..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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giovedì 28 marzo 2019

La Comune di Louise Michel

La proclamazione della Comune fu splendida. Non era la festa del potere, ma la cerimonia del sacrificio: si sentiva che gli eletti erano votati alla morte. Il pomeriggio del 28 marzo, sotto un sole magnifico che ricordava l'alba del 18, il 7 germinale, anno 79 della repubblica, il popolo di Parigi che il 26 aveva eletto la propria Comune, inaugurò la sua entrata nel palazzo di città.
Un oceano umano sotto le armi, le baionette ritte e spesse come le spighe di un campo; lo squillare delle trombe e i tamburi che rullavano sordamente, battuti dai due inimitabili tamburini di Montmartre, quegli stessi che nella notte in cui entrarono i Prussiani svegliarono Parigi: le bacchette spettrali e i loro pugni di acciaio evocavano suoni strani. Ma questa volta le campane erano mute: il rombar pesante dei cannoni, ad intervalli regolari, salutava la rivoluzione. E le baionette si abbassavano davanti alle bandiere rosse, che a gruppi circondavano la statua della Repubblica. In alto un gran vessillo rosso. I battaglioni di Montmartre, Belleville, La Chapelle hanno le loro bandiere sormontate dal berretto frigio: si direbbero le reclute del 93. Negli squadroni, soldati di ogni arme, rimasti in Parigi: fanteria, marina, artiglieria, zuavi. Le baionette sempre più fitte occupano anche le vie laterali; la piazza è piena: sembra un campo di grano. Tutta Parigi è in piedi: il cannone a intervalli tuona. In una tribuna sta il comitato centrale: davanti i membri della Comune, tutti con la sciarpa rossa. Poche parole fra un colpo e l'altro dell'artiglieria. – Il Comitato dichiara scaduto il proprio mandato, e rimette il potere alla Comune. Si fa l'appello degli eletti. Un urlo immenso si eleva: «Viva la Comune». – I tamburi battono a battaglia, i cannoni rompono i raggi del sole.– In nome del Popolo – dice Ranvier – la Comune è proclamata! Viva la Comune!
Tutte le musiche suonano la Marsigliese e il Canto della partenza. Un uragano di voci ne ripete il ritornello. Tanti vecchi abbassano la testa verso terra: si direbbe che ascoltino la voce dei martiri della libertà. L'unico potere che avrebbe potuto far qualcosa era la Comune, composta d'uomini d''intelligenza, di coraggio, di onestà a tutta prova, i quali tutti avevano dato incontestabili prove di devozione e di energia. Il potere invece li annientò, non lasciando loro che un'indomabile volontà per il sacrificio: seppero morire eroicamente. Ma il potere è maledetto, e per questo io sono anarchica.
La sera stessa del 28 marzo, la Comune tenne la sua prima seduta, inaugurata con atto degno della grandezza di quel giorno: fu deciso infatti, per evitare questioni personali, nell'ora in cui gli individui dovevano entrare nella massa rivoluzionaria, che i manifesti non avrebbero portato altra firma che questa: La Comune.
Fin da questa prima seduta, alcuni non vollero compromettersi oltre, e dettero le loro immediate dimissioni. E siccome queste dimissioni obbligavano a delle elezioni complementari, così Versailles poté mettere a profitto il tempo che Parigi perdeva intorno alle urne. Ecco la dichiarazione fatta alla prima seduta della Comune:
“Cittadini, La nostra Comune è costituita: il voto del 26 marzo
sanziona la Repubblica vittoriosa. Un potere vigliaccamente oppressore vi aveva preso alla gola, voi dovevate nella nostra legittima difesa respingere questo governo che voleva disonorarvi, imponendovi un re. Oggi i delinquenti, che voi non avete voluto neppure perseguitare, abusano della vostra magnanimità per organizzare alle porte della città un focolare di cospirazione monarchica; invocano la guerra civile, mettendo in opera tutte le corruzioni, accettando tutte le complicità, osando mendicare persino l'appoggio dello straniero. Noi ci appelliamo, contro questi raggiri, al giudizio della Francia e del mondo.
Cittadini, voi ci avete dato degli statuti che sfidano tutti i tentativi. Voi siete padroni del vostro destino; e forte del vostro appoggio, la rappresentanza che avete eletta riparerà ai disastri causati dal potere caduto. L'industria compromessa, il lavoro sospeso, i trattati di commercio paralizzati stanno ora per ricevere nuovo vigoroso impulso. Fin da oggi è stabilita l'attesa deliberazione sugli affitti, domani avrete quella sulle scadenze. Tutti i servizi pubblici ristabiliti e semplificati. La guardia nazionale, ormai unica forza armata a difesa della città, sarà organizzata. senza indugio. Questi saranno i nostri primi atti. Gli eletti dal popolo altro non domandano, per il trionfo della Repubblica, che di essere sostenuti dalla vostra fiducia. Quanto ad essi, faranno il loro dovere”.
Tratto da La Comune di Parigi, di Louise Michel

venerdì 22 marzo 2019

Tekoser era anarchico

Orso, Tekoser, Lorenzo era anarchico e combatteva in un battaglione di anarchici. Oggi viene onorato da tutti, persino dal Ministro dell’Interno, lo stesso ministro che, se Lorenzo fosse tornato vivo dalla Siria, lo avrebbe trattato da delinquente.
La prossima settimana il tribunale di Torino deciderà sulla richiesta di sorveglianza speciale per cinque volontari torinesi, considerati socialmente pericolosi, per aver appreso l’uso delle armi.
Gli anarchici qualche volta diventano eroi ma solo da morti, quando l’ultimo sfregio che si può fare loro è annebbiarne la memoria falsificandola. In questo, i macellai dello Stato Islamico, che gli hanno imposto l’etichetta di “crociato” e i politici italiani, che mettono la sordina sulla sua storia e lo usano per le loro crociate, sono fatti della stessa pasta.
Numerose iniziative per ricordare Lorenzo e la sua lotta sono in cantiere.
A Firenze il prossimo 31 marzo è stata lanciata una manifestazione nazionale.
A Torino, il 25 marzo alle 8,30 presidio davanti al tribunale di Torino per l’udienza per la sorveglianza speciale, alle 17 presidio in piazza Castello per Orso, Tekoser, Lorenzo.
Di seguito un’intervista di Radio Blackout a Paolo “Pachino” Andolina, già membro delle formazioni di autodifesa in Siria, uno dei cinque torinesi che rischiano di diventare sorvegliati speciali. Paolo ha conosciuto Lorenzo in Siria e sa che la promessa reciproca di rivedersi in Italia non potrà essere mantenuta.
Lorenzo per sua volontà sarà seppellito lì dove ha vissuto e combattuto nell’ultimo anno e mezzo.






