..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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venerdì 28 ottobre 2022

L'immondizia essenziale del nostro mondo

L'immondizia essenziale del nostro mondo come riduzione ultima della materia all'astrazione. La vera ultima realtà è l'Immondizia: gettare tutto nella immondizia, il più rapidamente possibile, è l'ordine più, imperioso che oggi riceviamo, e contribuire all'accumulo dei rifiuti è il contributo essenziale dei sudditi del Mondo. Ed è così che forse la più famosa delle scoperte di Freud, l'identità tra merda e denaro, raggiunge adesso la sua realizzazione pratica, in quanto tutti gli oggetti del Mondo, digeriti e scambiati in denaro tutti indifferentemente, trovano, il loro destino ultimo e la giustificazione nell'essere componenti dell’immondezzaio in cui la Nuova Società trasforma le terre ed i mari: un immondezzaio, certamente meno organico e meno vivo della merda primitiva, nella quale quella umana era ancora quasi simile a quella del meraviglioso asino che cagava monete  d'oro; ma non è che naturale, considerato quel processo di astrazione attraverso il quale la digestione delle cose è passato i cimiteri di carcasse di auto che invadono le riserve naturali non sono, a dire la verità, molto diversi dai mucchi di automobili vive che intasano le città; ma questo spettacolo della morte delle auto non fa che rivelare il carattere funereo delle auto vive, il loro carattere di bare ambulanti della stupidità umana, che forse tra il frastuono ed i semafori  potrebbe passare inavvertito. E anche L’indistruttibilità e l'eternità pratica che, gli apocalittici attribuiscono alle materie plastiche invadenti ed alla radioattività delle scorie delle fabbriche di atomi per la Pace non sono che manifestazioni del carattere di materia astratta (sia come materia aristotelica, sia come atomi democritei) che in questi ultimi residui delle cose si realizza.

martedì 25 ottobre 2022

Pare che la disubbidienza sia un difetto genetico

Il problema  non è se la malattia mentale è di origine organica, come pensa  la maggioranza degli psichiatri, o se è di origine psicologica, come pensa la maggioranza degli  psicoanalisti; ma parrebbe piuttosto opportuno non dimenticare che non sono fisiologici soltanto quei pensieri e quei comportamenti che sono approvati e ritenuti ragionevoli o razionali solo dal moralismo di moda. Ad esempio ora, sia a scorno di Kraepelin sia a scorno di Freud, l'omosessualità e l'obiezione di coscienza non sono più, almeno in alcuni paesi, malattie di mente, mentre  destano sospetto l'assunzione e l'uso di eroina e di cocaina. In Italia, di recente, non solo si è parlato di inclinazione particolare di alcuni all'assunzione di droghe proibite, ma  si è discusso se sia o non sia inclinazione geneticamente determinata.

Pare che la disubbidienza sia un difetto genetico.

Il medico psichiatra è il delegato dell'autorità morale con diritto di vita e di morte, ma più che altro con diritto di negazione, che gli viene conferito perché sorvegli metodicamente sul rispetto delle convenzioni,   inseparabili dalla stabilità del potere costituito, come sistema di controllo delle ricchezze e della loro distribuzione.

sabato 22 ottobre 2022

VEREIN, l’organizzazione per Max Stirner

Max Stirner polemizza contro l'universalismo hegeliano e prende anche posizione contro  Feuerbach  e  Marx. Secondo Stirner l'individuo umano, corporeo, è l'unica realtà e l'unico valore. L'individuo è inteso come energia volitiva, pulsione egoistica ed egocentrica che non si inchina dinanzi a nessun idolo, non  riconosce che se stesso, e di tutto si serve come suo strumento. Ricercare al di fuori dell'individuo corporeo ed «egoista» una soluzione equivale, per Stirner, non solo a conservare la «religione» sotto forme nuove ma anche ad aumentare, di fatto, la servitù dell'uomo. L'io è l'unica legge, non esistono altri obblighi nei confronti di nessun codice, credo  o concezione filosofica. Per Stirner è il mondo ad essere contenuto nell'io libero, ribelle e creatore, e quest’io individuale si contrappone alla società e alle sue forze oppressive senza privilegiare mediazione alcuna.

L'umanità si sacrifica per certe idee fisse (la verità, la giustizia, il dovere ecc.) che considera come idealità. Bisogna distruggere le idee fisse; la mia causa non è né divina, né umana; non è né la bontà, né la giustizia, né la libertà.., non è una causa universale bensì unica come sono io. Nessuna cosa mi sta a cuore più di me stesso.

L'«unico» deve farla finita con tutte le ipocrisie della società e non deve riconoscere alcuna norma oggettiva, in  quanto:

Vero è ciò che è unico, falso ciò che non mi appartiene e falsi sono la società e lo stato, a cui tu dai la tua forza e da cui sei sfruttato.

Per Stirner lo stato «popolare» che vuole spingere il liberalismo alle sue estreme conseguenze, non può che affermarsi a spese del singolo; anch'esso ha quel vizio capitale che è il voler addestrare l'uomo, invece di lasciarlo sviluppare liberamente. Reazionari e rivoluzionari si appellano entrambi ad un «diritto», gli uni a quello tradizionale, gli altri a quello naturale: ma, in entrambi i casi, è un diritto che ha di mira soltanto l'universale, non il singolo. Pur chiamando «unico» il suo personaggio, Stirner non pensa che l'uomo possa vivere da solo: la società, secondo lui, è il nostro stato naturale. Occorre però fare una distinzione fra quella che si eredita e si subisce, e quella alla quale si aderisce volontariamente in quanto soddisfa maggiormente i nostri bisogni. Questa organizzazione nuova, che Stirner chiama «Verein», l'unione, non è affatto il regno della libertà assoluta: voler dare al «Verein» siffatta interpretazione è per Stirner folle manifestazione di fanatismo religioso. Ciò che differenzia il «Verein» dallo stato è l'atteggiamento spirituale di chi ne fa parte: lo stato è qualcosa che sta al di sopra di me, che mi impone umiltà, il «Verein» è una mia creazione; posso esercitare una critica continua contro le sue massime, perché non le ho ceduto l'anima, e posso anche sciogliermi da essa, perché non mi sono impegnato per il futuro. Per quanto riguarda la proprietà, Stirner   attacca violentemente sia la concezione sacra di essa, tipica della mentalità  borghese, sia le soluzioni alla Proudhon, dell'uomo come possessore di un bene che appartiene alla società.

