..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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domenica 29 marzo 2020

L’obiettivo della rivoluzione

Diversi milioni di uomini vivevano in un immenso fabbricato senza porte né finestre. Innumerevoli lampade ad olio con la loro debole luce rivaleggiavano con le tenebre che dominavano in permanenza. Com’era usanza, fin dalla più saggia Antichità, la loro manutenzione incombeva ai poveri, cosicché il corso dell’olio combaciava fedelmente con il corso sinuoso della rivolta e della bonaccia. Un giorno scoppiò un’insurrezione generale, la più violenta mai conosciuta da questo popolo. I capipopolo esigevano una giusta ripartizione delle spese di illuminazione; un gran numero di rivoluzionari rivendicavano la gratuità di quello che chiamavano un servizio di utilità pubblica; alcuni estremisti giungevano fino a reclamare la distruzione di una dimora che si sosteneva essere insalubre e inadatta alla vita comune. Come di consueto, i più ragionevoli si trovarono disarmati di fronte alla brutalità della lotta. Nel corso di uno scontro particolarmente vivo con le forze dell’ordine, un obice mal diretto sventrò il muro di cinta, aprendovi una breccia attraverso la quale si riversò la luce del giorno. Passato il primo momento di stupore, questo afflusso di luce fu salutato con grida di vittoria
La soluzione fu immediata, bastava ormai spianare altre brecce. Le lampade furono gettate fra i rifiuti o relegate nei musei, e il potere toccò agli apritori di finestre. I sostenitori di una distruzione radicale furono dimenticati e la loro stessa liquidazione discreta passò, sembra, quasi inosservata. (Ci si disputava sul numero e la disposizione delle finestre). Poi i loro nomi tornarono alla memoria, uno o due secoli più tardi, quando, assuefatto a vedere grandi pareti vetrate, il popolo, questo eterno scontento, si mise a sollevare stravaganti questioni. “Trascinare l’esistenza in una serra climatizzata, è vita questa?” domandava.
Nel rispetto comune della funzione dirigente, le forze antagoniste hanno continuato ad alimentare i germi della loro coesistenza futura. Quando il capogioco prende il potere di un capo, la rivoluzione muore con i rivoluzionari. La terza forza quella non catalogata radicalizza le contraddizioni e le porta al superamento, in nome della libertà individuale e contro tutte le forme di costrizione. Il potere non ha altra risorsa che quella di soffocare o di recuperare la terza forza senza riconoscerne l’esistenza.

mercoledì 25 marzo 2020

Chi paga i costi del Coronavirus?

Il Coronavirus è una cartina di tornasole. Chi non ricorda gli esperimenti nei laboratori di chimica, alle superiori, con le striscioline di carta che magicamente cambiavano colore a seconda del pH con cui entravano in contatto?
Il contagio da Covid19 che sta colpendo duramente la nostra società è allo stesso modo un rivelatore di molte delle contraddizioni che affliggono il modello di sviluppo in cui viviamo, la sua irrazionalità, la sua disumanità.
Il virus mette in discussione i comportamenti sociali più intimi, ma attraversando le grandi catene del valore globale. Fa emergere il coefficiente di sfruttamento, di precarietà, di sacrificio del lavoro di riproduzione e produzione e allo stesso tempo deraglia (anche se momentaneamente e non completamente) la valorizzazione capitalista. Rivela ciò che era stato nascosto sotto il tappeto: l'effetto delle privatizzazioni, della devolution, dei tagli alla spesa sociale, delle esternalizzazioni, della follia logistica del capitale, dello scarico dei costi della riproduzione sociale sulle donne e sui singoli individui, della finanziarizzazione dell'economia.
Quello che sta avvenendo in questi giorni ha una portata storica e sociale enorme ed ha implicazioni in quasi ogni aspetto dell'organizzazione della società. Il sistema neoliberale è messo a dura prova dalla sua sostanziale incapacità di affrontare una crisi del genere, di prendersi cura dei soggetti più deboli, di rispondere alle domande sociali che in un momento di questo genere nascono nei luoghi dello sfruttamento, della mercificazione e della privazione di libertà: carceri, fabbriche, uffici, trasporti, ospedali, abitazioni, servizi sociali, le istituzioni della formazione.
Una domanda su tutte: chi pagherà l'inadeguatezza di questo sistema di sviluppo nel confrontarsi con un fenomeno del genere? Chi farà le spese di questa crisi?
Se è importante in questo momento contribuire in ogni modo ad evitare il diffondersi del contagio, è altrettanto necessario raccogliere e organizzare queste domande, cogliere l'importanza dei conflitti in corso nel campo della salute, del lavoro, della riproduzione sociale e prepararsi per quelli a venire.

martedì 24 marzo 2020

La lotta contro la mercificazione durante la crisi da Coronavirus


Non vogliamo più essere una merce.
In questa crisi inedita, non tanto nelle sue caratteristiche intrinseche, quanto nella portata esponenziale e diffusa per via della globalizzazione, si sta dando un'esperienza di massa di spiazzamento. Qualcuno ha definito quest'esperienza come simile a quella di una guerra, qualcun altro l'ha paragonata a uno sciopero generale, ma la sostanza è una sospensione dei rapporti di produzione e riproduzione capitalistici "as usual".
Dalle nostre quarantene segregati in casa (per chi ha la fortuna di avercela), o mentre ci rechiamo sui luoghi di lavoro che continuano a rimanere aperti ci domandiamo irrimediabilmente che ne sarà del nostro futuro, chi pagherà i costi di questa crisi, quanto è insopportabile un sistema sociale di questo genere, come sarà il mondo quando tutto questo finirà. Sono domande che oggi non riguardano i contesti militanti o lotte specifiche, movimenti d'opinione, ma traggono sostanza dalla scoperta di massa, improvvisa ma pronosticata, di tutti i limiti, la disumanità e l'irrazionalità della società organizzata secondo il dettame neoliberista.
Questa esperienza di massa non durerà per sempre, ma lascerà dietro di sé molte importanti domande a cui oggi l'ideologia capitalista tout court non sa dare risposte.
Molto di ciò che accadrà dipende dalle condizioni oggettive in cui si svilupperà questa crisi nei diversi territori, molto anche dalle condizioni pregresse, ma in maniera significativa oggi si apre uno spazio politico di contesa potenzialmente immenso e l'agire delle soggettività organizzate, se ben calato nella realtà, potrebbe determinare (almeno in parte) l'esito di questa crisi.
In particolare, ad emergere in controluce dentro i conflitti che si stanno dando e le contraddizioni oggettive denudate dal Covid19 vi è la mercificazione dell'intera sfera della riproduzione sociale. Essa emerge tanto nella forma più tipicamente marxiana della separazione della merce tra il suo valore d'uso e il suo valore di scambio e dunque anche in ciò che è utile produrre per la società e ciò che invece va a gonfiare solo il surplus delle borghesie, tanto nel rapporto quindi dell'umano con la merce, quanto nella "mercificazione complessiva dei rapporti sociali". In questo senso il differenziale tra la salute generale della società e l'industria della medicalizzazione (compresa dello scarico del lavoro di cura) emerge in tutta la sua crudeltà e racconta quel "tutto" capitalista in cui siamo gettati che in fondo è in antitesi, in scontro, in antagonismo con la vita umana stessa. E dunque ben oltre le privatizzazioni, le devolution, la corruzione, ben oltre allo scontro tra pubblico e privato oggi si mostra un possibile, forse flebile ma inedito negli ultimi 40 anni, spiraglio di itinerario di lotta contro la mercificazione su delle scale impreviste. E' necessario tenere ben presente questo punto, che lo si definisca demercificazione, decrescita, o in altro modo. Lottare dentro e contro la macrofabbrica capitalistica con i suoi rapporti sociali per contenderne il potere e restituire importanza al valore d'uso delle merci, del lavoro, dei servizi, della vita contro il suo valore di scambio.
Per fare ciò forse sarà necessario recuperare la dicotomia luxemburghiana tra il momento riformista e quello rivoluzionario, tra il lavoro quotidiano di organizzazione della lotta e l'orizzonte di una società libera dalla merce.
Sicuramente, in ogni caso, questo è un momento epocale, e quando la storia accelera così, è sempre una buona regola provare a dare una spinta.