giovedì 21 marzo 2019

Io sono un partigiano della Comune di Parigi

"Io sono un partigiano della Comune di Parigi, che pur essendo stata massacrata, soffocata nel sangue, dal boia della reazione monarchica e clericale, non ne è diventata che più vivace, più possente nell'immaginazione e nel cuore del proletariato d'Europa, e soprattutto ne sono il partigiano perché essa è stata una audace, caratteristica negazione dello Stato".
"La Comune di Parigi è durata poco, ed è stata troppo ostacolata nel suo svolgimento interno dalla lotta mortale che ha dovuto sostenere contro la reazione di Versailles, perché essa abbia potuto, non dico applicare, ma nemmeno elaborare teoricamente il suo programma socialista. D'altronde, bisogna riconoscerlo, la maggioranza dei membri della Comune non erano propriamente socialisti, e se essi si sono mostrati tali, ciò si deve al fatto che essi sono stati ineluttabilmente trascinati dalla forza delle cose, dalla natura del loro ambiente, dalla necessità della loro posizione, e non dalla loro intima convinzione".
"L'abolizione della Chiesa e dello Stato deve essere la prima ed indispensabile condizione della liberazione reale della società; soltanto dopo ciò essa potrà e dovrà organizzarsi in un'altra maniera, ma non dall'alto in basso e secondo un piano ideato e sognato da qualche saggio o da qualche sapiente, oppure per decreti emanati da forze dittatoriali, od anche da un'assemblea nazionale eletta a suffragio universale. Un tale sistema come ho già detto, condurrebbe inevitabilmente alla creazione di un nuovo Stato e conseguentemente alla formazione di una aristocrazia governativa, cioè di un'intera classe non avente nulla in comune con la massa del popolo e che certo comincerebbe a sfruttare e ad assoggettare questa, col pretesto della felicità comune o per salvare lo Stato. La futura organizzazione sociale deve essere fatta dal basso in alto, per mezzo della libera associazione e della federazione dei lavoratori; prima nelle associazioni, poi nei comuni, nelle regioni, nelle nazioni, e, finalmente, in una grande federazione internazionale ed universale. Allora soltanto si realizzerà il vero e vivificante ordine della libertà e della felicità generali; quell'ordine che, lontano dal rinnegare, afferma al contrario ed accomuna gli interessi degli individui e della società".

Michail Bakunin



mercoledì 20 marzo 2019

Gilet gialli, acte XVIII: all’assalto del cielo

Sabato 16 Marzo,“retours aux bases pour nouvelle phase” (ritorno alle origini per la nuova fase)
Per questo diciottesimo atto i Gilets Jaunes hanno chiamato a raccolta tutta la popolazione francese per imporre un “ultimatum” decisivo al governo; «l’assalto al cielo» echeggia negli innumerevoli appelli con l’obiettivo di destituire Macron.
Dal 17 novembre ci sono stati diciassette atti, diciassette sabati di blocchi, manifestazioni e rivolte, quattro mesi di conflitto sociale di una determinazione, una potenza e una repressione inedite. Per questo 16 marzo, preannunciato dunque come un sabato “diverso” dagli altri, gli appuntamenti della giornata erano innumerevoli e dislocati in diversi punti della città, fra cui due grandi cortei nazionali, contro le violenze poliziesche e il razzismo di Stato e per l’emergenza climatica.
Fin dalle prime ore del mattino migliaia di manifestanti si sono riversati sugli Champs-Élysées, partendo dai quattro appuntamenti che li ha visti arrivare dalla Gare du Nord, Gare de St Lazare, Châtelet e Montparnasse divisi per regioni.
Il dispositivo di sicurezza è riuscito a contenere la maggior parte del disordine negli Champs e nei suoi immediati dintorni con forti schieramenti ai margini delle strade.
Gli scontri sono scoppiati intorno alle 11 quando tre mezzi della gendarmerie sono stati bersagliati e respinti dal viale e da quel momento, per quasi otto ore, Gilet Gialli e K-way neri hanno tenuto testa alla polizia fra sampietrini e granate. Per ore si sono susseguiti saccheggi, come mai prima, al grido di “e ora paga Macron” in quasi tutti i negozi e le boutique, alcune banche sono state date alle fiamme, così come il ristorante di lusso “Fouquet’s” obiettivo simbolicamente importante poiché nel 2007 Sarkozy vi festeggiò la sua vittoria con una cena privata.
Nonostante il forte dispositivo messo in campo e l’area circoscritta la polizia è stata più volte incapace d’intervenire, questo perché, dato fondamentale, tutti hanno partecipato alla rivolta. Nessuno ha storto il naso, ha pensato dissociarsi o d’intervenire durante gli scontri con la polizia, il saccheggio o la distruzione dei negozi di lusso ma, al contrario ogni azione era accompagna da cori e acclamata con entusiasmo. 
Con questa composizione compatta, nonostante le diverse soggettività coinvolte, la via del lusso Parigino è diventata il simbolo di un nuovo potere ritrovato con un ulteriore salto politico del movimento: le violenze della polizia hanno raggiunto livelli tali da non lasciare più spazio alla dissociazione, l'ingenuità contro l'apparato repressivo dello stato è (quasi) completamente scomparsa e di conseguenza anche il principio del pacifismo.
Il bilancio della giornata è di circa duecento fermi e decine di feriti, ma il dato fondamentale è che dopo diciotto settimane ci sia ancora questo livello di conflittualità, una progressiva radicalizzazione del movimento che, mese dopo mese, sta acquisendo la consapevolezza che la “lotta paga” («Abbiamo preso coscienza che soltanto quando si spaccano cose veniamo ascoltati» titolava un inquieto virgolettato di Le Monde, andato a raccogliere le voci dei gilet). La giornata di sabato per i Gilet potrà essere l’ennesimo trampolino di lancio per l’inizio di una nuova fase politica e strategica? In ogni caso il tentativo di Macron di risolvere con le chiacchiere la crisi politica con il suo Grand débat (il grande dibattito) è definitivamente naufragato.
Oggi governo e media stanno provando a nascondere questa realtà collettiva con una “verità” ufficiale da sovrapporre; si parla di stabilire lo “stato d’emergenza”, di vietare ogni manifestazione sugli Champs elysées, di dare ulteriormente potere alla polizia e far credere che la rivolta sia stata scatenata da “Blak Block infiltrati” che avrebbero agito a margine della sfilata. 
Ma questa è una storia stanca a cui non crede più nessuno nemmeno ai vertici dello Stato, perché la realtà è che in Francia c’è una rabbia enorme, infuocata, unanime e condivisa.
“Se non partecipi alla lotta, partecipi alla sconfitta”