La questione della proprietà non si potrà risolvere cosi pacificamente come sognano i socialisti e persino i comunisti. Potrà essere risolta soltanto dalla guerra di tutti contro tutti. I poveri diventeranno liberi e proprietari soltanto se si ribelleranno, si  vorranno innalzare, si solleveranno. Regalate loro tutto quello che vi pare, vorranno avere sempre di più: essi vogliono, infatti, nientemeno che questo, che nulla venga più regalato.

mercoledì 19 ottobre 2022

Una società libera

Una società libera dai condizionamenti economici è più che mai una società libera dai condizionamenti politici, quindi emancipata tanto dallo Stato quanto dal mercato. È una  società senza cariche elettive, senza decisori né assessori, senza dirigenti né esperti, che deve funzionare al di fuori della politica professionale e dell'economia divenuta autonoma. Questo significa che deve ricreare al suo interno le condizioni non capitaliste sufficienti a garantire delle modalità di funzionamento democratico orizzontale abbastanza solide da rendere possibile un'esistenza senza capitale né Stato. Per citare L'idea generale di rivoluzione nel XIX secolo di Proudhon, essa deve «trovare una forma di transazione che, riducendo a unità la divergenza degli interessi, identificando il bene particolare e il bene generale, cancellando la diseguaglianza della natura per mezzo dell'educazione, risolva tutte le contraddizioni politiche ed economiche; in cui ogni individuo sia ugualmente e sinonimicamente produttore e consumatore, cittadino e principe, amministratore e amministrato; in cui la sua libertà aumenti sempre, senza che egli debba mai alienare nulla; in cui il suo benessere cresca indefinitamente, senza che egli possa subire, da parte della Società e dei suoi concittadini, alcun pregiudizio, né nella  sua proprietà, né nel suo lavoro, né nel suo reddito, né nei suoi rapporti d'interesse, di opinione o di affetto verso i suoi simili».

domenica 16 ottobre 2022

16 Ottobre 1968: 19”83 di Messico ’68, pugni chiusi e leggende da ricordare

It was like a pebble into the middle of a pond, and the ripples are still traveling

È stato come un sasso in mezzo a un laghetto, e le increspature sono ancora in viaggio

Peter Norman, New York Times, 4 ottobre 2005

 

Fra i 12 atleti neri che votarono a favore del boicottaggio delle Olimpiadi di Città del Messico 1968, c’erano due fra i favoriti per i 200 metri uomini, John Carlos, 23 anni, nato e cresciuto ad Harlem, e Tommie Smith, una giovane promessa dell’atletica, 24 anni, texano, settimo di undici figli. Entrambi facevano parte dell’Olympic Project for Human Rights, un movimento che lottava per i diritti civili nato alla fine 1967 in occasione degli imminenti giochi olimpici. Qualche tempo più tardi Carlos avrebbe dichiarato: “Siamo stufi di essere carne da parata alle Olimpiadi e carne da cannone in Vietnam”.

Il clima di quegli anni era infuocato, e la situazione dei diritti civili negli Stati Uniti era a dir poco allarmante, il brutale assassinio di Martin Luther King era avvenuto appena 6 mesi prima dell’inizio dei giochi e gli episodi di razzismo, discriminazione e violenza nei confronti della popolazione di colore erano all’ordine del giorno.

La votazione sul boicottaggio non seguì i desideri dei due atleti e la maggioranza decretò la partecipazione ai Giochi. Fu così che il 16 ottobre 1968 gli sguardi degli spettatori dell’Azteca, Città del Messico, erano puntati sulle due “frecce nere”, pronte a tutto per ottenere il risultato e ben consapevoli della responsabilità che quel giorno avevano sulle spalle. L’orgoglio e la soddisfazione dei due atleti di aver sudato e sacrificato se stessi per poter essere lì sui blocchi di partenza, erano in qualche modo macchiati dalla certezza che neanche il primo posto sarebbe servito a scuotere la situazione e a ridare dignità al proprio popolo. L’idea che se avessero vinto “avrebbe vinto un americano” e che in caso contrario “avrebbe perso un negro”[1], risuonava come un trapano nelle loro teste, un rumore insopportabile, forse interrotto soltanto dallo sparo dello starter. Comincia la gara.

La partenza di Smith non è delle migliori, è Carlos infatti che si impone nella fase iniziale, guadagnando circa due metri sugli avversari, è dopo la curva che il giovane texano sprigiona tutta la sua potenza e ne supera uno dopo l’altro, fino a non vedere più nessuno davanti a sé. A venti metri dal traguardo solleva le braccia sicuro della vittoria, 19 secondi e 83, record del mondo. Dietro di lui Carlos getta dei rapidi sguardi alla sua sinistra per assicurarsi del secondo posto, quando passa il traguardo con 20”10 non si accorge dell’australiano Peter Norman, 26 anni, che lo passa a destra completando la gara in soli 20”06 e conquistandosi il secondo posto. Ecco formato il podio che difficilmente il mondo si dimenticherà, passando quella linea nello strenuo sforzo di rubare qualche centesimo di secondo alla storia, questi tre giovani atleti cominciarono la vera gara della loro vita.

Tommie Smith PodiumPrima della premiazione sulle facce dei due atleti di colore si può leggere la tensione, hanno deciso che essere i più veloci non basta, devono sfruttare questo momento di visibilità come palcoscenico per lanciare un messaggio di rabbia e di lotta per i diritti umani.

Si sarebbero presentati scalzi, per simboleggiare la povertà, inoltre Tommie aveva un foulard e John una collanina, in ricordo dei loro fratelli neri linciati durante le proteste, avrebbero dovuto indossare entrambi dei guanti neri simbolo del Black Power, ma nell’agitazione l’atleta di Harlem li aveva dimenticati. Fu Peter Norman, che ascoltandoli parlare suggerì loro di dividersi i guanti, Smith avrebbe preso il destro e Carlos il sinistro. L’australiano, soltanto apparentemente estraneo alla protesta decise di indossare, assieme ai suoi due compagni, la coccarda dell’Olympic Project for Human Rights, appena sopra lo stemma della nazione.

Una volta saliti sul podio, al momento dell’inno nazionale, il mondo vide i due pugni neri sollevarsi al cielo e le teste dei due velocisti chinarsi, a completare il quadro di un’immagine ormai divenuta leggenda, Norman, statuario con lo sguardo fisso in avanti, fiero di poter prendere parte a questo silenzioso gesto di insurrezione e di protesta.