lunedì 23 marzo 2020

Meglio invisibili

La rivolta scoppiata nelle scorse settimane nelle carceri è un boccone avvelenato per tutti i giustizialisti di questo paese. Lo è per un semplice motivo: le rivolte e le proteste rompono la retorica della "terapia delle manette" di cui questi personaggi si fanno alfieri.
Meglio invisibili
Il fatto che si materializzino sugli schermi delle TV e dei computer le immagini dei carcerati, le loro rivendicazioni, le voci dei parenti, li rende umani, li rende esseri tangibili. E se sono esseri tangibili con delle voci, degli affetti, delle rivendicazioni allora qualcuno potrebbe pure pensare che abbiano dei diritti.
Il carcere in fondo è il rimosso per eccellenza della nostra società, il luogo dove vengono depositati gli indesiderabili, quasi sempre in maggior numero che i veri criminali. Il luogo che è deputato ad esorcizzare le paure della società, la falsa soluzione di prossimità a tutti i problemi. Se le carceri esplodono forse qualcuno potrebbe iniziare a domandarsi se la questione è la criminalità in sé o il contesto sociale che la produce.
E quindi ecco gli editorialisti, i politici e i magistrati che si affollano a difendere le mura dell'istituzione carceraria, a tentare di ricostruire lo schermo che rende invisibile chi è in carcere a chi non lo è. Tra i più solerti naturalmente troviamo Travaglio che si spende anima e corpo in questa campagna in difesa del ministro Bonafede. Nel suo editoriale "Meglio dentro" rifila la classica sequela di manfrine che solo chi non conosce minimamente la realtà del carcere può proferire.
La tesi di Travaglio sarebbe che, poiché i contagiati all'interno delle carceri sono statisticamente minori di quelli nel paese Italia nel suo complesso, le rivendicazioni di amnistia e indulto sarebbero ingiustificabili. Una tesi volontariamente faziosa, una vera arrampicata sugli specchi d'altura. Probabilmente Travaglio non ha mai visitato un penitenziario e in questi giorni non ha prestato attenzione alle molte denunce che arrivano dalle associazioni e dai parenti dei detenuti. Le condizioni di cronico sovraffollamento, la pessima situazione igienica, la totale carenza di un'infrastruttura sanitaria adeguata, la mancanza assoluta di precauzioni da parte delle guardie rendono le carceri una vera e propria bomba ad orologeria. Quello che sta succedendo nei penitenziari è molto simile a ciò che è successo in una fase iniziale in molti paesi europei ai primi vagiti della crisi Coronavirus. La rimozione: se io non nomino il problema e evito che lo nominino altri il problema scompare. Ci chiediamo quanti tamponi siano stati fatti ai carcerati che hanno mostrato i sintomi se non ve ne sono a sufficienza nemmeno per testare i lavoratori della sanità in prima linea. Ci chiediamo quale possa essere la verità sui dati statistici che escono dalle mura dei carceri quando ancora non è chiara la dinamica in cui hanno perso la vita 13 persone durante le rivolte.
Infine Travaglio rivendica l'adeguatezza delle nuove misure adottate dal governo in fatto di detenzione durante la crisi. Peccato che queste misure, comunque insufficienti e irresponsabili, siano state proprio il frutto del sussulto di dignità che ha spinto i carcerati a sollevarsi in 27 carceri, non certo della visione umanitarista del ministro Bonafede. Tra l'altro in molti istituti le nuove norme sono rimaste per il momento unicamente sulla carta.
Il Coronavirus mostra tutta la crudeltà, l'ottusità e la fragilità di un sistema giudiziario che tenta di rimuovere le questioni sociali gettando migliaia di persone in galera a marcire, ben difeso dalle schiere di giustizialisti sempre pronti a tenere in piedi i cordoni di sicurezza della presunta legalità.


domenica 22 marzo 2020

E quindi l’austerità non è l’unica opzione possibile


La notizia è di quelle importanti. Con la sospensione del Patto di Stabilità, la Commissione Europea due giorni fa ha affermato una cosa ben precisa. Ovvero, ci sono casi in cui la tenuta dei conti e il rispetto di alcuni fondamentali economici non può sovrastare le ragioni di "pubblica necessità". Ma essendo quest’ultime frutto di una scelta politica, cade l’inganno a cui per anni ci hanno sottoposti i fautori del There is no alternative, Troika edition.
E quindi l’austerità non è l’unica opzione possibile
Sforare dunque si può, e alcune ragioni sono più importanti di altre. Non si poteva farlo per finanziare nuove scuole, nuovi ospedali, piccole opere utili nei paesi più colpiti dalla crisi dei subprime. Si può farlo nel momento in cui lo scoppio della pandemia mette a rischio la tenuta del sistema produttivo comunitario, gli interessi delle grandi aziende, in maniera potenzialmente ancora più dura rispetto al 2008 soprattutto per paesi come la Germania.
Come riguardo alla situazione nelle carceri, nelle fabbriche, dunque anche in ambito di politica finanziaria l’esplosione del Covid-19 mostra in controluce le contraddizioni e la profonda politicità di dogmi dati per assunti e indiscutibili da decenni. È questa la questione politica di fondo aperta dalla decisione di Bruxelles.
È una svolta potenzialmente epocale sulla tenuta stessa dell’impianto ordoliberista europeo. Di fatto il meccanismo deficit/pil è quello che ha portato negli scorsi anni a giustificare qualunque tipo di politica di austerità, a imporre qualunque sacrificio nei confronti delle popolazioni. In Italia questo si tradotto nell’approvazione del fiscal compact e con la sua traduzione addirittura in Costituzione. In Grecia con l’impoverimento di grandi fette di popolazione e con la distruzione dell’idea di decisionalità popolare, come dimostrato dal referendum del 2015.
Ora che la crisi morde e morderà tutte le economie senza distinzioni, la musica sembra cambiare. Il progetto capitalistico sovranazionale europeo sembra arrivato a un punto di profonda crisi, in cui il motore tedesco non riesce più a far fronte a partire dalla sua potenza scaricata per anni sulle periferie continentali. Certo bisognerà vedere se l’apertura europea contiene una politica economica che varrà in assoluto, sul lungo periodo. O se saranno svincolati solo alcuni tipi di spese, per un periodo limitato. Certo è che ciò che non fu concesso alla Grecia, ciò che non fu concesso all’Italia, ora è in linea di massima possibile. Quindi oggetto di possibile contesa politica, oltre ogni inevitabilità. Anche oltre l'emergenza del momento.
Certo, ci voleva un fatto che avesse una rilevanza globale. Difficilmente nel gioco dei sovranismi interni alla Ue se il Covid-19 avesse colpito solo l’Italia la reazione sarebbe stata la stessa. Già oggi le divergenze a livello europeo tra paesi del sud e paesi del nord su come gestire praticamente questa svolta non sembrano essere poche. Non a caso la Commissione ha ricordato che "non va messa a rischio la sostenibilità di bilancio". Traducendo, c'è chi potrà spendere di più e chi potrà spendere di meno.
Eppure ora come ora, caduto anche da un punto di vista ideologico il mantra sul quale si sono fondati gli ultimi trent’anni di architettura comunitaria, si gioca una partita importante per il futuro dell’Unione e della sua popolazione. Quali saranno gli investimenti ammessi, in quali ambiti? Si potrà davvero investire sulla sanità, sulla scuola, sulla ricerca, sul sostegno ai milioni di disoccupati che produrrà questa crisi? Quali segmenti sociali beneficeranno maggiormente dall’apertura dei cordoni finanziari?
La risposta a questi quesiti non arriverà soltanto dall'azione dei governi oggi, ma anche da quello che succederà quando questa situazione emergenziale di reclusione totale sarà superata. Sappiamo benissimo che anche quando si sbloccano fondi, questi non vengono distribuiti in parte equa all'interno delle società. La crisi economica di cui stiamo iniziando a comprendere la portata in queste settimane si scatenerà senza alcun dubbio in maniera differenziata sulla popolazione. Ma con la decisione della Commissione, la battaglia sul tema delle risorse, da ieri e nel prossimo futuro, assume una dimensione inedita.