martedì 19 marzo 2019

A Lorenzo, partigiano ucciso dallo Stato Islamico

Mi chiamo Lorenzo, ho 32 anni, sono nato e cresciuto a Firenze. Ho lavorato per 13 anni nell’alta ristorazione: ho fatto il cameriere, il sommelier, il cuoco. Mi sono avvicinato alla causa curda perché mi convincevano gli ideali che la ispirano, vogliono costruire una società più giusta più equa. L’emancipazione della donna, la cooperazione sociale, l’ecologia sociale e, naturalmente, la democrazia. Per questi ideali sarei stato pronto a combattere anche altrove, in altri contesti. Poi è scoppiato il caos a Afrin e ho deciso di venire qui per aiutare la popolazione civile a difendersi [...] Sembriamo l’armata Brancaleone: siamo bellissimi”.

Orso era partito un anno e mezzo fa da Firenze, deciso ad unirsi alle YPG, a schierarsi dalla parte dei popoli che in Siria del Nord stanno portando avanti una rivoluzione. Deciso a difendere in prima linea le popolazioni civili della Siria e tutti quanti noi dalla barbarie dello Stato Islamico. Nel corso di questo anno e mezzo, Orso ha combattuto anche contro un altro nemico: il secondo esercito più grande della Nato, quello turco. Il boia Erdogan, oltre ad aver reso la Turchia corridoio di fuga per decine e decine di jihadisti nel corso di questi anni, ha schierato tutte le sue truppe all’attacco della rivoluzione del Rojava, bombardando civili in tutto il territorio del Kurdistan, dall’Iraq alla Siria, invadendo la città di Afrin e gettandola in pasto a milizie jihadiste che hanno saccheggiato villaggi, violentato e schiavizzato donne e uomini. E Orso, anche ad Afrin, ha combattuto in prima linea.
Orso è andato incontro a testa alta a una scelta difficile e grande, la scelta più grande: essere disposti a dare la vita per una causa giusta. Orso ha dato la vita per la libertà dei popoli della Siria, per una rivoluzione che parla a tutto il mondo di un’altra società possibile, che mette al centro le persone, che valorizza le differenze, che fa della lotta delle donne e dell’ecologia i suoi presupposti.
È grazie al coraggio di una scelta come la sua, che tantissime altre donne e uomini hanno fatto  in questi ultimi anni, che questa rivoluzione e le sue forze di difesa, le YPJ e le YPG, sono riuscite a resistere al secondo esercito della Nato, quello turco e a costringere lo Stato Islamico nella sua ultima roccaforte, Baghouz. Proprio lì, a un passo dall’annientamento di questi barbari tagliagole, Orso è caduto martire.
Orso era un ragazzo, come tante e tanti di noi. E il messaggio che ci manda ci dice una cosa molto semplice, ma la più vera: abbiamo la responsabilità di schierarci. Abbiamo la responsabilità di tracciare una linea tra noi e loro, tra la possibilità di una società giusta e la barbarie dell’oggi. Perché “ogni tempesta comincia con una sola goccia”, e insieme possiamo scatenare una tempesta addosso ai nostri nemici. Non può esistere libertà finché non saremo tutte e tutti liberi, non può esistere giustizia finché, insieme, non costruiremo un mondo più giusto, costi quel che costi. E la scelta di Orso ci insegna questo. Per questo lo ringraziamo.
Tutti noi abbiamo la responsabilità di portare avanti il suo esempio e la sua memoria, insieme a quella di Heval Hiwa Bosco, Giovanni Francesco Asperti, caduto lo scorso dicembre e quella di tutti i caduti della rivoluzione. Abbiamo la responsabilità di difendere il loro esempio e la loro memoria dagli sciacalli e dall’ipocrisia di chi alle nostre latitudini criminalizza coloro che hanno il coraggio di combattere dalla parte giusta.
Ciao Lorenzo, Orso, Heval Tekoşer Piling - partigiano dell’oggi.
La rivoluzione è un fiore che non muore. I martiri non muoiono mai.


“Ciao, se state leggendo questo messaggio è segno che non sono più a questo mondo. Beh, non rattristatevi più di tanto, mi sta bene così; non ho rimpianti, sono morto facendo quello che ritenevo più giusto, difendendo i più deboli, e rimanendo fedele ai miei ideali di giustizia, eguaglianza e libertà.
Quindi, nonostante questa prematura dipartita, la mia vita resta comunque un successo, e sono quasi certo che me ne sono andato con il sorriso sulle labbra. Non avrei potuto chiedere di meglio.
Vi auguro tutto il bene possibile, e spero che anche voi un giorno (se non l’avete già fatto) decidiate di dare la vita per il prossimo, perché solo così si cambia il mondo.
Solo sconfiggendo l’individualismo e l’egoismo in ciascuno di noi si può fare la differenza.
Sono tempi difficili, lo so, ma non cedete alla rassegnazione, non abbandonate la speranza; mai!
Neppure per un attimo.
Anche quando tutto sembra perduto, e i mali che affliggono l’uomo e la terra sembrano insormontabili, cercate di trovare la forza, e di infonderla nei vostri compagni.
E’ proprio nei momenti più bui che la vostra luce serve.
E ricordate sempre che “ogni tempesta comincia con una singola goccia”. Cercate di essere voi quella goccia.
Vi amo tutti, spero farete tesoro di queste parole”.
Serkeftin!
Orso,
Tekoser,
Lorenzo.