Contrariamente a quanto si possa pensare vedendo i filmati o le foto, Peter Norman è stato infatti molto di più di una semplice comparsa in quella lunga giornata messicana. Nonostante egli potesse benissimo dissociarsi da quella che, almeno apparentemente, non era la sua “guerra”, fece una scelta e la potenza del suo non-gesto fu pari a quella dei pugni alzati di Smith e Carlos.

Le riposte a questo plateale gesto rivoluzionario non tardarono ad arrivare, subito dallo stadio reazioni di ogni tipo si levarono rumorosamente, con fischi e insulti che la facevano da padrone sulle urla di consenso e approvazione, ma le vere conseguenze si ebbero in seguito e sono efficacemente sintetizzabili nelle agghiaccianti parole del capo delegazione USA Payton Jordan, che immediatamente dichiarò: “Se ne pentiranno per il resto della loro vita”. Per evitare il coinvolgimento del resto degli atleti in eventuali provvedimenti, i due furono immediatamente espulsi dalla squadra e dal villaggio olimpico, le scuse del comitato USA furono inviate al CIO. Da quel momento furono molti gli insulti, le minacce, gli atti vandalici e le ripercussioni che dovettero subire assieme alle relative famiglie, tanto che nel giro di qualche anno la moglie di Carlos decise di togliersi la vita e quella di Smith scelse di allontanarsi da lui.

Per Norman ovviamente le conseguenze furono minori ma non certo assenti, venne escluso dai Giochi di Monaco e anche quando, molti anni dopo, fu riconosciuta la natura rivoluzionaria del gesto, la sua figura rimase nell’ombra e non gli fu mai riconosciuto il merito dovuto a livello internazionale. Atleta impeccabile, tutt’oggi detentore del record sui 200 per l’Oceania, eroe nazionale e professore di educazione fisica, Peter Norman viene troppo spesso dimenticato o messo in secondo piano.

“Abbiamo avuto la nostra croce da portare qui negli Stati Uniti” – dichiara Carlos- “Peter ha avuto una croce più grande da sopportare perché non aveva nessuno lì per aiutarlo tranne la sua famiglia.” Muore per un attacco di cuore all’età di 64 anni, il 3 ottobre 2006, circa quaranta anni dopo il fatidico giorno, in quel momento “i rapporti personali fra Smith e Carlos sono pessimi. Comunicano ricordi diversi, ancora si disputano il merito di aver ideato il guanto di sfida, neppure i vecchi amici riescono a riavvicinarli. Nessuno dei due però, ha un attimo di incertezza, appena saputo della morte di Norman: decidono di volare in Australia” per rendere omaggio al loro amico e compagno.

Il coraggio a questi uomini è costato tanto, e alla domanda su un eventuale pentimento, Smith, qualche tempo dopo dichiarò: “Quel gesto era mio. L’ho pensato, voluto, creduto. Mi serviva, ci serviva. Non l’avessi fatto ora sarei una persona diversa, non sarei l’uomo che sono e che in fondo sono contento di essere”[2]

Toz e TommieDiciannove secondi. Devono essere passati più o meno diciannove secondi, da quando tramite un amico ho saputo che Tommie Smith era in Italia per tre giorni, a quando mi sono ritrovato davanti alla porta di casa con lo zaino in spalla, quattro panini, una bottiglia d’acqua, la mia maglietta del Collettivo con il leggendario pugno stampato sopra, senza ovviamente la minima idea di come avrei fatto a incontrarlo.

L’ormai ex atleta era ospite d’onore al famoso meeting internazionale di atletica che si tiene ogni anno a Rieti, dedicato quest’anno a un’altra leggenda di questo sport, Pietro Mennea, che nel 1979 strappò il record proprio al texano con un incredibile 19”72.

Parto da Bologna quando ancora tutti dormono, mi aspetta un viaggio attraverso il centro Italia, con orari e coincidenza improbabili e nessuna certezza, nel tentativo di poter scambiare qualche parola con la leggenda che ha prestato il nome al nostro collettivo.

Dopo ore di attesa riesco a vederlo all’interno dell’area degli ospiti, mi butto sulle transenne e lo chiamo, dall’alto del suo metro e novanta si gira, mi guarda e sorride indicando la maglietta col pugno, nel mio terribile inglese, peggiorato dal caos del momento, farfuglio qualcosa di simile a complimenti e ringraziamenti vari, gli chiedo di fare una foto con me, esce dalle transenne mi stringe la mano (con la famosa mano!) e ci facciamo la foto prima che la sicurezza lo porti via per l’inizio della manifestazione.

Tredici ore di viaggio circa, per quel minuto con Tommie Smith, ma andava fatto, la fiamma che hanno acceso quei tre ragazzi decisi e impauriti sopra il podio, quasi cinquanta anni fa, è ancora accesa ed è anche nostro dovere tenerla viva.

Leonardo, Collettivo Tommie Smith

 

[1] Tommie Smith dichiarò dopo la vittoria: “Oggi ho vinto, e ha vinto un americano. Se avessi perduto, avrebbe perduto un negro”

[2] cfr. Ghedini R., Il compagno Tommie Smith e altre storie di sport e politica, Malatempora, 2008, p. 12 e p.214

 

Articolo tratto da collettivo tommiesmith.wordpress.com

venerdì 14 ottobre 2022

Bakunin e la rivoluzione del Febbraio 1848 a Parigi

La rivoluzione di Febbraio scoppiò. Non appena seppi che ci si batteva a Parigi, mi feci prestare, per far fronte ad ogni evenienza, un passaporto da una persona di mia conoscenza e mi misi in viaggio per Parigi. Ma il passaporto non serviva: «La Repubblica è proclamata a Parigi», tali furono le prime parole che abbiamo sentito alla frontiera. A questa notizia, sentii come un brivido; arrivai a piedi a Valenciennes, essendo stata distrutta la ferrovia; ovunque la folla, delle grida d'entusiasmo,  bandiere rosse in tutte le strade, in tutte le piazze e su tutti gli edifici pubblici. Fui costretto a fare un lungo giro, essendo la ferrovia impraticabile in molti punti, ed arrivai a Parigi il 26 febbraio, tre giorni dopo la proclamazione della Repubblica. Già lungo il mio cammino tutto mi entusiasmava. Questa città enorme, il centro della cultura europea, era improvvisamente diventata un Caucaso selvaggio: in ogni strada, quasi ovunque, delle barricate erette come montagne e che giungevano fino ai tetti; su queste barricate, tra i sassi ed i mobili ammucchiati, come dei Georgiani nelle loro gole, operai con divise pittoresche, neri di polvere e armati fino ai denti; dei grossi bottegai con la faccia inebetita dallo spavento, guardavano paurosamente dalle finestre; nelle strade, sui viali, non una sola vettura; scomparsi, tutti i vecchi mascalzoni, tutti gli odiosi damerini con l'occhialetto e la bacchetta e, al loro posto, i miei nobili operai, le masse entusiaste e trionfanti che brandivano le bandiere rosse, cantando canzoni patriottiche, inebriati dalla loro vittoria! 