giovedì 19 marzo 2020

Epidemia? Strage di Stato


I carri funebri sono in fila di fronte al cimitero di Bergamo. Quest’immagine, più di tante altre, ci mostra in tutta la sua crudezza la realtà. Non si può neppure lasciare un fiore. Non li hanno neppure potuti accompagnare verso la fine. Sono morti soli, lucidi, affogando lentamente.
Dalle finestre, ad ore stabilite, la gente grida, canta, batte le stoviglie e si riunisce in uno spirito nazionalista evocato da politici e media. “Tutto andrà bene. Ce la faremo”.
Il governo con editti che si sono susseguiti a ritmo frenetico ha sospeso il dibattito, persino il flebile confronto democratico, persino il rito esausto della democrazia rappresentativa e ci ha arruolati tutti. Chi non obbedisce è un untore, un criminale, un folle.
Intendiamoci. Ciascuno di noi è responsabile dei propri atti. Noi anarchici lo sappiamo bene: per noi la responsabilità individuale del proprio agire è il perno di una società di liber* ed eguali.
Avere cura dei più deboli, degli anziani, di chi, più degli altri, rischia la vita è un dovere che sentiamo con grande forza. Sempre. Oggi più che mai.
Un dovere altrettanto forte è quello di dire la verità, quella verità, che chiusi nelle case di fronte alla TV, non filtra mai. Eppure è, in buona parte, sotto gli occhi di tutti.
Chi cerca una verità nascosta, un oscuro complotto ordito dal proprio cattivo preferito, chiude gli occhi di fronte alla realtà, perché chi li apre si batte per cambiare un ordine del mondo ingiusto, violento, liberticida, assassino.
Ogni giorno, anche oggi, mentre la gente si ammala e muore, il governo italiano spreca 70 milioni di euro in spese militari. Con i 70 milioni spesi in uno solo dei 366 giorni di quest’anno bisestile si potrebbero costruire ed attrezzare sei nuovi ospedali e resterebbe qualche spicciolo per mascherine, laboratori analisi, tamponi per fare un vero screening. Un respiratore costa 4.000 mila euro: quindi si potrebbero comprare 17.500 respiratori al giorno: molti di più di quelli che servirebbero ora
In questi anni tutti i governi che si sono succeduti hanno tagliato costantemente la spesa per la sanità, per la prevenzione, per la vita di noi tutti. Lo scorso anno, secondo le statistiche, per la prima volta le aspettative di vita si sono ridotte. Tanti non hanno i soldi per pagare le medicine, i ticket per le visite e le prestazioni specialistiche, perché devono pagare il fitto, il cibo, i trasporti.
Hanno chiuso i piccoli ospedali, ridotto il numero di medici e infermieri, tagliato i posti letto, obbligato i lavoratori della sanità a fare straordinari, per sopperire ai tanti buchi.
Oggi, con l’epidemia, non ci sono più code agli sportelli, non ci sono più liste di attesa di mesi ed anni per un’indagine diagnostica: hanno cancellato le visite e gli esami. Li faremo quando passerà l’epidemia. Quanta gente si ammalerà e morirà di tumori diagnosticabili e curabili, quanta gente vedrà peggiorare le proprie patologie, perché hanno messo in quarantena quello che restava della sanità pubblica? Intanto le cliniche e gli ambulatori privati fanno qualche mossa pubblicitaria e moltiplicano gli affari, perché i ricchi non restano mai senza cure.
Per questo il governo ci vuole ai balconi a cantare “Siam pronti alla morte. L’Italia chiamò”. Ci vogliono zitti e ubbidienti come bravi soldati, carne da macello, sacrificabile. Dopo chi resta sarà immune e più forte. Sino alla prossima pandemia.

mercoledì 18 marzo 2020

Parigi, 18 marzo 1871


Parigi, sono le tre del mattino, alcuni reggimenti dell'esercito regolare e distaccamenti della polizia, al comando del generale Lacomte, si inerpicano silenziosi per i viottoli di Montmartre allo scopo di impadronirsi dei cannoni della Guardia Nazionale.
L'operazione fila liscia fino alle prime luci del mattino, ma verso le 7, mentre i soldati di Lacomte aspettano i traini per sgombrare i pesanti cannoni, ecco che le campane di Montmartre, di Belleville, del Faubourg du Temple suonano a stormo per dare l'allarme. 
Una marea di operai e di artigiani in blusa da lavoro, di donne, di ragazzini, si insinua tra le file dei reggimenti e le scompiglia; Lacomte ordina di far fuoco ma i soldati, dopo un attimo di esitazione, levano in alto i fucili e fraternizzano con i popolani. Si ode Lacomte gridare ai soldati: “Massa di vigliacchi! Rifiutate di battervi!”, poi gli stessi soldati, aizzati dalla folla, circondano il loro generale e lo portano a forza sino al cortile dell'edificio dove ha sede il Comitato Centrale della Guardia Nazionale, in rue des Rosies.