venerdì 15 marzo 2019

Il mito del cittadino


Per recuperare e disattivare la ribellione sociale, in primo luogo quella dei giovani, contraria alle nuove condizioni del dominio, quelle che obbediscono al meccanismo costruzione/distruzione/ricostruzione tipico dello sviluppo, si mette in movimento una visione degradata della lotta di classe, i cosiddetti movimenti sociali, tra cui quelli delle piattaforme.
Per quelli che non desiderano un altro ordine sociale, il mito del cittadino può vantaggiosamente sostituire quello del proletariato nei nuovi schemi ideologici. Il cittadinismo è il figlio più legittimo dell’operaismo e del progressismo entrambi antiquati. Non nasce per seppellirli, ma per rivitalizzare il cadavere. In un momento in cui non c’è dialogo più autentico di quello che può esistere tra i nuclei ribelli, esso pretende di dialogare solo con i poteri, aprire breccia da cui provare a negoziare. Ma la comunità degli oppressi non deve cercare di coesistere pacificamente con la società che opprime, poiché la sua esistenza non trova giustificazione che nella lotta contro questa.
Un modo diverso di vivere non deve basarsi sul dialogo e sul negoziato con le istituzioni portati avanti nel modo servile di prima. Il suo rafforzamento non verrà dunque né da una transazione, né da una qualsivoglia crisi economica, ma da una secessione di massa, da una dissidenza generalizzata, da una rottura drastica con la politica e il mercato. In altri termini, da una rivoluzione di nuovo tipo, una rivoluzione da inventare strada facendo. Poiché la strada opposta alla rivoluzione conduce non solo all’infelicità e alla sottomissione ma anche all’estinzione biologica dell’umanità.

mercoledì 13 marzo 2019

La critica anti-industriale

Affinché la critica anti-industriale possa riempire di contenuti le lotte sociali, deve nascere una cultura politica radicalmente diversa da quella che predomina oggi. È una cultura del No. No a qualunque imperativo economico, no a qualsiasi decisione dello Stato. Non si tratta quindi di partecipare all'attuale gioco politico per contribuire in un modo o nell'altro ad amministrare lo stato presente delle cose. Si tratta piuttosto di ricostruire tra gli oppressi, al di fuori della politica ma all'interno del conflitto stesso, una comunità di interessi opposti a questo stato di cose. Per questo motivo, la molteplicità degli interessi locali deve condensarsi e rafforzarsi in un interesse generale, al fine di concretizzarsi in obiettivi precisi ed in alternative reali attraverso un dibattito pubblico. Una comunità siffatta deve essere egualitaria e guidata dalla volontà di vivere in un altro modo.
La politica anti-industriale si fonda sul principio dell'azione diretta e della rappresentanza collettiva, motivo per cui non deve riprodurre la separazione tra dirigenti e diretti che configura la società esistente. In questo ritorno al pubblico, l'economia deve ritornare alla domus, rivendicare quel che è stata, un'attività domestica.
Da un lato la comunità deve garantirsi contro qualsiasi potere separato, organizzandosi in maniera orizzontale attraverso strutture assembleari e controllando nel modo più diretto possibile i suoi delegati e rappresentanti, in modo che non si ricostituiscano gerarchie formali o informali. Dall'altro, deve interrompere la sottomissione alla razionalità mercantile e tecnologica. Non potrà mai controllare le condizioni della propria riproduzione inalterata se agisce altrimenti, ovvero se crede al mercato e alla tecnologia, se riconosce la seppur minima legittimità alle istituzioni del potere dominante o se adotta i suoi modi di funzionamento.

domenica 10 marzo 2019

La libertà passa per l’abolizione del lavoro


Il ritmo della società mercantile ha fin troppo determinato i corpi nella danza della paura, del disprezzo, dell’umiliazione, della vendetta, la danza dei carnivori, dei cacciatori, dei poliziotti, dei terroristi, dei burocrati. Non presentite la marcia felina e imprevedibile dei partigiani della vita ad oltranza, dei guerriglieri del godimento, dei poeti dell’autonomia improvvisamente coalizzati in una irreprimibile forza?
Come esiste una contaminazione del rapporto mercantile, così esiste anche un contagio della volontà di vivere. È adesso che daremo il colpo di grazia alla civilizzazione della morte, non con la forza delle cose, ma con il godimento che la dissolverà.
Le crisi si moltiplicano, e le scosse che fanno tremare il vecchio edificio statale ed economico non si contano più. C’è da credere che basterebbe un gran risata per seppellirlo.
Creare per il piacere, non è forse questo che si fa oggi nei luoghi stessi che hanno servito da modello all’organizzazione della nostra vita quotidiana, le fabbriche della produzione industriale? Un sabotaggio sempre più disinvolto trasformerà un reparto di costruzioni in una sala da gioco, cambierà un magazzino in un centro di distribuzione gratuita, si farà beffe delle parole dei capi e dei discorsi degli agitatori. Chi oserà impadronirsi della fabbrica per organizzare un’altra forma di lavoro? Tutto è stato prodotto, rubando alla creatività di milioni di operai. Perché stupirsi di veder uscire dallo smembramento sistematico delle fabbriche, dei reparti di progettazione, perché dubitare che possa nascere dalle rovine di questi modelli inariditi della merce, di che costruire le nostre dimore, i nostri piaceri, i nostri sogni, le nostre avventure, la nostra musica, i nostri vagabondare di terra, d’acqua, d’aria e di fuoco? 