Ed in mezzo a questa gioia senza limiti, a questa ebbrezza, tutti erano talmente dolci, umani, compassionevoli, onesti, modesti, educati, amabili e spirituali, che simili cose si possono vedere solo in Francia, anzi solo a Parigi. Successivamente, per più di una settimana, abitai con degli operai la caserma della rue de Tournon, a due passi dal Palazzo del Lussemburgo; questa caserma, prima riservata alla guardia municipale, era diventata allora, come molte altre, una fortezza repubblicana che serviva da accantonamento all'armata di Caussidière. Ero stato invitato a sistemarmi là da un mio amico democratico che comandava un distaccamento di cinquecento operai. Ebbi dunque così l'occasione di vedere gli operai e di studiarli dal mattino alla sera. Mai e da nessuna parte, in alcun'altra classe sociale, ho trovata tanta nobile abnegazione, né tanta onestà veramente commovente, tanta delicatezza di modi e tanta amabile allegria unita ad un simile eroismo, se non in questa gente semplice, senza cultura, che  è sempre valsa e che varrà sempre  mille volte di più dei suoi capi! Questo mese passato a Parigi fu un mese di ebbrezza per l'anima. Non ero io solo l'ebbro, ma lo erano tutti: gli uni per la folle paura, gli altri per la folle estasi, fatta di speranze insensate. Mi alzavo alle cinque o alle quattro del  mattino, mi coricavo alle due, rimanendo in piedi tutto il giorno, andando a tutte le assemblee, riunioni, circoli, cortei, passeggiate o dimostrazioni; in una parola, aspiravo con tutti i miei sensi e con tutti i miei pori l'ebbrezza dell'atmosfera rivoluzionaria. Era una festa  senza inizio e senza fine; vedevo tutti e non vedevo nessuno, in quanto ogni individuo si perdeva nella stessa folla innumerevole ed errante; parlavo a tutti senza ricordarmi né le mie parole né quelle degli altri, poiché l'attenzione era assorbita ad ogni passo da fatti e da oggetti nuovi, da notizie inattese.


mercoledì 12 ottobre 2022

Dopo elezioni: Perde la destra, vince la destra

La destra è al potere! Perché, finora chi c’è stato? Con questo non intendiamo certo sottovalutare il significato politico della vittoria elettorale di Giorgia Meloni e del suo partito, eredi ufficiali del fascismo (si legga all’interno l’intervento di Enrico Ferri), nonostante da mesi stiano sforzandosi di mostrarsi conservatori moderati, fedeli all’Alleanza Atlantica, non più nemici dell’Unione Europea, figli pentiti del putinismo, garanti dell’ordine sociale e clericale e soprattutto del capitalismo nostrano verso cui hanno giurato servilismo e ossequiosità, ricevendone in cambio denaro e voti.

Una centro-destra a traino neofascista è sicuramente in grado di velocizzare i processi reazionari già in atto nel campo dei diritti, del fisco, delle diseguaglianze sociali, come quando è stato a traino leghista (sia pure diviso tra governo e “opposizione”). Il fatto è che la forza della destra sta non nella debolezza del centro sinistra (una democrazia cristiana riveduta e nemmeno corretta), ma nella sua accondiscendenza alle politiche liberiste, militariste, clericali, che lo vede protagonista, oramai da molti anni e molti governi, della distruzione del welfare, dell’acutizzazione delle diseguaglianze, della gestione militare e repressiva delle crisi sanitaria ed economica, dell’accanimento razzista verso i migranti, delle politiche di militarizzazione e guerra. Fattore che ha spinto negli anni verso la destra un certo bacino elettorale popolare.

L’Italia da anni è sotto un governo nei fatti di destra, che ha portato avanti programmi e politiche di destra forse meglio della destra stessa (a spese della sanità, saccheggiata e privatizzata, della scuola immiserita, del lavoro inselvatichito e precariatizzato, dei redditi tagliati, e potremmo continuare). Cosa ancora ci sia da rosicchiare per un governo dichiaratamente di destra, a guida Fratelli d’Italia, lo staremo a vedere, anche perché ancora non abbiamo toccato il fondo, ma di certo non siano lontani dal farlo.

Con questa maggioranza possiamo aspettarci che progetti, come l’autonomia differenziata, cioè l’acuirsi delle differenze tra regioni ricche e regioni del Mezzogiorno, voluta dalla destra ma anche dal PD, possa essere accelerata: all’aumento del sottosviluppo e del degrado meridionale corrisponderà una premialità economico-politica per il Nord ricco e industriale, la definitiva privatizzazione della sanità, dell’istruzione, dei servizi essenziali, lasciando al sud un assistenzialismo straccione e da mera sussistenza, ed il ruolo storico di bacino per l’estrazione di forza-lavoro.

Sarà sicuramente nel campo dei diritti (aborto e contraccezione, eutanasia e suicidio assistito, adozioni, coppie di fatto, identità di genere, ius soli e eguaglianza per i migranti, ecc.) che Meloni e il suo governo proveranno a infierire, appoggiandosi però su quanto di peggio hanno fatto in questi anni il PD, i 5 Stelle e compagnia brutta, che in materia di asservimento ai voleri del Monarca di Roma non sono secondi a nessuno. Su guerra ed emigrazione, dopo la Turco-Napolitano, la Bossi-Fini, Minniti, Salvini e i decreti sicurezza, sarà dura per Meloni inventarsi qualcos’altro; il propagandato “blocco navale” non servirà a risolvere un problema epocale come quello dell’emigrazione, specie con il livello gravissimo cui è arrivata l’emergenza climatica. Tema, quest’ultimo, su cui dubitiamo che Meloni e il suo governo abbiano ricette diverse da quelle dei loro padroni di Confindustria, e cioè: proseguire con l’estrattivismo delle fonti fossili e con la farsa del capitalismo green.