È il 18 marzo del 1871, nasce la Comune di Parigi


martedì 17 marzo 2020

Stop al Tav per il Coronavirus. È ora di cambiare modello di sviluppo


La stampa francese divulga notizia dello stop al cantiere del TAV a causa del Coronavirus.
Il simbolo per eccellenza della distruzione dell'ambiente, dello sperpero di denaro pubblico e delle lobby politiche affaristiche che gestiscono le nostre risorse come se fossero di loro proprietà si arena nuovamente.
Mentre Telt attraverso la voce di Virano tenta di minimizzare la situazione, affermando che per quanto riguarda il versante italiano sono in corso solo "micro-attività" (ma va? Il cantiere è ormai fermo da due anni), dall'altro lato del confine le aziende stanno smobilitando in attesa della pronuncia definitiva del governo. Virano si consola affermando che "entro fine mese ci sarà la firma a Bruxelles sull’accordo per i finanziamenti e a fine aprile le offerte per il bando di gara per il tunnel di base lato francese". Ci sembra chiaro però che davanti alla situazione di crisi che ormai coinvolge tutta Europa è possibile e auspicabile che le priorità internazionali cambino.
D'altronde il modello di sviluppo del TAV è lo stesso che ha permesso la diffusione a livello globale del Coronavirus. Un modello in cui la merce (e la sua velocità) ha la priorità sulla salute delle persone, sull'ambiente, sui bisogni sociali dei territori. Le business class per i manager sono più importanti dei treni per i pendolari. Un modello di sviluppo che mentre investe 40 miliardi complessivamente per costruire ferrovie ad alta velocità, sottrae alla sanità pubblica 37 miliardi di euro. Che altera interi habitat e produce polveri e inquinamento che aggraveranno le malattie respiratorie in valle, allo stesso tempo i presidi medici vengono chiusi.
Mentre si approssima la recessione i Virano, gli Esposito, i Foietta sperano di riuscire a tutelare i propri affari nella tempesta, magari ripetendo la solita solfa stanca sugli investimenti per ripartire. Ma sarebbe totalmente irresponsabile continuare su questa strada, ormai è cristallino a molti che la "crescita ad ogni costo" è una maledizione. In un momento come questo sarebbe totalmente irresponsabile continuare a sperperare denaro pubblico in questo monumento alla stupidità.
Mentre viviamo questa crisi la notizia dello stop al cantiere del Tav ci strappa un sorriso, consapevoli di quanto la sorte si dimostri avversa di questi tempi agli speculatori e ai loro sponsor politici, coscienti che i tempi per la costruzione di questa opera ecocida si allungano inevitabilmente. Convinti che il Tav non si farà mai.
A sarà dura

lunedì 16 marzo 2020

La nostra salute non vale il loro profitto


Dopo le carceri iniziano a muoversi le fabbriche. Come una reazione a catena, a partire dallo sciopero spontaneo di qualche giorno fa a Pomigliano, in alcune delle zone a maggiore concentrazione operaia d'Italia si sta diffondendo la mobilitazione.
La nostra salute non vale il loro profitto
Le richieste sono chiare, ovvie, necessarie. In molti si aspettavano che il discorso di Presidente del Consiglio Conte sancisse la chiusura delle fabbriche e dei servizi non essenziali o perlomeno delle norme più restrittive sulla messa in sicurezza dei luoghi di lavoro. Così non è stato: il pressing senza quartiere di Confindustria e delle multinazionali estere per continuare a produrre e a mantenere aperte le aziende ha portato i suoi frutti.
Milioni di lavoratori in tutta Italia oggi sperimentano sulla propria pelle il ricatto del salario al costo della propria stessa salute. A quanto pare nel nostro paese tutto si può fermare, meno che i profitti dei padroni, anche al costo di implementare la diffusione del contagio.
Il Covid19 è una cartina di tornasole. Svela tutte quelle condizioni di insicurezza, di insalubrità, di sfruttamento e alienazione all'interno delle fabbriche e dei posti di lavoro che sussistono da sempre, regolate dalle leggi del profitto. Ma oggi di fronte a questa situazione tali condizioni diventano insopportabili, insostenibili, non si possono più accettare.
Perché delle aziende che producono componentistica per auto, cancelleria, abbigliamento e molto altro non dovrebbero fermarsi? Tanto più che agli esercizi commerciali che dovrebbero vendere queste merci sul nostro territorio è stata imposta la chiusura? Ed ecco che emerge tutta la separatezza dalla merce, tutto il divario tra ciò che è utile e necessario per la società e ciò che invece riempie solo le tasche dei padroni ad altissimo costo per chi lavora.
Il contagio si è diffuso attraverso le catene del valore di coloro che delocalizzano, di chi chiede più privatizzazione, di chi devasta l'ambiente, di chi dice che i salari sono sempre troppo alti e vede la sicurezza sui posti di lavoro come un ingombro alla maggiore accumulazione di capitale.
È il momento di fermare tutto, di interrompere questa folle corsa, di dire che non siamo più disponibili a rischiare le nostre vite e quelle dei nostri cari per un lavoro di merda e un salario da fame. È il momento di mettere davanti alle loro responsabilità governi, imprenditori, multinazionali. Di dire che a queste condizioni noi non ci stiamo più. Di dire che la nostra salute vale molto di più del loro denaro.

sabato 14 marzo 2020

8 marzo, Francia: Rage feministe!


Anche se in ritardo, pubblichiamo questo post di “Infoaut”:

In occasione dello sciopero internazionale transfemminista, già a partire dalla sera del 7 marzo a Parigi si è svolto un grande corteo en mixité choisie (ovvero senza uomini cisgender) determinato e combattivo. La decisione di giocare d’anticipo sull’8 marzo è espressione di rottura con la marcia ufficiale che vede la partecipazione di collettivi e associazioni apertamente islamofobiche, transfobiche, discriminanti nei confronti del sex working, e aventi soprattutto un approccio non rivoluzionario e non anticapitalista.
Già dal concentramento serale in Place de Fêtes si respirava un forte clima di complicità. In poco tempo eravamo già in migliaia a partire in corteo, ad alternare cori contro violenze, stupri, femminicidi, ma anche contro la precarizzazione e la privatizzazione delle nostre vite e dei nostri corpi. Ognuna di noi si è sentita protagonista: ogni centimetro di muro è stato coperto da scritte e manifesti, per lasciare un segno visibile della nostra rabbia. I tanti cartelli recitavano slogan come “La revolution sera feministe, patriarcat au feu”, “Rage feministe”. Una necessità di esprimersi che conserva ancora fresco il ricordo dell’onta del premio Caesar attribuito a Polanski, pluridenunciato per stupro. Ma anche la volontà di dichiararsi dalla parte dei e delle sans papier, a denuncia dei numerosi casi di stupro che avvengono nei CRA (CPR d’oltralpe). Non da ultimi, si sono manifestati piena solidarietà e sostegno alle sex workers, la cui sicurezza sul lavoro è di una precarietà disarmante in seguito alla recente legge francese che rende i clienti passibili di sanzioni penali; soltanto nel mese di febbraio vi sono stati tre assassinii di ragazze trans.
In prossimità di Place de la République, il corteo si è girato su se stesso e ha preso Canal St. Martin, ma è stato subito bloccato da uno schieramento di polizia. Al grido di “police nationale, milice patriarcale”, le femministe hanno provato a forzare il blocco, ricevendo di risposta violente manganellate e spray al peperoncino in faccia. Su Rue de Faubourg du Temple, vi sono stati ulteriori momenti di tensione, manganellate e arresti; poi con un fitto lancio di lacrimogeni il corteo è stato spinto verso place de la République, completamente militarizzata. Diverse donne si sono messe nuovamente di fronte allo schieramento di polizia, per provare a forzare il blocco, ma ripetute cariche hanno spinto il corteo fino a chiuderlo da ogni lato, mentre una decina di compagne venivano portate in questura.
La rabbia e la determinazione espresse nel corso della serata hanno fatto paura ad una controparte politica che affronta i diritti delle donne solo in una cornice di pari opportunità, utile al buon funzionamento del mercato liberale del lavoro e al proprio ruolo di ideale portatrice di “democraticità” nelle istituzioni europee. I corpi delle donne scese in strada contro la violenza, si sono trovati a fronteggiare dalla prima fila quella violenza di stato che da qualche anno aggiunge alle perpetue sopraffazioni agite sulle fasce sociali marginali, un dispiegamento di forze dell’ordine che picchia, sanziona e ferisce in maniera “preventiva”, con la benedizione dei propri rappresentanti e del governo. Il corteo del 7 marzo ha visto esplicitamente schierata la violenza patriarcale dello stato contro una marea di corpi pronti a lottare per il suo abbattimento.
INFOAUT