venerdì 8 marzo 2019

Otto marzo. Primavera di lotta

Mimose, cene tra donne, retorica istituzionale sono diventate la cifra prevalente di tanti otto marzo. La giornata della libertà femminile si è trasformata in una sorta di San Valentino in rosa, dove fiori gialli si depositano sulle scrivanie, i banconi dei supermercati, al capezzale della nonna malata, sulle tute delle operaie. O magari infilzate tra la verdura nelle sporte delle casalinghe. Una festa innocua, dove si lavora e si vive come ogni altro giorno, dove la violenza quotidiana è rappresentata con scarpe e panchine dipinte di rosso.
Il femminismo si trasforma nel mero retaggio di un’epoca passata, assorbita in una parità formale, emendata dagli “eccessi” di chi, a partire da se, voleva sovvertire l’ordine. Morale, economico, gerarchico. Lo stigma dell’ideologia è lo strumento preferito dai nemici della libertà femminile. Uno stigma inappellabile che mira a trasformare un movimento sovversivo in una parentesi breve e folcloristica.
Da qualche tempo tira un’aria diversa. Un’aria che attraversa il pianeta, un’aria che lo scorso 26 novembre ha portato 200.000 persone ad attraversare le strade di Roma.
L’8 marzo è stato promosso uno sciopero generale contro la violenza maschile sulle donne, uno sciopero politico, come politico è il misconoscimento della violenza, declinata in affare privato, personale, accidentale.
Il movimento femminista cresciuto negli ultimi anni pone al centro la questione dell’identità, che non è biologica, ma politica e sociale. Questo movimento sta smontando la logica binaria che ha segnato altri percorsi. Una logica che mira al mero enpowerment femminile, con metodo lobbysta, che non spezza l’ordine gerarchico, ma tenta solo di scalarlo.
Oggi quel femminismo, quello della differenza, è ai margini di un movimento che ha fatto propria una prospettiva transfemminista e intersezionale.
Una prospettiva che colloca la lotta al patriarcato nei bivi dove si incrocia con questioni come la classe, la razza, la gerarchia.
Questo movimento sta cercando, tramite il confronto e la ricerca del consenso, di articolare un discorso pubblico sulla violenza contro le donne. Una violenza che ha i caratteri espliciti di una guerra planetaria alla libertà delle donne, alla libertà dei generi, alla libertà dai generi.
Gli spazi di autonomia che le donne si sono conquistate hanno incrinato e a volte spezzato le relazioni gerarchiche tra i sessi, rompendo l’ordine simbolico e materiale, che le voleva sottomesse ed ubbidienti. Il moltiplicarsi su scala mondiale dei femminicidi dimostra che la strada della libertà femminile è ancora molto lunga.
Il carattere disciplinare, punitivo della violenza maschile, nella descrizione tossica proposta dai media scompare. Dietro la supposta empatia con le vittime si cela uno sguardo obliquo, sin troppo consapevole del rischio insito nel riconoscimento del carattere eminentemente politico di gesti, che vengono circoscritti nella sfera delle relazioni, degli “affetti”, della “follia d’amore”. Ti amo da morire, ti amo tanto che decido di farti morire. Un alibi classico, divenuto parte della narrazione prevalente della violenza contro le donne.
Pestaggi, stupri, assassini, molestie finiscono sempre in cronaca nera, con pericolose oscillazioni in quella rosa.
Il dispiegarsi violento della reazione patriarcale viene ridotto ad uno scenario dove le donne recitano la parte delle vittime indifese, gli uomini violenti sono folli. La follia sottrae alla responsabilità, nascondendo l’esplicita intenzione disciplinante e punitiva.
La violenza maschile sulle donne è un fatto quotidiano, che nello specchio distorto dei media diventa una momentanea rottura della normalità. Raptus di follia, eccessi di sentimento nascondono sotto l’ombrello della patologia una violenza che esprime a pieno la tensione diffusa a riaffermare l’ordine patriarcale.
Se il carattere politico della violenza divenisse parte del discorso pubblico, avrebbe una potenza deflagrante, mettendo in soffitta l’ipocrisia delle quote rosa, delle pari opportunità, dei parcheggi riservati alle donne.
Tra i temi di questo 8 marzo di sciopero e lotta, la ferma volontà di rompere il silenzio e l’indifferenza, per sostenere un percorso di libertà, mutuo aiuto e autodifesa contro chi ci inchioda nel ruolo di vittime.
Forte è il rifiuto che la difesa delle donne diventi l’alibi per politiche securitarie, che usano i nostri corpi per giustificare strette disciplinari sull’intera società.
La critica femminista mostra le aporie di un discorso sull’eguaglianza, che si infrange nella materialità del vivere quotidiano, nei licenziamenti firmati in bianco, nel lavoro di cura non retribuito, nei ricatti e nelle molestie sessuali.
La crescita di precarietà e disoccupazione e la necessità di un reddito autonomo, nel dibattito in vista dell’8 marzo ha prodotto una nuova declinazione del “reddito di cittadinanza” traslato in “reddito di autodeterminazione”, da cui emerge con termini innovativi una trama logora. E pericolosa. Affidare alla tutela statale la propria autonomia è un ossimoro, figlio di una perdurante illusione statalista. Più interessante la tensione a liberarsi dalla condanna ai lavori di cura non retribuiti, che non trasferisca la servitù sulle donne più povere, spesso immigrate, sottoposte alla pressione familiare ed al ricatto delle leggi sul soggiorno.