Resta il campo dell’ordine pubblico, della gestione dei conflitti sociali, della repressione di tutti i fenomeni di protesta provocati dalla crescente povertà della popolazione. Qui la destra-destra potrà sfoderare tutta la propria vocazione sceriffesca e rimettere in campo quanto Matteo Salvini realizzò nella sua stagione da Ministro dell’Interno a scapito di immigrati, lavoratori, movimenti sociali. Sappiamo che nelle forze di polizia è forte il consenso verso “la prima donna presidente del consiglio”; evidentemente si aspettano una maggiore libertà (con relativa impunità) di manganellare, picchiare, fermare, abusare, arrestare, di quanta già non ne abbiamo avuta con i governi rosso-giallo, giallo-verde, rosa-pallido, grigio-topo e così via.

In tema di guerra, la ribadita fedeltà al padrone-alleato americano e alla NATO assicura una continuità in politica estera, l’aumento annunciato delle spese militari e la disponibilità a proseguire la partecipazione al conflitto in Ucraina spingendosi magari oltre.

Ci sarà senz’altro uno spolverio di retorica nazionalistica e patriottarda e una qualche fuga in avanti nostalgica (vedremo a fine mese per il centenario della marcia fascista su Roma), soprattutto per quanto riguarda l’immagine (molte più vie intitolate ad Almirante e ad “eroi” del ventennio o della stagione della strategia della tensione).

L’importante sarà non cadere nella trappola di un pericolo fascista sorto solo dopo il 25 settembre. Il fascismo strisciante e reale lo hanno imposto, per rimanere all’ultimo ventennio, i D’Alema, i Berlusconi, i Monti, i Renzi, i Draghi e tutti i governi liberisti e guerrafondai, clericali e razzisti che abbiamo dovuto sopportare. Il 25 settembre ha solo fatto chiarezza. L’antifascismo non può che essere anticapitalista, antimilitarista, ambientalista e possibilmente anche antiparlamentare. A chiarezza nel fronte del nemico di classe deve solo corrispondere chiarezza nel fronte sovversivo.


martedì 11 ottobre 2022

Nasce una nuova figura nel mondo che sta cambiando

Il mondo sta cambiando, dovremo deciderci ad abbandonare senza riserve i concetti fondamentali attraverso cui abbiamo finora rappresentato i soggetti del politico: l'uomo e il cittadino coi loro diritti, ma anche il popolo sovrano, il lavoratore, eccetera, e a ricostruire la nostra filosofia politica a partire da una nuova figura. O meglio, una figura la quale sarà la fusione tra rifugiato, fuggiasco, fuggitivo, "traditore", disertore, scopritore e creatore. a prassi del rifugiarsi come pratica non definitoria, pratica dell'imbastardimento, ossia come creazione. Colui che si rifugia non possiede un territorio definito ma abita le frontiere. Fugge, scopre e crea. Ci sono dunque delle analogie tra il rifugiato che trasgredisce il confine e il rivoluzionario che trasgredisce le frontiere attraversandole e meticciandole.

La trasgressione dei confini esistenti e la contestazione degli stessi possono ispirare una nuova forma di cittadinanza, che permetta la  coabitazione di diversi, che consenta alle singolarità di fare comunità senza rivendicare un'identità, e agli uomini di co-appartenere senza una rappresentabile condizione di appartenenza.

Così come i mondi, anche i nostri luoghi di enunciazione interiore hanno le proprie geografie. Le transculture non temono nessuna geografia. La ricerca dei continenti inesplorati deve portare tino alla vertigine in cui ribolle la materialità e l'immaterialità della vita, come ci hanno insegnato i surrealisti. Ci deve essere una biologia per scatenare le forze degli esseri, e le relazioni tra loro, senza usare le inservibili pratiche della vecchia politica, così come c'è, nella medicina cinese, una tecnica per guarire parti del corpo, toccando  punti sull'estensione del corpo stesso, lontani dalle parti da curare.

domenica 9 ottobre 2022

9 ottobre 1979: i 61 licenziati alla Fiat Mirafiori

Il 9 ottobre del 1979 la FIAT, dopo aver avvertito in anticipo PCI e sindacati delle sue intenzioni, decise di spedire a 61 operai una lettera di sospensione dal lavoro con la motivazione di aver tenuto un "comportamento non rispondente ai principi della diligenza, della correttezza e della buona fede", tale da aver procurato un grave danno morale e materiale all'azienda per "comportamenti non consoni ai principi della civile convivenza nei luoghi di lavoro".

Erano compresi lavoratori della Fiat Mirafiori, Rivalta e della Lancia di Chivasso, mentre nello stesso momento altre lettere giunsero ad operai dell'Alfa di Arese e della Magneti Marelli di Milano. Alcuni di loro, arrestati con l'accusa di appartenenza alle Brigate Rosse, si dichiararono prigionieri politici.

Immediatamente dopo l'arrivo della notizia scoppiarono scioperi spontanei in tutti i reparti, alcuni guidati dagli operai appena colpiti dall'editto padronale. La FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici, il sindacato unitario CGIL-CISL-UIL) dichiarò tre ore di sciopero per mercoledì 1° novembre, ma la mattina prima dello sciopero diffuse un volantino contro il terrorismo.

Le assemblee che precedettero lo sciopero vennero egemonizzate e strumentalizzate dai sindacalisti, che tentarono in ogni modo di concentrare l'attenzione sulla violenza in fabbrica, arrivando ad affermare che la FIAT avrebbe avuto delle "prove" contro i licenziati.

Il giorno dello sciopero però, le istanze concertatrici si fecero insignificanti di fronte alla partecipazione degli operai, che nell'assemblea del 1° turno di Rivalta (con oltre 2000 tute blu) decisero all'unanimità di continuare lo sciopero oltre le tre ore sindacali e con la presenza dei licenziati in fabbrica. La lotta continuò con cortei e "spazzolate" interne. Immediatamente la FLM ed i suoi delegati sabotarono la lotta, cercando di isolare i 61 lavoratori licenziati. Anche in altri stabilimenti si prolungò lo sciopero e proseguirono i cortei interni per molti giorni a seguire, nel totale disinteresse del sindacato; alcuni giorni dopo Lama dichiarò che la CGIL avrebbe aspettato di conoscere le prove di Agnelli, perché "il sindacato difenderà solo gli operai accusati ingiustamente".

L'FLM impose poi ai lavoratori la firma di un documento come condizione per la difesa da parte del collegio sindacale nel ricorso alle lettere di sospensione:

«Atteso che il sottoscritto dichiara di accettare i valori fondamentali ai quali il sindacato ispira la propria azione ed in particolare di condividere la condanna senza sfumature non solo del terrorismo ma anche di ogni pratica di sopraffazione e di intimidazione, per la buona ragione che non appartengono alla scelta di valori, alle convinzioni, al patrimonio di lotta del sindacato stesso, consolidati da una lunga pratica di varie forme di lotta e di difesa del diritto di sciopero, così come risulta dal documento conclusivo del Coordinamento nazionale Fiat approvato all'unanimità a Torino l'11.10.1979 dai membri del Coordinamento stesso, delega a rappresentarlo nel presente giudizio, nonché nella procedura ordinaria, in ogni fase e grado, compreso quello esecutivo,...»