venerdì 13 marzo 2020

Sciopero spontaneo a Pomigliano per chiedere sicurezza contro il virus

In queste opere a Pomigliano è in corso uno sciopero spontaneo degli operai e delle operaie su tutta la linea di produzione chiedere sicurezza contro il virus.
I lavoratori hanno deciso di scioperare perchè in catena di montaggio, per ovvi motivi, non possono mantenere le distanze di sicurezza per evitare il contagio del Covid19. Il governo Conte nella giornata di ieri ha esteso a tutta Italia le restrizioni già previste per la Lombardia e per altre 14 province del nord. Una misura riassunta dallo slogan "io resto a casa” ma che non vale per tutti e per tutte. Chiuse scuole e università, cinema e musei, limitazioni all'apertura di bar e ristoranti, divieti di assembramento, spostamenti ridotti al minimo fatti salvo per lavoro, necessità primarie o per ragioni di salute.
“Io resto a casa” ha detto Conte: e i 20 milioni di lavoratrici e lavoratori che non restano a casa??? Al momento infatti non è stata prevista una limitazione dei trasporti pubblici né delle merci tanto meno della produzione! La contraddizione appare più che evidente. Le imprese (da Confindustria a Confcommercio) chiedono al governo di garantire ad ogni costo la continuità della produzione, anche nelle zone più contagiate, senza garantire ai dipendenti neppure gli strumenti più elementari di sicurezza. Inutile dire che davanti al profitto tutto cambia. Confindustria dal suo giornale si vanta di avere equilibrato gli interventi del governo. Il testo sulle restrizioni parlava di spostamenti “solo per esigenze di lavoro indifferibili”, ma l’espressione è stata cambiata con “comprovate ragioni di lavoro” e dunque basta un’autocertificazione e tutte e tutti possono andare in fabbrica o a consegnare merci in barba al corona virus. Il governo invoca la “responsabilità sociale” dei cittadini ma esonera il profitto. Seguiremo la vicenda dello sciopero e di tutte le lotte che iniziano a palesarsi in questa situazione assurda, che crea discriminazione e negazione dei diritti, nonostante la grave emergenza.

giovedì 12 marzo 2020

La situazione dal carcere delle Vallette di Torino


Sono appena uscita dalle Vallette dove ho incontrato alcuni detenuti, e tra questi ovviamente Nicoletta. Mi pare opportuno, visto quanto sta avvenendo nelle carceri italiane, relazionarvi su quanto ho visto e sentito.
Quando sono arrivata davanti all’ingresso principale del carcere c’erano alcuni mezzi della Polizia di Stato e dei Carabinieri ed un’ambulanza. Deserto l’ingresso riservato i parenti. Mi hanno misurato la febbre, fatto sottoscrivere un modulo con il quale attestavo di non essere entrata o uscita dalla Cina o dalle zone rosse nei 15 giorni precedenti e di non avere sintomi febbrili. Alla seconda porta ho visto personale della Polizia penitenziaria che preparava e puliva una serie di scudi appoggiati al muro ed in prossimità delle sale colloqui distribuivano mascherine ai pochi avvocati presenti. Ho notato, firmando il registro, che alcuni colleghi avevano annullato le prenotazioni dei colloqui con gli assistiti. Durante il primo colloquio con un detenuto mi è stato riferito di un clima estremamente teso, della consapevolezza di misure del tutto inadeguate: il personale di Polizia penitenziaria, pur entrando ed uscendo dal carcere, continua ad essere privo di qualsivoglia presidio atto a prevenire il contagio, i detenuti continuano ad essere stipati in celle e locali in cui è impossibile rispettare le distanze interpersonali o i minimi presidi sanitari prescritti.
Giunta alla sezione femminile ho visto detenute nel corridoio a distanze estremamente ravvicinate e prive, come il personale penitenziario, di mascherine. Ho poi visto Nicoletta. Sta bene anche se, come le sue compagne, è preoccupata. Prova a distrarsi leggendo la posta che riceve ma quanto sente alla televisione non la conforta. Hanno tutti avuto notizia delle rivolte delle ultime ore e dei morti e già nella notte scorsa molti detenuti hanno iniziato la battitura e si sono levate ripetutamente urla corali. Io stessa, mentre parlavo con Nicoletta, ho sentito a ripetizione battere sulle sbarre delle sovrastanti sezioni e cori di cui non sono riuscita a cogliere il significato letterale, ma che erano evidentemente proteste e richieste di attenzione ed aiuto. Nicoletta mi ha confermato che sono stati sospesi i colloqui con i familiari e molti detenuti temono così di non poter più neppure ricevere i pacchi che, spesso, sono il loro unico mezzo di sostentamento, vista la qualità e la quantità del vitto fornito dal carcere. Da alcuni giorni, poi, pare siano aumentati significativamente i prezzi di quanto i detenuti possono acquistare in carcere. Tutto ciò, unitamente alla paura per le condizioni sanitarie dei parenti che sono fuori getta i detenuti in uno stato di prostrazione, impotenza e preoccupazione importanti. I colloqui sono stati sostituiti dall’autorizzazione a telefonate straordinarie nella misura di 10 minuti per ogni colloquio saltato e, pare, che per effettuare le chiamate si formino delle code in condizioni di inevitabile promiscuità. Nicoletta mi ha inoltre confermato che gli ultimi arrestati vengono collocati, in una sorta di quarantena, ai nuovi giunti con delle mascherine ma, ancora, in condizioni igienico-sanitarie del tutto inadeguate a prevenire l’epidemia in corso. Pare che sia stato anche limitato l’uso delle docce e nelle celle non c’è l’acqua calda. Da questa mattina è stata sospesa anche l’ora d’aria, mentre la socialità all’interno della sezione prosegue inalterata.
Ho chiesto – per scrupolo e, lo confesso, anche per egoistica preoccupazione – a Nicoletta se non riteneva opportuno che predisponessi un’istanza per chiedere, in ragione dell’età e del residuo pena, una detenzione domiciliare. Ha rifiutato condividendo quanto, da fuori, si sta cominciando ad invocare: almeno un’indulto che consenta di alleggerire il sovrappopolamento delle carceri e ripristinare sicurezza sanitaria e condizioni di vita minimamente dignitose.
All’uscita del carcere ho notato che non c’erano più i mezzi della Polizia e dei Carabinieri, ma non saprei dire se se n’erano andati od erano invece entrati.