L’intersezione tra la critica al lavoro salariato e alla società di classe e la lotta al patriarcato è un nodo da sciogliere.
Una riflessione seria sulla crescita di ambiti pubblici non statalizzati, né mercificati potrebbe aprire percorsi di sperimentazione che sciolgano le donne dal lavoro di cura, liberando dalle gabbie istituzionali bambini, anziani, disabili. Smontare il concetto di famiglia, per dar spazio ad una dimensione sociale più ampia, includente, libera, è un obiettivo che apre alla possibilità libera le donne dal lavoro di cura, in una prospettiva autogestionaria.
Le donne muoiono di parto e di aborto, perché la chiesa cattolica sta estendendo il proprio potere negli ospedali pubblici.
Discutere sul diritto all’obiezione di coscienza è una trappola, in cui è sin troppo facile cadere. Sull’Avvenire di qualche settimana fa, in risposta all’assunzione di due medici non obiettori al San Camillo di Roma, è comparso un editoriale in cui l’obiezione è indicata come strada maestra per rendere impossibile scegliere di abortire. Il vero nodo è la legge 194, la legge che, dopo la depenalizzazione dell’aborto, pose dei limiti alla libertà di scelta delle donne.
La 194 è una gabbia normativa, che i nemici della libertà femminile hanno imparato a usare. Viene confermato il principio che le leggi sono la rappresentazione ritualizzata dei rapporti di forza all’interno della società. Tante leggi, a posteriori definite “conquiste” sono state limitate concessioni a movimenti che miravano a ben di più.
Tra i punti dello sciopero dell’8 marzo c’è l’abolizione dell’obiezione di coscienza. Pur comprendendo e condividendo le ragioni di questa rivendicazione ritengo che si debba lavorare in altra direzione, perché la chiesa cattolica non ha alcun primato morale e sarebbe poco saggio regalargliene uno.
La questione non è la libertà dei medici di rifiutare di agire contro la propria coscienza, ma che si diano le condizioni perché nessuno limiti la libertà di scelta delle donne, perché nessuno ne metta repentaglio le vite, perché nessuno possa ricattarci, umiliarci, piegarci. Eravamo fuorilegge, siamo state messe sotto l’ombrello della legge, è tempo che si lotti per essere davvero libere, senza legge.
I sindacati, cui era stato fatto l’appello per l’indizione dello sciopero, hanno giocato la loro partita di immagine, senza tuttavia contribuire realmente a costruirlo.
Alcuni sindacati di base, USB, USI-AIT, SLAI Cobas, Cobas, hanno indetto lo sciopero generale, offrendo copertura alla giornata. Altri, come la Cub, lo hanno indetto solo in alcuni settori, come sanità e trasporti. Chi aveva indetto sciopero nella scuola per il 17 marzo ha respinto la richiesta di convergere sull’8, nel timore che le rivendicazioni di quello sciopero, venissero oscurate da quelle emerse dalle assemblee femministe. Una evidente miopia, visto il netto schieramento di Non Una di Meno contro la Buona Scuola varata dal governo Renzi.
Ambigua, ma molto corteggiata, la CGIL, facendo leva sulla diffusa ignoranza sulla libertà di sciopero, ha boicottato lo sciopero indicendo assemblee sindacali durante l’orario di lavoro. In corner la CGIL ha indetto sciopero nella scuola, mettendo a segno un doppio risultato, catalizzare la categoria sull’8, mettendo in difficoltà il sindacato di base ormai attestato sul 17, e recuperando parte dei consensi perduti non proclamando lo sciopero generale per l’8.
Ciascuno ha fatto il proprio gioco delle tre carte in una sfida che nessuno ha voluto cogliere sino in fondo.
 “Non una di meno” è un impegno che ciascuna si è presa con quelle che non ci sono più, nella consapevolezza che formulare un discorso politico ed un percorso di lotta sulla violenza è il primo passo per disarticolarla.
Lo sciopero, lanciato dalla rete delle argentine di Ni Una Menos, si è esteso a decine di altri paesi, tra cui l’Italia, dove in pochi mesi è nata e si sta sviluppando la Rete Non Una di Meno. È un percorso in crescita veloce, ma non sempre facile.
Il grande successo di questo movimento lo pone sul ciglio di un pendio scosceso, dove si intersecano modalità libertarie e tentazioni accentratrici, seduzioni stataliste e spinte autogestionarie, giochi istituzionali e radicalità politica. Il tutto condito da grande partecipazione, entusiasmo, voglia di fare e di mettersi in gioco. Non Una di Meno potrebbe essere importante laboratorio oppure normalizzarsi presto in strutture permanenti, incarichi rigidi, tutele politiche.
La partita è ancora aperta. Dipenderà anche dall’impegno dei libertari se la natura fluida, eccentrica, plurale di questo movimento riuscirà a durare e a costruire nel tempo spazi aperti di confronto e lotta.
Le assemblee locali sono i luoghi dove questa partita si può giocare meglio, perché più diretto è il rapporto con il territorio, più semplice la partecipazione, più chiare le partite di potere delle componenti autoritarie e riformiste.