Dieci dei 61 imputati firmarono, ma accusarono duramente il "ricatto politico inaccettabile da parte del Sindacato".

venerdì 7 ottobre 2022

Anarchici antifascisti a Torino

Dopo l’occupazione delle fabbriche a Torino nell’autunno del 1920, l’offensiva fascista diventerà sistematica e coordinata, comandati dal famigerato Pietro Brandimarte i fascisti a Torino assalirono la Camera del Lavoro il 18 dicembre 1922; successivamente protetti e sostenuti dagli ufficiali del regio esercito e dalla polizia, incendiarono e devastarono il circolo dei ferrovieri, il circolo “Calo Marx” e la sede dell’"Ordine Nuovo”. Fra il 18 e 19 dicembre, 22 militanti anarchici, socialisti e comunisti furono uccisi dagli assassini in camicia nera. L’anarchico Pietro Ferrero, legato per i piedi a testa in giù dietro un autocarro, fu trascinato per ore lungo alcuni viali di Torino. Gli assassini abbandonarono poi il suo corpo martoriato nei pressi della Camera del Lavoro. Con l’avvento del fascismo gli anarchici torinesi, costretti alla clandestinità e alla cospirazione, cercarono di ricomporre le fila del Movimento contando solo sulle forze genuinamente anarchiche ancora disponibili alla lotta. Già nell’agosto del 1930 una relazione della Divisione Polizia Politica poteva fare il punto della situazione: secondo la polizia fascista esistevano a Torino tre gruppi anarchici denominati: “ Barriera Nizza, Barriera di Milano, Campidoglio”. Il gruppo “Barriera di Milano” era composto quasi esclusivamente da immigrati toscani, per lo più piombinesi e pisani che, - continua il rapporto – avevano abbandonato “il loro paese nativo allo scopo di sottrarsi ad eventuali misure di polizia, perché noti colà come sovversivi”.

Del gruppo facevano parte: Settimo Guerrieri, piombinese (indicato dalla polizia come anarchico da arrestare, irreperibile e come organizzatore di espatri clandestini); Dario Franci, piombinese, anarchico da arrestare, muratore e cultore della lingua esperanto; Arduilio D’Angina, Dante Armanetti, i fratelli Giacomelli, Mario Carpini, i fratelli Vindice e Muzio Tosi, anch’essi piombinesi, anarchici da arrestare. Il gruppo “Barriera di Nizza” era forse il più numeroso, anche se nel rapporto di polizia erano segnalati solo i compagni più esposti, quelli di cui “l’informatore” era venuto a conoscenza. Ne facevano parte: Cesare Sobrito, dal rapporto “elemento molto quotato fra i suoi, perché da diversi anni milita nelle file anarchiche, è in relazione con il noto anarchico Luigi Bertoni di Ginevra ed invia periodicamente corrispondenze sotto lo pseudonimo di Germinal, ai giornali anarchici: Il Risveglio di Ginevra e L’Adunata dei Refrattari di New York”. Emilio Bernasconi, elemento “veramente pericoloso e ritenuto capace di atti inconsulti”. Eugenio Martinelli, “descritto dagli stessi anarchici, come compagno fidato e autorevole”; Michele Candela “incaricato a distribuire sussidi alle famiglie dei detenuti politici”; e Vittorio Levis. La relazione della Divisione Polizia Politica non conteneva nessuna notizia sul gruppo Campidoglio, che evidentemente non aveva nessun infiltrato al suo interno. Il rapporto di polizia prosegue narrando come, per mantenere i contatti tra di loro, gli anarchici dei tre gruppi ricorressero alla compagna Teresa Barattero, venditrice di giornali, con un chiosco posto in corso Dante.  

mercoledì 5 ottobre 2022

Gli ultimi anni di Michail Bakunin

Il 1° settembre 1873 si apriva a Ginevra il sesto congresso generale dell'Internazionale: le Federazioni del Belgio, dell'Olanda, dell'Italia, della Spagna, della Francia, dell'Inghilterra, e del Giura svizzero vi erano rappresentate; i socialisti lassalliani di Berlino avevano mandato un telegramma di simpatia firmato da Hasenclever e  Hasselmann. Il congresso si occupò della revisione degli statuti dell'Internazionale; pronunciò la soppressione del Consiglio generale, e fece dell'Internazionale una libera federazione che non aveva più alla sua testa alcuna autorità dirigente: «Le Federazioni e Sezioni che compongono l'Associazione, dicono i nuovi statuti (articolo 3), conservano la loro completa autonomia, cioè il diritto di organizzarsi secondo la loro volontà, di amministrare i loro affari senza alcuna ingerenza esterna, e di decidere essi stessi la via che intendono  seguire per giungere all'emancipazione del lavoro». Bakunin era affaticato da una lunga vita di lotte; la prigione lo aveva fatto invecchiare prima del tempo, la sua salute era seriamente scossa, ed egli aspirava ora al riposo ed alla solitudine. Quando vide l'Internazionale riorganizzata con il trionfo del principio di libera federazione, pensò che era giunto il momento in cui poteva congedarsi dai suoi compagni, ed indirizzò ai membri della Federazione giurassiana una lettera (pubblicata il 12 ottobre  1873) per pregarli di voler accettare le sue dimissioni da membro della Federazione giurassiana e da membro dell'Internazionale, aggiungendo: «Non mi sento più le forze necessarie per la lotta: non saprei dunque  essere nel campo del proletariato che un ostacolo, non un aiuto. Mi ritiro dunque, cari compagni, pieno di riconoscenza per voi e di simpatia per la vostra grande e santa causa, la causa dell'umanità. Continuerò a seguire con fraterna ansietà  ogni vostro  passo, e saluterò con gioia ogni vostro nuovo trionfo. Fino alla morte, sarò dei vostri». Non aveva più che neppure tre anni di vita. Il suo amico, il rivoluzionario italiano Carlo  Cafiero, gli diede ospitalità in una villa che aveva acquistato vicino a Locarno. Là, Bakunin visse fino alla metà del 1874, esclusivamente assorbito, sembrava, da questo nuovo genere di vita, nel quale trovava infine la tranquillità, la sicurezza ed un benessere relativo. Tuttavia, egli non aveva cessato di considerarsi un soldato della Rivoluzione; i suoi amici italiani avevano preparato un movimento insurrezionale, ed egli si recò quindi a Bologna (luglio 1874) per prendervi parte: ma il movimento, mal organizzato, finì male, e Bakunin dovette ritornare in Svizzera, travestito. Bakunin non era più, nel 1875, che l'ombra di se stesso. Nel giugno 1876, nella speranza di trovare qualche sollievo ai suoi mali, lasciò Lugano per recarsi a Berna; arrivandovi, il 14 giugno, disse al suo amico il dottor Adolf Vogt: «Vengo qui perché tu mi rimetta in sesto, o per morirci». Spirò il 10  luglio, a mezzogiorno.

