Improvvisamente
siamo venuti a trovarci nel mezzo della tempesta coronavirus. Fino a quando il
contagio sembrava confinato in Cina abbiamo assistito alle manifestazioni di
insofferenza nei confronti di chiunque avesse tratti somatici orientali. Adesso
che il virus è entrato nei nostri sacri confini – e tutti a chiedersi come
abbia fatto – è scoppiata la psicosi: si è accesa la rincorsa alle mascherine
per proteggere naso e bocca, ai prodotti disinfettanti per l’igiene personale e
della casa, si è dato l’assalto ai supermercati per rifornirsi di alimenti, si
guarda con diffidenza il proprio vicino nel timore che possa contagiarci. In
tutto questo, seguendo rigorosamente la ferrea legge della domanda e
dell’offerta, i prezzi dei beni più richiesti lievitano a vista d’occhio.
Non c’è
dubbio che la diffusione del coronavirus è un’emergenza che va affrontata
con tutti gli strumenti validi di cui disponiamo. Ad oggi, come sostengono
parecchi scienziati, prevenzione e contenimento sono i principali mezzi che
abbiamo. Occorre solo metterli in atto con intelligenza e anche buon senso.
Tanto più che la stessa Organizzazione mondiale della sanità, sulla base dei
dati ricavati fino ad oggi su questo nuovo virus, sostiene che nella stragrande
maggioranza dei casi il contagio non è letale e in molti casi si risolve in una
patologia appena percettibile. Allora perché tanto isterismo, tanta
apprensione? Proprio in questa reazione esasperata si possono cogliere alcuni
caratteri fondativi su cui si struttura la società in cui viviamo. La paura è
un istinto primordiale, ma nella paura che viviamo in queste settimane vi è
molto di costruito. Lo stesso modo di fare informazione è un veicolo di paura.
La morbosità e l’enfasi con cui i principali media raccontano quanto sta
accadendo contribuiscono a diffondere insicurezza e dubbi. Si può dire che
è proprio una modalità del giornalismo contemporaneo in cui prevale la
vis polemica, l’effetto più che l’informazione, la conoscenza. Più a monte
tuttavia si collocano due aspetti fondamentali della paura odierna. Uno che si
potrebbe definire politico nel senso che una società impaurita è più facilmente
controllabile, più gestibile. Gli esempi negli ultimi anni di questa paura sono
innumerevoli, su tutti spiccano terrorismo e migranti. La sicurezza , meglio
sarebbe dire il senso di insicurezza indotto, è diventata la nuova religione
del nostro tempo. Nel 1998 Eduardo Galeano pubblicava il suo A testa in
giù. La scuola del mondo alla rovescia, al cui interno uno dei capitoli si
intitola Le cattedre della paura. “Quelli che lavorano hanno paura di perdere
il lavoro. Quelli che non lavorano hanno paura di non trovare mai lavoro. Chi
non ha paura della fame ha paura del cibo[…] I civili hanno paura dei militari,
i militari hanno paura della mancanza di armi, le armi hanno paura della
mancanza di guerre. […] E’ l’epoca della paura”, scrive Galeano. L’altro
aspetto della paura è culturale, del modo in cui si è venuto costruendo l’uomo
occidentale, secolarizzato, moderno. L’idea di dominio sul mondo circostante
attraverso la tecnica e la scienza, l’individualismo del singolo che plasma o
non plasma la vita a suo piacimento. Tutto questo si rovescia nel suo esatto
contrario quando ci si trova davanti a fenomeni come un virus che si diffonde a
dispetto di tutto. Così la sicumera si traduce in paura.