giovedì 7 marzo 2019

Le donne della Comune di Parigi

Louise Michel
Ogni anno, in occasione della giornata internazionale dei diritti delle donne, i media si ricordano delle disparità che continuano ad esistere in mezzo a noi, uomini e donne, sia nel lavoro e salari, sia nella vita familiare e sociale; niente di veramente originale insomma! E non dimentichiamo le violenze verbali e fisiche che sopportano e pensiamo a tutte quelle donne di tutto il mondo che hanno poco o nessun diritto. Di questa disparità se ne deve parlare sempre, tutti i giorni, e dobbiamo parlare anche di come le donne, spesso sconosciute, hanno segnato la storia di tutta l’umanità, come soprattutto, le donne della Comune di Parigi, cui dobbiamo così tanto!
Molte sono diventate famose, come Louise Michel, Elisabeth Dmitrieff o Nathalie Lemel, ma migliaia rimangono sconosciute. La maggior parte di loro erano donne operaie, e alcune, convinte da concetti femministi e socialisti, provenivano da ambienti benestanti. Tutte erano ammirevoli per il loro valore, ardore e abnegazione.
Il ruolo delle donne, nella Comune di Parigi, è stato importante, anzi determinante, lo hanno dimostrato il 18 marzo 1871, il primo giorno della Comune; furono loro che invocarono l'insurrezione. Louise Michel e molte parigine impedirono alle truppe inviate dal governo di recuperare i cannoni di Montmartre e convinsero i soldati a fraternizzare con gli insorti.
Il 9 aprile 1871, sotto la guida di un’operaia rilegatrice, Nathalie Lemel, e di un’insegnante, l’aristocratica russa Elisabeth Dmitrieff, nacque l’«Unione delle donne per la difesa di Parigi e le cure ai feriti», la prima associazione organizzata dalle donne.
Il Comitato centrale dell'Unione delle donne, che comprendeva, oltre alle due attiviste, Marceline Leloup (sarta), Blanche Lefevre (lavandaia), Aline Jacquier (cucitrice), Theresa Collin (calzolaia) Aglaë Jarry (rilegatrice), pubblicò manifesti e organizzò incontri pubblici nei distretti e nei quartieri della capitale. Il 12 aprile, il primo appello alle donne venne affisso sui muri di Parigi, e diceva in sintesi: «I nostri nemici sono i privilegiati del presente ordine sociale, tutti coloro che hanno sempre vissuto coi nostri sudori, che si sono ingrassati con la nostra miseria ... L'ora decisiva è arrivata ... Che ce ne facciamo del vecchio mondo! Vogliamo essere libere! ... »
Elisabeth Dmitrieff
Il Comitato gestiva cucine e ambulanze, riceveva denaro e donazioni in natura per feriti, vedove e orfani. Pur perseguendo queste azioni di aiuto reciproco e di solidarietà, non dimenticò il lavoro di rivendicazione, l'istruzione e la lotta.
L’Unione delle donne istituì un programma rivoluzionario. Roclamava la parità dei salari, l’organizzazione dei laboratori autogestiti, scuole professionali e orfanotrofi laici, corsi serali per le adulte, asili nido e assistenza alle ragazze madri affinché non affondassero nella prostituzione; riconoscimento dell’unione libera e di una pensione corrisposta alle vedove di guardie nazionali uccise negli scontri, sposate o no, e per i loro figli legittimi o illegittimi; ottenne la chiusura delle case di tolleranza e la soppressione della prostituzione considerata come «una forma di sfruttamento commerciale di creature umane da parte di altre creature umane»; rifiutò il divieto di stampa dei giornali di destra sostenendo "la libertà senza limiti"; ottenne il voto per le donne e per gli stranieri e, infine, si applicò, ben prima della legge che in Francia venne emanata nel 1905, il principio della separazione tra Stato e Chiesa nelle scuole, ospedali, carceri, eliminando le religiose da quegli istituti e sostituendole con madri di famiglie "che", dicevano, "fanno meglio il loro dovere",. Quest'ultima decisione è importante perché segna, in generale, l'importantissima tendenza anticlericale delle donne della Comune.
Le idee che le animavano sono quelle della Rivoluzione sociale e dell'autentico socialismo e non quella della purissima acqua di rose che conosciamo oggi! Quelle donne acclamavano la «Repubblica universale», «l'abolizione di tutti i privilegi, di tutti gli sfruttamenti», «sostituzione del regno di lavoro a quello del capitale» e ricordavano che «ogni disuguaglianza e tutto l'antagonismo tra i sessi, sono la base del potere delle classi dirigenti».
Le donne della Comune oltre ad essere innovative, organizzatrici, erano anche coraggiose combattenti. Alcune di loro affrontarono il pericolo e la morte come quelle che lavoravano per i rifornimenti alle guardie nazionali o addette alle ambulanze; altre, armate di fucile, presero il loro posto nelle barricare, sparavano agli assalitori e combattevano fino all'ultimo e, nello stesso momento, incoraggiavano i loro compagni più deboli.
Immagine tratta dal film La Commune Paris 1871 di Peter Watkins
La repressione versagliese, che seguì contro di loro, fu terribile. Quando venivano trovate con le armi in mano, venivano fucilate sul posto. Le prigioniere, in attesa di un finto processo, furono mandate al sinistro campo di Satory sotto i fischi, gli insulti, i colpi dell’idiota folla borghese di Versailles. Come Louise Michel, si confrontarono con i loro giudici con tanto coraggio e dignità, sostenendo le loro azioni e vennero condannate alla deportazione in Nuova Caledonia. Viaggiarono per centoventi giorni su vecchie fregate, in condizioni abominevoli e in gabbia come animali.
Molto più che i Comunardi, furono calunniate, insudiciate, umiliate, trattate da puttane o incendiarie dai vincitori e dalle loro mogli.
Durante gli anni trascorsi in prigione, continuarono a ribellarsi e a difendere con energia e orgoglio i loro diritti di detenute politiche.
Fu attraverso il coraggio e la straordinaria dedizione di una giovane paramedica, una certa Louise, (da non confondersi con Louise Michel) uccisa mentre soccorreva i feriti e incontrata domenica 28 maggio sulla barricata di rue Fontaine-au-Roi, che Jean-Baptiste Clément, dedicandole la sua famosa canzone Le Temps des Cerises (Il Tempo delle ciliegie), rese omaggio alle donne eroiche della Comune del 1871, la maggior parte semplici lavoratrici che pagarono a caro prezzo la loro lotta per la libertà, l’uguaglianza e la fraternità.
Immagine tratta dal film La Commune Paris 1871 di Peter Watkins


mercoledì 6 marzo 2019

7 marzo 1968: Torino, scontri davanti a La Stampa

È il 7 marzo 1968, e mentre in Parlamento si discute della riforma delle pensioni, migliaia di lavoratori e studenti scendono in piazza in tutta Italia per protestare contro la riforma, in uno sciopero sindacale che di fatto paralizza tutta la nazione.
A Torino gli studenti delle università in agitazione si ritrovano alle 14 in un'assemblea al Politecnico, per poi partire in corteo. Dopo circa due ore davanti al Politecnico ci sono già più di cinquemila persone, studenti universitari di tutte le facoltà, studenti medi, ma anche lavoratori che hanno aderito allo sciopero sindacale.
Piove, ma il corteo finalmente parte, le prime file sono composte completamente da studentesse universitarie: una volta raggiunto Corso Vittorio, e la struttura carceraria Le Nuove, i manifestanti si siedono a terra, e richiedono a gran voce la liberazione di Avanzini, studente arrestato alcuni giorni prima per l'occupazione dell'università.
Il corteo prosegue poi per tutto il centro della città, fino a raggiungere Piazza Castello: gli studenti hanno intenzione di riprendere l'occupazione della sede universitaria di Palazzo Campana. Migliaia di persone superano correndo i mezzi delle forze dell'ordine e si dirigono verso Via Principe Amedeo.
Qui scoppiano i primi scontri, i carabinieri a presidio della facoltà caricano gli studenti, che rispondono con un fitto lancio di uova, monete, bottigliette, e che poi fanno un rapido dietro front, per concentrarsi nuovamente in Piazza Castello.
Il corteo si dirige verso la sede della testata giornalistica La Stampa in via Roma, per occuparla, ma continuano violentissime le cariche di carabinieri e polizia, decisi a disperdere il corteo: proseguono gli
La situazione in centro città si normalizzerà solo a serata inoltrata, quando tra le forze dell'ordine si cominceranno a contare i feriti: sedici tra le file della polizia, tra cui due vicequestori, e otto tra i carabinieri.