Valentina Colletta
Avvocato di Nicoletta Dosio

mercoledì 11 marzo 2020

Rimaniamo a casa ma non rimaniamo in silenzio


Mentre il governo impone di rimanere in casa e limitare al minimo gli spostamenti in migliaia si rivoltano nelle carceri, nei quartieri le persone sono abbandonate a sé stesse, le misure di prevenzione non vengono applicate per i lavoratori, gli sfratti continuano ad essere eseguiti, chi viene pagato a prestazione (in nero, con la partita iva o con qualsiasi altra forma contrattuale) rimane senza stipendio a tempo indeterminato dovendo continuare a pagare per l’affitto, per i farmaci, per il cibo, per l’amuchina, le mascherine e i guanti.
L’emergenza sta funzionando come il letto di Procuste: chi è troppo corto o troppo lungo per le misure di prevenzione contro il coronavirus viene stirato o mutilato. Una tortura colpevolizzante per chi non entra preciso nel letto del torturatore. Stiamo assistendo a una violenza senza precedenti di cui il discorso di ieri sera del primo ministro a reti unificate è la rivendicazione esplicita. Nelle parole di Conte non esistono le migliaia di detenuti in rivolta nelle carceri italiane, più di dieci morti, le centinaia di feriti. Persone a cui tutti i giorni la tv ricorda di non frequentare luoghi affollati costrette in celle sovraffollate, persone che se si ammalano non vengono neanche portate in ospedale ma spostate in isolamento, persone a cui viene chiesto di ammalarsi in silenzio senza poter avere comunicazioni neanche con i propri parenti. Persone che stanno venendo massacrate, persone che semplicemente non esistono.
Di una generazione di baristi, fisioterapisti, guide turistiche, supplenti nelle scuole, pizzaioli, logopedisti, istruttori di palestra rimasti da un giorno all’altro senza stipendio, costretti a pagare affitti, a continuare a curarsi, a continuare a consumare, l’unica descrizione che viene fatta è quella del popolo della movida. Le uniche parole che li riguardano sono gli inviti a non fare gli aperitivi. Genitori che non possono più affidare i figli ai nonni ma devono continuare a lavorare. Anche loro non esistono.
Dei lavoratori spremuti peggio di prima, senza alcuna misura di prevenzione, che rispettano le regole in casa loro e poi sono esposti al rischio di contagio in magazzino, in fabbrica o in ufficio non c’è traccia. Semplicemente non esistono. Ieri mattina siamo stati davanti la fabbrica della Peroni a Tor Sapienza gli operai erano in sciopero per chiedere l’applicazione del contratto nazionale di categoria, il padrone ha provato a far assumere crumiri approfittando della limitazione all’attività sindacale imposta dall’emergenza. Alla fine gli operai sono riusciti a imporre un accordo ma hanno dovuto mettersi a rischio, adunarsi, organizzare un presidio: prendere in poche parole la drammatica scelta tra rischiare di essere licenziati e rischiare di estendere il contagio.
Lo sciacallo che gli ha imposto questo probabilmente beneficerà degli sgravi fiscali del governo, lui nel discorso del premier Conte è ben rappresentato, è tra quelli che vanno aiutati di quelli per cui il letto di Procuste è stato disegnato su misura.
Stiamo organizzando la solidarietà nel nostro quartiere, distribuendo amuchina, mettendoci a disposizione per fare la spesa agli anziani, cercando di non lasciare solo nessuno come sta facendo la parte migliore di questo paese: scala per scala, lotto per lotto. Ma il mutualismo non può bastare dobbiamo trovare il modo di prendere parola. Non siamo in grado di costruire comunità autosufficienti, neanche vogliamo, dobbiamo iniziare a porci il problema di come rispondere a questa violenza.
Rispettare le misure di prevenzione è nell’interesse di ciascuno di noi, dobbiamo trovare il modo di non rimanere zitti senza poter uscire di casa. Ogni abbiamo provato con una “lenzuolata”: abbiamo esposto lenzuoli bianchi fuori dalle finestre di casa nostra, come stanno facendo i detenuti fuori dalle gabbie in cui sono chiusi per chiedere un’amnistia subito. Cerchiamo altri modi, aguzziamo l’ingegno.
I compagni di Bagnoli hanno prodotto questo decalogo per impedire che la crisi sanitaria diventi anche crisi sociale, lo facciamo nostro, lo diffonderemo in quartiere nei prossimi giorni:
1. Illegittimità del licenziamento se la motivazione è collegata all’emergenza coronavirus. Mantenimento della retribuzione e del salario per tutti/e lavoratori e lavoratrici
2. Mantenimento delle misure di sicurezza su tutti i posti di lavoro. In caso di positività di colleghi al Covid, chiusura immediata delle aziende e mantenimento degli stipendi a salario pieno
3. Non solo sgravi alle imprese: creazione immediata di ammortizzatori sociali per sostenere lavoratori e lavoratrici. Istituzione di un reddito senza vincoli per supportare chi era legato a lavori a nero o a lavori saltuari
4. Assunzione di nuovi medici e sblocco delle graduatorie per infermieri e OSS
5. Amnistia o misure alternative per tutti i detenuti, è impossibile garantire la salute all’interno di queste carceri
6. Distribuzione gratuita quartiere per quartiere di mascherine, disinfettanti e informazioni sulla prevenzione
7. Blocco immediato degli sfratti e sospensione del pagamento degli affitti e dei mutui, sospensione del pagamento di tutte le bollette per le utenze
8. Maggiore chiarezza su misure di sicurezza, sulle possibilità di spostamento e sulle forme di contagio
9. Ripuliamo l’informazione: aumentiamo l’informazione scientifica. Basta incompetenti e speculatori che creano panico e allarmismo o sottovalutano l’epidemia
10. Stop a qualunque forma di razzismo e discriminazione: la malattia ha colpito e può colpire chiunque tra noi
Dall’inizio di questa epidemia abbiamo ripassato il copione di libri e film apocalittici o distopici: abbiamo tirato fuori dai cassetti Saramago e Resident evil, Artificial kid e Il cigno nero. Forse bastava guardare al senso politico di un filmaccio della nostra adolescenza: se la nave affonda le scialuppe ci sono solo per chi ha potuto pagare la prima classe.

Quarticciolo Ribelle

lunedì 9 marzo 2020

Da Nord a Sud è rivolta nelle carceri. Ora amnistia per tutt* subito!

