, internazionali e non affiliati ad alcun governo o partito politico. La nostra fedeltà è alla giustizia, alla libertà e alla sacralità della vita».

Come racconta Maria Elena Delia, membro dello Steering Committee e referente per l’Italia del Global Movement to Gaza, il progetto nasce a seguito della Global March to Gaza, dove si è formata una rete internazionale coesa e competente. «Da qui è nata l’idea di un’azione via mare con un ordine di grandezza inedito anche per Israele. Il 31 agosto salperanno barche da Barcellona e da un porto del Nord Italia. Il 4 settembre partiranno altre imbarcazioni dalla Tunisia e dal Sud Italia». Questi percorsi si affiancano ai due corridoi principali già annunciati, definendo il profilo logistico dell’operazione nel Mediterraneo centrale.

Intanto, molti artisti e personalità pubbliche stanno diffondendo messaggi di sostegno sui social. Se i media tradizionali – non solo italiani – tendono a non dare spazio a Gaza e alle iniziative di solidarietà, possiamo essere noi a colmare questo vuoto: condividendo le informazioni, sostenendo i naviganti coraggiosi con donazioni e offrendo loro quella visibilità che rafforza non solo la loro missione, ma anche la nostra stessa coscienza civile.

  

domenica 20 luglio 2025

La viltà sionista e i suoi oppositori

Il Governo sionista di Israele – dopo tutti i mezzi più infami e subdoli di cui si è servito per perseguitare, derubare, abusare i diritti del popolo palestinese – è arrivato anche a questo, nella forma di un attacco proditorio contro una donna straordinaria, armata solo del suo pensiero, della sua dirittura morale e di un esemplare senso del dovere verso i cittadini del mondo: la rapporteur delle Nazioni Unite per la questione palestinese, Francesca Albanese. Non potendo contrastare da solo la forza etica della Albanese, è andato a piagnucolare dal suo protettore/servitore, il gorilla a stelle e strisce, il quale, nel quadro di una relazione simil-mafiosa, ha “picchiato” la coraggiosa funzionaria dell’Onu, agendo per conto dei sionisti che, nella loro viltà, hanno paura di misurarsi alla pari con la dignità degli argomenti, perché non hanno né dignità, né argomenti. Il loro eroismo consiste nel perpetrare un genocidio nei confronti di un popolo indifeso e solo, ma non con le loro sole forze, bensì con l’aiuto del gorilla statunitense senza la cui forza si troverebbero di fronte alla miserabile radice della loro stessa viltà. Molte voci e iniziative si levano a contrastare questa vergogna che infanga i più elementari elementi di ogni civiltà che si voglia tale. Fra queste la candidatura di Francesca Albanese al premio Nobel per la pace avanzata da associazioni, movimenti e semplici cittadini.

Ogni giorno i cittadini del mondo ricevono notizie terrificanti sulla conta delle vittime del genocidio perpetrato giorno per giorno dai criminali sionisti con il sostegno e l’indifferenza complice dei loro sodali europei, statunitensi e occidentali in generale. Vengono invece sottaciuti o omessi eventi che accendono luci di speranza sul futuro del martoriato popolo palestinese e degli ebrei del mondo.

Un evento di grande importanza pratica e simbolica si è svolto a Vienna, nei giorni 11, 12 e 13 del giugno scorso: il Primo Congresso Mondiale degli ebrei antisionisti. Nel corso di questa assise, ebrei provenienti da ogni parte del pianeta hanno espresso giudizi molto duri e senza appello nei confronti del sionismo come ideologia e come fondamento del Governo di uno Stato che pratica dal momento della propria proclamazione forme di estrema violenza sistematica contro un intero popolo, ma anche forme di discriminazione gravi nei confronti di propri cittadini considerati inferiori.

Gli ebrei antisionisti respingono ogni proposta della cosiddetta soluzione due popoli due stati considerandola una truffa e gli contrappongono la soluzione di un solo Stato laico e democratico con gli stessi identici diritti per tutti i suoi abitanti. Una nuova presa di coscienza degli ebrei della diaspora ma anche in Israele della totale bancarotta delle promesse del sionismo è vitale per il futuro dell’Ebraismo stesso per ritrovare il proprio senso, che è antitetico rispetto al sionismo come da sempre sostengono anche alcuni gruppi dell’ortodossia ebraica.

Moni Ovadia, da Volere la Luna

venerdì 21 maggio 2021

Terra e libertà per il popolo palestinese

 

Palestina libera

Palestine libre

Free Palestine

Freies Palästina

Palestina libre

Palestina livre

Δωρεάν Παλαιστίνη

فلسطين حرة

ןשחררו את פלסטי

Filistîna azad

Palestina askea

Palestina lliure

Libera Palestino

Palestine an-asgaidh

無料のパレスチナ

自由巴勒斯坦

Palestina Am Ddim

Vapaa Palestiina

स्वतंत्र फिलिस्तीन

An Phalaistín Saor

Palestine Koreutu

Свободная Палестина

Falastiin oo xor ah

Befria Palestina

ฟรีปาเลสไตน์

Özgür Filistin

פּאַלעסטינע פריי

IPalestine yamahhala

Palestina Huru

 













 

Si dice che quando un disequilibrio economico o politico non può diventare guerra diventa crisi. La Palestina è quel territorio dove lo Stato d'Israele ha costruito una esteriorità interna su cui scaricare ogni crisi, in cui ogni crisi diventa guerra.