domenica 3 marzo 2019

La escuela moderna secondo le parole di Ferrer

Non siamo semplicemente un altra scuola, siamo la prima e per ora l’unica che rifiuta la sottomissione al potente, che eleva i diseredati,che afferma l’uguaglianza delle classi e dei sessi, che mette alla portata dei bambini e bambine la conoscenza della natura e delle ultime scoperte scientifiche  come omaggio dovuto alla verità e alla giustizia.
ll fine massimo prevedibile cui la civiltà dell’uomo può giungere è la libertà dell’individuo nella società retta soltanto da liberi e sempre recidibili patti.
Il fanciullo nasce senza idee preconcette e il suo migliore educatore sarebbe soltanto colui che meglio fosse in grado di rispettare la volontà fisica, morale ed intellettuale del fanciullo, anche contro lo stesso educatore.
La scuola deve avere un carattere apertamente rivoluzionario contro l’autorità della chiesa e dello stato intimamente coalizzati al potere.
Vogliamo uomini capaci di evolversi senza posa, capaci di distruggere e rinnovare il proprio ambiente senza posa, rinnovando se stessi.
Si comincia a comprendere quanto inutili siano le cognizioni apprese alla scuola, coi sistemi di educazione attualmente in pratica; ci si accorge che si è atteso e sperato troppo.
L’organizzazione della scuola oggi, fa dell'istruzione il più potente mezzo di asservimento nelle mani dei dirigenti. I maestri sono gli strumenti coscienti o incoscienti della loro volontà; elevati del resto secondo i loro principi. I maestri di scuola fin dalla più giovane età sono educati negli istituti a subire la disciplina dell'autorità; e ben rari sono quelli che sfuggono al suo dominio e quelli che ci riescono rimangono nell'impotenza, poiché la ferrea organizzazione scolastica li avvince in modo da rendere impossibile ogni cosciente disobbedienza. Io non voglio far qui il processo dell'attuale organizzazione scolastica. Essa è abbastanza conosciuta perché si possa caratterizzarla, senza timore di smentita, con una sola parola: coazione. La scuola imprigiona i fanciulli fisicamente, intellettualmente e moralmente, per dirigere lo sviluppo delle loro facoltà nel senso voluto; li priva del contatto della natura per poterli modellare a sua guisa. E qui sta la spiegazione di tutto ciò che ho detto fin qui, la preoccupazione dei governi di dirigere l'educazione dei popoli, in modo che siano frustrate le speranze degli uomini di libertà. L'educazione non è oggi che una formazione materiale di strumenti per un dato scopo. Non credo affatto che i sistemi impiegati a tal scopo siano stati combinati apposta con esatta conoscenza di cause, per ottenere i risultati voluti; ciò sarebbe troppo geniale, per quanto cattivo. Ma le cose vanno esattamente come se quest'educazione rispondesse a un vasto disegno complesso realmente concepito. Non si poteva far di meglio e per realizzarlo è bastato inspirarsi semplicemente ai principi di disciplina e di autorità che hanno guidato gli organizzatori sociali di tutti i tempi.

venerdì 1 marzo 2019

La scuola, forse

Due riflessioni, per mostrare la sostanziale insensatezza ed inutilità della scuola così come è organizzata oggi. A cominciare dagli spazi e dai tempi. Le aule scolastiche, per lo più asettiche e fatiscenti, sono organizzate in funzione della mera trasmissione di informazioni dal docente agli studenti, oltre che delle necessità di sorveglianza e di controllo che fanno aggio sulla possibilità di confronto autentico e di comunicazione aperta. È una organizzazione degli spazi che da gran tempo la riflessione pedagogica considera inadeguata ai fini educativi della scuola e che tuttavia sfida i decenni e non pare porre alcun problema a insegnanti, genitori, ministri. La stessa rigidità caratterizza i tempi scolastici, che organizzano la vita dell’istituzione secondo logiche che rispondono ad esigenze di organizzazione razionale, più che ai bisogni degli studenti. Più grave è la rigidità mentale che la scuola trasmette e crea negli studenti. Attraverso il sapere, il mondo, che è complesso e interconnesso, viene fatto a pezzi e ricomposto secondo i criteri di una razionalità lineare che semplifica, ordina, astrae: e tenta di dominare una natura che ha separato dall’uomo come l’oggetto conosciuto dal soggetto conoscente. E’ una conoscenza codificata e sintetizzata nei manuali di testo, che offrono agli studenti una visione del mondo già confezionata, alla quale non resta che adeguarsi. Chi non si adegua è condannato all’insuccesso scolastico. Il quale è un male che va curato con la ripetuta somministrazione di quello stesso insegnamento che ha fallito una prima volta. Che il recupero consista “nella ulteriore, prolungata esposizione al medesimo stimolo” è uno dei «postulati occulti» della scuola. È facile constatarlo. Vi sono scuole che registrano da anni un livello altissimo di insufficienze in alcune classi, e tuttavia non avvertono la necessità di apportare il minimo cambiamento nella didattica: lo studente che non ottiene gli obiettivi viene respinto, e se ciò non dà i risultati sperati, lo si respinge una volta ancora. Il principio è che lo stimolo, è indiscutibile; ciò che va messo in discussione è il suo destinatario. In qualsiasi altro campo, un ripetuto fallimento costringerebbe a rivedere il metodo di lavoro. Non così a scuola. Se si prende qualche provvedimento, è esteriore, non sostanziale. Si potrà, ad esempio, fare un progetto pomeridiano per favorire la motivazione degli studenti meno interessati e con i voti più bassi, lasciando però immutata la didattica al mattino. Il docente che da dieci anni ottiene risultati insoddisfacenti con la metà dei suoi alunni potrà continuare a far lezione senza cambiare nulla (senza che nessuno lo costringa a cambiare nulla: non è escluso, anzi, che molti lo apprezzino per il suo rigore), ma i suoi alunni peggiori potranno fare un corso di teatro o di danza per provare meno risentimento nei confronti della scuola. Con risultati facilmente immaginabili.
D'altra parte, non si educa integralmente una persona disciplinando la sua intelligenza, ma trascurando il cuore e relegando la volontà. La persona, nell'unità del suo funzionalismo cerebrale, è un complesso; presenta vari aspetti fondamentali; è una energia che osserva, un'emozione che rifiuta o accetta la comprensione e una volontà che cristallizza in azioni quanto percepisce e ama.