Rivolta nelle carceri italiane. Da Milano a Palermo, da Modena a Bari, da Vercelli a Frosinone, da Pavia a Foggia si sale sui tetti, urlando "Libertà", chiedendo uguali tutele in tempi di Covid-19. Mentre viaggiano a reti unificate messaggi relativi alla necessità di contenere l’epidemia di coronavirus, attraverso atti di responsabilità e in particolare di auto-isolamento, emerge con forza la realtà di un mondo dove vigono altre regole.
Un mondo dove il diritto alla salute evidentemente non vale allo stesso modo. Per l'ennesima volta il carcere è specchio della distribuzione ineguale di diritti e di attenzione da parte di uno Stato che anche in tempi di controversa solidarietà nazionale deve scaricare su qualcuno la sua essenza di violenza. Non si tratta qui solo della questione legittima di trovare un modo di permettere ai carcerati di continuare i colloqui con i loro cari, tema al centro delle proteste. Colloqui che vengono loro negati in modo molto più severo di quanto avvenga in queste ore a tutto il resto della popolazione, la quale avrà meno diritto alla mobilità ma senza dubbio in maniera infinitamente minore a quella di chi vive in qualunque istituto di pena.
Qui però la questione va oltre. C'è in ballo c'è la risoluzione di un tema atavico e infame come quello del sovraffollamento, su cui il Covid-19 è solo l'ultima delle disgrazie ad impattare. Un tema che può essere affrontato solo a partire da un'amnistia sociale generalizzata, a partire oggi anche dalla necessità contingente di garantire ai carcerati lo stesso diritto alla salute in teoria concesso a tutti gli altri. La gravità della situazione delle carceri non è una novità e non sfugge certo al ministro Bonafede, quello delle pagliacciate in aeroporto in attesa di Battisti, il quale però non spende neanche una parola per i sei morti di Modena. Questione di priorità, come quelle espresse dalla leader dei funzionari della PP Daniela Caputo, che invoca manganelli, punizioni e l'interdizione all'accesso alle galere anche a chi da anni porta avanti battaglie contro le condizioni terribili in cui vive la popolazione carceraria.
Detto questo, la vita degradante nelle carceri italiane è un dato di fatto più forte di qualunque infame polemica sulle modalità di una rivolta che mai come in questo caso è l’unico mezzo per chi non ha voce, per chi non ha spazi di democratica tribuna dove esprimere le sue sofferenze. Di seguito pubblichiamo il racconto della rivolta di ieri a Modena, tratto da Senza Quartiere. Una rivolta che ha fatto già sei morti, nelle parole della direzione del carcere dovuti a morte per arresto cardiaco prima, per overdose dopo...permettetoci, quantomeno, di essere molto, molto, molto scettici.
Una tragedia annunciata. Rivolta nel carcere di Modena per il coronavirus. Si teme una strage.
Sono passate da poco le 14 quando dal carcere di Sant’Anna di Modena fuoriesce una grande nube nera.
In pochi minuti familiari dei detenuti e solidali si ritrovano davanti la struttura carceraria per capire cosa stia succedendo. È in corso una rivolta, una dura rivolta da parte della popolazione carceraria. Le motivazioni alla base di questa sommossa appaiono sin da subito chiare : il divieto dei colloqui con i familiari in seguito al nuovo decreto sul Covid-19. Si tratta in realtà della famosa goccia che ha fatto traboccare il vaso. Sono gli stessi familiari presenti nello piazzale di fronte al carcere a raccontare le condizioni dei propri cari rinchiusi all’interno del penitenziario di Modena.
In seguito alle misure adottate dal governo per il contenimento e la diffusione del Covid-19, infatti, non sono solo stati sospesi i colloqui con i familiari, ma sono state interrotte anche le attività con gli educatori e gli psicologi. “Nessuno, in questa situazione di emergenza, si è reso conto di quanto questi provvedimenti abbiano pesato sulla condizione già difficilissima vissuta dai detenuti” ci racconta la compagna di un detenuto.
Le prime ore del pomeriggio scorrono in un clima surreale. Tantissime le ambulanze e le macchine del 118. Nessuno risponde alle legittime domande dei familiari che chiedono, soprattutto, lo stato di salute dei loro cari, se sono presenti casi di contagio o se qualcuno è rimasto ferito durante la rivolta. Verso le 17 un’agente della polizia penitenziaria prova a rassicurare le famiglie: “La situazione si sta stabilizzando, non ci sono feriti. Il fumo che vedete proviene dal tetto e non dalle celle che non sono state intaccato durante la rivolta. Dovete stare calmi però. Se urlate rischiate di fomentare ancora di più i detenuti presenti in struttura”.
La legittima rabbia dei familiari, tuttavia, non si placa. Non si placa di fronte alle decine dei pullman della polizia penitenziaria che entrano all’interno del carcere sfrecciando a tutta velocità fra la folla (una donna ha accusato anche un malore rischiando di essere investita). Non si placa di fronte al pestaggio di alcuni detenuti ammanettati durante il loro trasferimento sui dei pullman che li trasferiranno in altre carceri (in seguito abilmente posizionati di fronte la porta in modo tale da impedire la visione alle persone esterne). Non si placa di fronte ai silenzi della dirigenza del carcere e del personale penitenziario.
Sono da poco passate le 19 quando il comandante e l’assistente del direttore escono fuori per parlare con i familiari. “Stiamo provvedendo al trasferimento di alcuni detenuti, la situazione è però in divenire. Molte celle sono inagibili e un gruppo di detenuti è entrato in possesso di alcuni telefoni cellulari. Chiediamo la vostra collaborazione. Se i vostri familiari vi contattano dite loro di consegnarsi. Il fatto che abbiano rubato i telefoni, sappiatelo, è però la cosa meno grave successa oggi”.
Continuano i non detti, le frase lasciate a metà, le risposte non date ai familiari preoccupati soprattutto dello stato di salute dei detenuti.
Come fidarsi di quelle parole che del tutto smentiscono quelle pronunciate appena un paio d’ore prima? Calato il buio, sulla struttura, continua a volare un elicottero della polizia, le ambulanze diventano sempre più numerose, e con esse anche i camion dei vigili del fuoco e i pullman della polizia penitenziaria. Nel buio e nel silenzio continuano a sentirsi le urla dei detenuti. Nel frattempo è anche giunta sul posto la Protezione Civile. I familiari, senza alcuna risposta, decidono dunque di spostarsi verso l’altra ala del carcere. Quella che, da quanto spiegato loro, contiene al proprio interno i detenuti promotori della rivolta.