E quindi a più di un anno dall'inizio della crisi pandemica, con l'evidente gestione etnica della stessa, ecco che riparte l'aggressione al popolo palestinese, questa volta tra le strade di Gerusalemme per poi diffordersi a tutti i territori occupati fino a minacciare l'intervento militare nella Striscia di Gaza che da giorni fa nuovamente i conti con le decine di morti quotidiani per i bombardamenti. Torna subito alla mente l'operazione Piombo Fuso che nel dicembre 2008 si inseriva nel quadro di un'altra crisi, quella finanziaria globale.

La crisi poi è anche quella del quadro istituzionale, tanto israeliano quanto palestinese. In Israele si sono celebrate da poco le quarte elezioni in due anni che non sono comunque state in grado di consegnare un governo al paese. Sembrava che per la prima volta da più di un decennio ci potesse essere un cambio di leadership, con il premier Benjamin Netanyahu appesantito da tre accuse di corruzione, e una complessa frammentazione del panorama politico. Ma gli scontri delle ultime settimane, con l'evidente intento di solleticare la pancia dell'ultradestra e dei movimenti dei coloni, hanno sortito il loro effetto. Oggi il leader della formazione Yamina, Naftali Bennet, ha sostanzialmente annunciato che sosterrà Netanyahu nella formazione di un nuovo governo.

Allo stesso tempo lo scenario politico palestinese sta vivendo una nuova trasformazione. Se le accuse di corruzione e complicità con gli israeliani rivolte ad Al Fatah hanno visto un sotanziale deteriorarsi della credibilità politica di Abu Mazen e della sua consorteria politica, allo stesso tempo anche Hamas, per quanto salda al controllo della Striscia di Gaza, sembrava stare vivendo negli ultimi anni una crisi di leggittimità. Nuove opzioni iniziavano a palesarsi come quella la lista Hurriyah (Libertà), guidata da Barghouti (uno dei leader della prima e della seconda Intifada tuttora in carcere). Tanto che alla fine le elezioni previste per il 22 maggio, le prime in 15 anni, a cui tra l'altro si erano iscritti oltre il 90% dei palestinesi, sono state infine rinviate. 

La novità sta anche nelle dinamiche dal basso che si sono date: le proteste contro lo sfratto delle famiglie palestinesi di Sheikh Jarrah, le notti di scontri sulla Spianata delle Moschee e il diffondersi di mobilitazioni in tutte le località della Palestina con una forte presenza araba hanno dimostrato una vivacità e un'indisponibilità dei settori popolari che non si vedeva da tempo e che alcuni avevano già archiviato come processi ormai storicizzati concentrandosi unicamente sul conflitto nei pressi della Striscia di Gaza.

In questa guerra come politica, in questo sporco gioco poi ad essere ulteriormente vomitevoli sono le reazioni internazionali con la politica italiana che si allinea bipartisan sotto la bandiera d'Israele sporca di sangue palestinese e la leadership europea che assiste imbarazzata condannando le violenze "da entrambe le parti", ponendosi persino alla destra di Biden che reputa "eccessiva" la reazione israeliana. 

È necessario come non mai dunque prendere posizione in questo conflitto, leggerlo alla luce dell'attualità e delle tendenze che mostra, ed essere consapevoli che la lotta palestinese per la vita e la dignità è anche la nostra lotta, la lotta di chiunque si oppone a questo modello di sviluppo e di organizzazione sociale in piena decadenza.


mercoledì 8 ottobre 2014

Resistenze nascoste in Palestina


Anche se media e libri di storia fanno di tutto per negarlo e nasconderlo, quella in Palestina resta prima di tutto una straordinaria storia di resistenza pacifica. Dalle ribellioni contro le politiche coloniali britanniche degli anni ’20, come il grande sciopero del 1936 durato sei mesi, fino alle forme attuali di resistenza quotidiana, in primis andare a scuola e non smettere di lavorare durante l’occupazione sempre più violenta. Uno dei passaggi di questa non-storia è la Giornata della Terra, quando il 30 marzo del 1976 migliaia di palestinesi cittadini d’Israele si riunirono per protestare contro la decisione del governo  di espropriare 60.000 dunam (60 chilometri quadri) di terre palestinesi nella Galilea: naturalmente la polizia israeliana reagì con violenza, causando la morte di sei palestinesi e ferendone centinaia. Non si tratta di spiegare ai palestinesi come dovrebbero resistere di fronte a uno degli eserciti più potenti del mondo, ma di riconoscere nella ribellione quotidiana di migliaia di persone comuni storie di speranza e dignità. Del resto, cosa sono le proteste di ogni giorno, le dimostrazioni di massa, i rifiuti di pagare tasse, i boicottaggi economici, gli scioperi dei lavoratori, le aperture di scuole comunitarie illegali, le azioni di distruzione di documenti d’identità emessi dalle autorità israeliane, gli scioperi della fame nelle prigioni israeliane, le proteste contro il Muro?