martedì 4 ottobre 2022

Chi sono io? – Michail Bakunin

Io non sono né un sapiente, né un filosofo, neppure uno scrittore di professione. Ho scritto molto poco nella mia vita e non l'ho mai fatto, per così dire, che a malincuore, e soltanto quando un'appassionata convinzione mi forzava a vincere la mia ripugnanza istintiva  verso qualsiasi  esibizione del mio io in pubblico. Chi sono io dunque, e cos'è che mi spinge ora a pubblicare questo lavoro? Io sono un cercatore appassionato della verità e un nemico non meno accanito delle malefiche funzioni di cui il partito dell'ordine, questo rappresentante ufficiale, privilegiato ed interessato a tutte le turpitudini religiose, metafisiche, politiche,  giuridiche, economiche e sociali, presenti e passate, pretende di servirsi ancora oggi per istupidire ed asservire il mondo. Io sono un  amante fanatico della  libertà, considerandola  come l'unico mezzo   in seno al quale possono svilupparsi e crescere l'intelligenza, la dignità e la felicità degli uomini; non di questa libertà tutta formale,   concessa, misurata e sottoposta a regolamento dallo Stato, menzogna eterna e che  in realtà non rappresenta mai nient'altro all'infuori del privilegio di alcuni fondato sulla schiavitù di tutti; non di   questa libertà individualista, egoista, meschina e fittizia vantata dalla scuola di Rousseau, come da tutte le altre scuole del liberalismo borghese, e che considera quello che essa dice diritto di tutti, rappresentato dallo Stato, come il limite del  diritto di ognuno, ciò che tende necessariamente e sempre alla riduzione a zero del diritto di ognuno. No, io intendo la sola libertà che sia veramente degna di tale nome, la libertà che consiste nel pieno sviluppo di tutte le potenze materiali, intellettuali e morali le quali si trovano allo stato di facoltà latenti in ognuno; la libertà che non riconosce altre restrizioni all'infuori di quelle che ci sono tracciate dalle leggi della nostra stessa natura; in guisa che propriamente parlando non vi sono restrizioni, poiché tali leggi non ci sono imposte da qualche  legislatore dal di fuori, il quale si trovi sia accanto, sia al di sopra di noi; esse ci sono immanenti, inerenti e costituiscono la base stessa di tutto il nostro essere, tanto materiale che intellettuale e morale; invece dunque di trovare in esse un limite, noi dobbiamo considerarle come le condizioni reali e come la ragione effettiva della nostra libertà. Io intendo questa libertà di ciascuno, che lungi dall'arrestarsi come di fronte a un limite innanzi alla libertà altrui, vi trova al contrario la sua conferma e la sua estensione all'infinito; la libertà illimitata di ognuno per mezzo della libertà di tutti, la libertà per la solidarietà, la libertà nell'uguaglianza; la libertà trionfante sulla forza brutale e sul principio di autorità che non fu mai nient'altro che l'espressione ideale di tale forza; la libertà, che dopo  aver abbattuto tutti gli idoli celesti e terrestri, fonderà e organizzerà un mondo nuovo, quello dell'umanità solidale, sulle rovine di tutte le  Chiese e di tutti gli Stati. Io sono un partigiano convinto dell'uguaglianza economica e sociale, perché so che al di fuori di tale uguaglianza, la libertà, la giustizia, la dignità delle nazioni non  saranno mai nient'altro che menzogne. Ma, pur essendo partigiano della libertà, questa condizione primaria dell'umanità, io penso che l'uguaglianza si debba stabilire nel mondo attraverso l'organizzazione spontanea del lavoro e della proprietà collettiva delle associazioni produttrici liberamente organizzate e federate nelle comuni e attraverso la federazione anch'essa spontanea delle comuni, ma non tramite l'azione suprema e tutelare dello Stato.

domenica 2 ottobre 2022

2 ottobre 1979: rivolta al carcere dell'Asinara

Il 2 ottobre 1979 scoppia una rivolta all'interno del carcere di massima sicurezza dell'Asinara. L'obiettivo è la distruzione del carcere, "chiudere con ogni mezzo l'Asinara e i punti di massima deterrenza del circuito delle carceri speciali". Alla fine del settembre 1979 era stato scoperto dalla polizia un piano di evasione di massa dal carcere dell'Asinara, che si sarebbe dovuta compiere con l'aiuto di persone dall'esterno. Questa scoperta aveva causato un ulteriore peggioramento delle condizioni di vita all'interno del carcere.

La rivolta inizia alle 19 circa: una cinquantina di detenuti si raduna in uno stanzone, dopo aver immobilizzato una guardia e aver aperto le celle. I detenuti sono tutti appertenenti al reparto di massima sorveglianza in località Fornelli. Sono nella quasi totalità detenuti "politici", tra i quali molti appartenenti alle Brigate Rosse. Le guardie vengono prese di mira da lanci di suppellettili, nei corridoi vengono lanciate le bombolette di gas dei fornelli in dotazione. Centinaia di poliziotti, carabinieri e guardie di finanza vengono fatte affluire sull'isola da tutta la Sardegna. La battaglia dura diverse ore, il reparto viene in parte distrutto. La polizia interviene con un fitto lancio di lacrimogeni all'interno del carcere e riesce alla fine a riprendere il controllo dell'edificio. Dopo la rivolta tutti i detenuti vengono trasferiti in altre carceri speciali. Le lotte all'interno del carcere riprenderanno con più forza: nel settembre del 1980 ci sarà la rivolta nella sezione speciale del carcere di Badu 'e Carros (Nuoro) e nel dicembre dell'80, in concomitanza con il sequestro del magistrato D'Urso (responsabile ministeriale dei CS) da parte dalle Brigate Rosse, ci sarà la rivolta nel carcere di Trani. Il 29 dicembre 1980, il Comitato di Lotta dei Proletari Prigionieri dell'Asinara fa uscire un comunicato in cui vengono ripresi i fatti dell'anno precedente: "Il movimento organizzato dei Proletari Prigionieri, il movimento rivoluzionario in dialettica con l'iniziativa dell'Organizzazione Comunista Combattente BRIGATE ROSSE, hanno chiuso definitivamente il campo dell'Asinara, portando a termine la battaglia intrapresa il 2 ottobre 1979.