domenica 8 marzo 2020

Stato di paura – Coronavirus: o della decadenza dell’Occidente


Improvvisamente siamo venuti a trovarci nel mezzo della tempesta coronavirus. Fino a quando il contagio sembrava confinato in Cina abbiamo assistito alle manifestazioni di insofferenza nei confronti di chiunque avesse tratti somatici orientali. Adesso che il virus è entrato nei nostri sacri confini – e tutti a chiedersi come abbia fatto – è scoppiata la psicosi: si è accesa la rincorsa alle mascherine per proteggere naso e bocca, ai prodotti disinfettanti per l’igiene personale e della casa, si è dato l’assalto ai supermercati per rifornirsi di alimenti, si guarda con diffidenza il proprio vicino nel timore che possa contagiarci. In tutto questo, seguendo rigorosamente la ferrea legge della domanda e dell’offerta, i prezzi dei beni più richiesti lievitano a vista d’occhio.
Non c’è dubbio che la diffusione del coronavirus è un’emergenza che va affrontata con tutti gli strumenti validi di cui disponiamo. Ad oggi, come sostengono parecchi scienziati, prevenzione e contenimento sono i principali mezzi che abbiamo. Occorre solo metterli in atto con intelligenza e anche buon senso. Tanto più che la stessa Organizzazione mondiale della sanità, sulla base dei dati ricavati fino ad oggi su questo nuovo virus, sostiene che nella stragrande maggioranza dei casi il contagio non è letale e in molti casi si risolve in una patologia appena percettibile. Allora perché tanto isterismo, tanta apprensione? Proprio in questa reazione esasperata si possono cogliere alcuni caratteri fondativi su cui si struttura la società in cui viviamo. La paura è un istinto primordiale, ma nella paura che viviamo in queste settimane vi è molto di costruito. Lo stesso modo di fare informazione è un veicolo di paura. La morbosità e l’enfasi con cui i principali media raccontano quanto sta accadendo contribuiscono a diffondere insicurezza e dubbi. Si può dire che è  proprio una modalità del giornalismo contemporaneo in cui prevale la vis polemica, l’effetto più che l’informazione, la conoscenza. Più a monte tuttavia si collocano due aspetti fondamentali della paura odierna. Uno che si potrebbe definire politico nel senso che una società impaurita è più facilmente controllabile, più gestibile. Gli esempi negli ultimi anni di questa paura sono innumerevoli, su tutti spiccano terrorismo e migranti. La sicurezza , meglio sarebbe dire il senso di insicurezza indotto, è diventata la nuova religione del nostro tempo. Nel 1998 Eduardo Galeano pubblicava il suo A testa in giù. La scuola del mondo alla rovescia, al cui interno uno dei capitoli si intitola Le cattedre della paura. “Quelli che lavorano hanno paura di perdere il lavoro. Quelli che non lavorano hanno paura di non trovare mai lavoro. Chi non ha paura della fame ha paura del cibo[…] I civili hanno paura dei militari, i militari hanno paura della mancanza di armi, le armi hanno paura della mancanza di guerre. […] E’ l’epoca della paura”, scrive Galeano. L’altro aspetto della paura è culturale, del modo in cui si è venuto costruendo l’uomo occidentale, secolarizzato, moderno. L’idea di dominio sul mondo circostante attraverso la tecnica e la scienza, l’individualismo del singolo che plasma o non plasma la vita a suo piacimento. Tutto questo si rovescia nel suo esatto contrario quando ci si trova davanti a fenomeni come un virus che si diffonde a dispetto di tutto. Così la sicumera si traduce in paura.
Il modo in cui poi istituzioni e classi dirigenti stanno affrontando l’emergenza è anch’esso rivelatore. Al di là di provvedimenti che sarebbero scontati in situazioni del genere, senza il bisogno di farli passare per qualcosa di eccezionale – divieti per contenere il contagio, sostegno per le aree più colpite, ecc. – e al di là del trionfalismo che emerge in alcuni frangenti – Conte che dichiara l’Italia ne uscirà a testa alta – o dell’apocalissi paventata da altri, infine emergono due elementi: un generico umanitarismo e una visione economicista, entrambi frutto di una cattiva coscienza. Come esempio di umanitarismo a buon mercato ecco cosa scrive Gianni Riotta su La Stampa del 25 febbraio: “Coronavirus ci fa scoprire comunità, niente Destra e Sinistra, Ricchi e Poveri, città e campagna, Italiani e Immigrati, tutti a rischio, tutti in cerca di rassicurazioni. Comunità, famiglia, comunità con opinioni opposte, ma unite dal bene reciproco”. E conclude con un auspicio che è quanto di più mellifluo si possa immaginare: “Proprio nell’emergenza, l’ormai cronica sfiducia per politica, cultura, classe dirigente può, a sorpresa, essere sradicata e la fiducia riseminata”. Chissà perché ci dovremmo scoprire comunità solo in questa occasione e non nelle quotidiane ingiustizie e sopraffazioni che la società attuale mette in scena con pervicacia, si potrebbe chiedere al signor Riotta. E a costo di deluderlo non si può non constatare che questo astratto umanitarismo scivola facilmente, pur nell’emergenza o proprio nell’emergenza, in diffidenza e sospetto. Le famiglie barricate nelle loro case, ciascuno chiuso dietro mascherine usate come scudi protettivi. Però, spogliato della sua aura, su una cosa ha ragione Riotta: Stato e governo soprattutto veramente provano a rifarsi una loro verginità, mostrando efficienza e decisionismo. E questo spiega l’ansia di Salvini di queste giornate che lo ha spinto a chiedere un governo di unità nazionale. Per inciso si deve notare che i politicanti rimangono tali anche in questi frangenti di emergenza (o non è emergenza?) e mettono in scena le loro squallide manovrine per assicurarsi una fetta di potere in più.
Fin da quando è scoppiato l’allarme coronavirus a tenere banco, forse più dei morti e dei contagiati, è stata la contabilità economica. I proclami sulla diminuzione del Pil e l’incubo di una possibile recessione. Sui giornali si sono viste proiezioni sulla quantità di Pil perduto in base alla durata del contagio. Dire in questa situazione che ci sarà una diminuzione del prodotto interno lordo è una assoluta banalità. Farla diventare l’unica misura del momento che stiamo attraversando rivela quanto l’economico, e solo quello, è diventato il nostro unico orizzonte. L’economico con tutto il suo armamentario di prodotti lordi, di produttivismo, di competizione, di borse e di mercati. Una società umana che si trovasse ad affrontare una situazione critica dovrebbe promuovere solidarietà, aiuto reciproco, collaborazione, non strepitare se non si può produrre, vendere e fare profitti. Invece in queste settimane produrre, vendere e fare profitti è il totem cui tutti ci dobbiamo inchinare. Un altro articolo sempre su La Stampa del 25 febbraio ci dà la misura del verbo economicista. Il titolo è già indicativo: Se il conto lo paga il nostro Pil. Il giornalista Alberto Mingardi si produce in tali considerazioni: “In questi giorni è giusto che la prima preoccupazione degli amministratori sia la salute delle persone. Ma occorre non perdere di vista la situazione economica. Il governo dovrebbe avere la saggezza di mettere da parte, per una volta, i suoi pregiudizi ideologici. Non è questo il momento per immaginare nuove spese “straordinarie”[…]. Per provare a mitigare lo schiaffo del coronavirus, sarebbe opportuno evitare di emanare nuove regole che tagliano le gambe alle imprese, quale che sia il motivo nobile che le giustifica, incluso l’ambiente”. Se ci fosse spazio su quanto affermato dal Mingardi si potrebbe scrivere un breve trattato sulla falsificazione – di quale ideologia sta parlando? – e sull’immoralità – accenno fugace all’ambiente -.
Di fronte ad uno spettacolo così desolante occorrerebbe riprendere il buon vecchio Pirandello che nella novella Pallottoline! fa riflettere così il suo protagonista, professor Jacopo Maraventano: “Assistendo, come gli pareva d’assistere con la fantasia, nel fondo dello spazio, alla prodigiosa attività, al lavoro incessante della materia eterna, alla preparazione e formazione di nuovi soli nel grembo delle nebulose, al germogliare dei mondi dall’etere infinito: che cosa diventa per lui questa molecola solare, chiamata Terra, addirittura invisibile fuori del sistema planetario, cioè questo punto microscopico dello spazio cosmico? Che cosa diventano questi polviscoli infinitesimali chiamati uomini; che cosa, le vicende della vita, i casi giornalieri, le afflizioni e le miserie particolari, le generali calamità?”.

Bisognerebbe partire da questa consapevolezza per provare a rifondare una nuova e diversa umanità che parta dal fallimento dell’uomo occidentale.


mercoledì 4 marzo 2020

La riduzione drastica del tempo di lavoro

La riduzione drastica del tempo di lavoro costituisce una prima protezione contro la flessibilità e la precarietà. Per questo motivo deve essere mantenuto e rafforzato il diritto del lavoro, oggi nel mirino dei liberisti in quanto fonte di rigidità. Questo non può che facilitare la decrescita. Bisogna difendere dei minimi salariali decenti, contro le teorie degli economisti della disoccupazione volontaria, un'impostura del nostro tempo. E' indispensabile un ritorno alla "demercificazione" del lavoro. Il gioco attuale del "minor offerente sociale" è altrettanto inaccettabile di quello del minor offerente ecologico. Nel 1946 un salariato di venti anni doveva aspettarsi di lavorare un terzo della sua vita da sveglio; nel 1975 soltanto un quarto, oggi meno di un quinto. Abbiamo per questo la sensazione di esserci liberati dal lavoro? Probabilmente meno che mai. "Per il salariato - scrive Bernard Maris - non c'è la fine del lavoro, come sembrerebbe indicare la diminuzione tendenziale delle ore lavorate, ma piuttosto il lavoro senza fine, la precarietà, l'isolamento, lo stress, la paura e la certezza di perdere rapidamente il lavoro".
La riduzione del tempo di lavoro e il cambiamento del suo contenuto sono dunque innanzitutto scelte di trasformazione sociale, risultati della rivoluzione culturale che la decrescita richiede. Dilatare il tempo non soggetto a vincoli e obblighi per permettere la realizzazione personale dei cittadini nella vita politica, privata e artistica, ma anche nel gioco o nella contemplazione, è la condizione indispensabile per la creazione di una nuova ricchezza.