Intorno alla parola d'ordine "Chiudere con ogni mezzo l'Asinara" si è articolata una campagna di lotta del movimento dei proletari prigionieri, del movimento rivoluzionario dispiegatasi a vari livelli, via via più matura ed incisiva. La lotta di resistenza offensiva del nostro Comitato di Lotta, le iniziative di massa nei vari kampi, le battaglie armate e di massa di Volterra, Fossombrone e Nuoro, lo sviluppo della campagna iniziata dalle Brigate Rosse e ancora in corso con la cattura di Giovanni D'Urso, la battaglia di Trani hanno sintetizzato in un disegno unitario e in un'offensiva generale le reali aspirazioni ed interessi del movimento dei Proletari Prigionieri: BATTERE IL PROGETTO CONTRORIVOLUZIONARIO DELLA DIFFERENZIAZIONE E DELL'ANNIENTAMENTO, CHIUDERE L'ASINARA, RAFFORZARE I COMITATI DI LOTTA, COSTRUIRE LA LIBERAZIONE DEI PROLETARI PRIGIONIERI. In quanto laboratorio della pratica di annientamento, polo di massima deterrenza per tutto il Proletariato Prigioniero, punta di diamante dell'intero circuito di differenziazione, quello dell'Asinara era uno dei campi più cari al progetto politico dell'esecutivo rispetto al carcerario. Di fronte all'offensiva rivoluzionaria, allo scardinamento della loro strategia, spaccati al loro interno, costretti a smantellare il campo dell'Asinara dalla forza del movimento dei Proletari Prigionieri e dall'iniziativa della guerriglia, l'unica foglia di fico che i culi di pietra dell'imperialismo hanno trovato alla loro impotenza è stata una sedicente "autonoma iniziativa". Ma per quanto ripetuta una menzogna non diventa per questo verità e i proletari sanno benissimo riconoscerla: È la lotta del movimento dei Proletari Prigionieri, l'iniziativa del movimento rivoluzionario e della sua avanguardia armata che ha chiuso il campo dell'Asinara e ha colpito il centro nervoso della politica carceraria imperialista!"

sabato 1 ottobre 2022

1 ottobre 1984: lo sciopero dei minatori britannici

Dopo l'elezione di Margaret Thatcher nel 1979 in tutto il Regno Unito si andò accentuando la politica liberista volta alla distruzione dello stato sociale e alla liberalizzazione delle aziende di propietà dello stato.

La strategia delineata fu quella di intraprendere un vasto programma di chiusura di unità produttive in taluni settori, come la siderurgia, le ferrovie e il carbone, di privatizzare e intaccare il monopolio statale nei settori in espansione come le telecomunicazioni, e di stabilire un sistema misto pubblico-privato nella sanità, tra ospedali, municipalità e ditte private.

Uno dei primi obbiettivi del governo, dopo i lavoratori pubblici e i ferrovieri, fu l'industria del carbone, una delle più grosse d'Europa, e nel quale esisteva probabilmente il più combattivo e compatto sindacato inglese il National Union of Mineworkers.

A seguito della decisione dell'Ufficio Nazionale del Carbone di avviare un piano di ristrutturazione del settore che avrebbe portato alla chiusura di venti pozzi e al conseguente licenziamento di decine di migliaia di lavoratori,il 12 marzo 1984, iniziò lo sciopero.

Entro la fine di marzo la produzione di carbone nel Regno Rnito fu quasi totalmente ferma.

Un ruolo determinante in questa lotta lo giocarono i picchetti volanti, ai quali parteciparono molti giovani lavoratori che per la prima volta si trovano coinvolti in un conflitto sociale su scala nazionale.

Protagoniste durante tutta la durata dello sciopero furono le donne che non accettarono più il loro ruolo di subordinazione che le vedeva ad organizzare le attività di sostegno agli scioperanti ma anzi furono sempre in prima linea nelle assemblee, nei picchetti, nei cortei e negli scontri con la polizia.

Per fermare i picchetti il governo inviò circa diecimila polizzioti nei bacini carboniferi che si scatenarono in cariche feroci sui lavoratori. Una delle principali operazioni della polizia fu quella di intercettare i picchettatori per impedire che arrivino alle miniere.

L'azione dello stato non si limitò alla repressione poliziesca: multe e confische di beni colpirono le organizzazioni sindacali che organizzarono o appoggiarono i picchetti in altre regioni, addirittura il NUM ricevette una multa di 200 mila sterline per aver organizzato i picchetti e quando il sindacato si rifiutò di pagarla tutti i suoi fondi vennero sequestrati dal tribunale di Londra.

Contemporaneamente ai minatori sciesero in sciopero i ferrovieri e i portuali per evitare che il carbone venisse importato dall'estero e per dimostrare il loro sostegno ai minatori. Così facendo riuscirono a portare all'esaurimento la maggior parte delle scorte di carbone e a costringere allo stop la produzione in altri settori chiave dell'economia britannica, come le acciaierie.

La reazione del Governo fu durissima: vennero intensificati i processi, le cariche ai cortei dei lavoratori e per disperdere i picchetti, si iniziò ad intaccare gli stessi diritti sindacali con alcuni tribunali che dichiaravano illegali gli scioperi.

Il 1 ottobre 1984 il segretario del NUM viene citato in giudizio per aver difeso la pratica dei picchetti e aver contraddetto pubblicamente un tribunale che aveva dichiarato illegale lo sciopero nello Yorkshire.

I parlamentari laburisti si dissociarono dalle pratiche messe in campo dai lavoratori in lotta arrivando fino a condannare lo sciopero che stava proseguendo da mesi; di fatto associandosi alla campagna diffamatoria messa in campo dal governo e dai giornali borghesi contro l'intera categoria.

Questa campagna unita alla dura repressione (due lavoratori uccisi dalla polizia; 710 licenziati, circa 10.000 delegati e militanti di base arrestati e in attesa di processo) e all'azione legale da parte del governo contro il NUM portò una strettissima maggioranza del congresso del sindacato a decretare la fine dello sciopero il 3 marzo 1985 che comunque, soprattutto in Scozia e nel Kent, durò ancora diversi giorni.