Il modo in
cui poi istituzioni e classi dirigenti stanno affrontando l’emergenza è
anch’esso rivelatore. Al di là di provvedimenti che sarebbero scontati in
situazioni del genere, senza il bisogno di farli passare per qualcosa di
eccezionale – divieti per contenere il contagio, sostegno per le aree più
colpite, ecc. – e al di là del trionfalismo che emerge in alcuni frangenti –
Conte che dichiara l’Italia ne uscirà a testa alta – o dell’apocalissi
paventata da altri, infine emergono due elementi: un generico umanitarismo e
una visione economicista, entrambi frutto di una cattiva coscienza. Come
esempio di umanitarismo a buon mercato ecco cosa scrive Gianni Riotta su La
Stampa del 25 febbraio: “Coronavirus ci fa scoprire comunità, niente Destra e
Sinistra, Ricchi e Poveri, città e campagna, Italiani e Immigrati, tutti a
rischio, tutti in cerca di rassicurazioni. Comunità, famiglia, comunità con
opinioni opposte, ma unite dal bene reciproco”. E conclude con un auspicio che
è quanto di più mellifluo si possa immaginare: “Proprio nell’emergenza, l’ormai
cronica sfiducia per politica, cultura, classe dirigente può, a sorpresa,
essere sradicata e la fiducia riseminata”. Chissà perché ci dovremmo scoprire
comunità solo in questa occasione e non nelle quotidiane ingiustizie e
sopraffazioni che la società attuale mette in scena con pervicacia, si potrebbe
chiedere al signor Riotta. E a costo di deluderlo non si può non constatare che
questo astratto umanitarismo scivola facilmente, pur nell’emergenza o proprio
nell’emergenza, in diffidenza e sospetto. Le famiglie barricate nelle loro
case, ciascuno chiuso dietro mascherine usate come scudi protettivi. Però,
spogliato della sua aura, su una cosa ha ragione Riotta: Stato e governo
soprattutto veramente provano a rifarsi una loro verginità, mostrando efficienza
e decisionismo. E questo spiega l’ansia di Salvini di queste giornate che lo ha
spinto a chiedere un governo di unità nazionale. Per inciso si deve notare che
i politicanti rimangono tali anche in questi frangenti di emergenza (o non è
emergenza?) e mettono in scena le loro squallide manovrine per assicurarsi una
fetta di potere in più.
Fin da
quando è scoppiato l’allarme coronavirus a tenere banco, forse più dei
morti e dei contagiati, è stata la contabilità economica. I proclami sulla
diminuzione del Pil e l’incubo di una possibile recessione. Sui giornali si
sono viste proiezioni sulla quantità di Pil perduto in base alla durata del
contagio. Dire in questa situazione che ci sarà una diminuzione del prodotto
interno lordo è una assoluta banalità. Farla diventare l’unica misura del
momento che stiamo attraversando rivela quanto l’economico, e solo quello, è
diventato il nostro unico orizzonte. L’economico con tutto il suo armamentario
di prodotti lordi, di produttivismo, di competizione, di borse e di mercati.
Una società umana che si trovasse ad affrontare una situazione critica dovrebbe
promuovere solidarietà, aiuto reciproco, collaborazione, non strepitare se non
si può produrre, vendere e fare profitti. Invece in queste settimane produrre,
vendere e fare profitti è il totem cui tutti ci dobbiamo inchinare. Un altro
articolo sempre su La Stampa del 25 febbraio ci dà la misura del verbo
economicista. Il titolo è già indicativo: Se il conto lo paga il nostro Pil. Il
giornalista Alberto Mingardi si produce in tali considerazioni: “In questi
giorni è giusto che la prima preoccupazione degli amministratori sia la salute
delle persone. Ma occorre non perdere di vista la situazione economica. Il
governo dovrebbe avere la saggezza di mettere da parte, per una volta, i suoi
pregiudizi ideologici. Non è questo il momento per immaginare nuove spese
“straordinarie”[…]. Per provare a mitigare lo schiaffo del coronavirus, sarebbe
opportuno evitare di emanare nuove regole che tagliano le gambe alle imprese,
quale che sia il motivo nobile che le giustifica, incluso l’ambiente”. Se ci
fosse spazio su quanto affermato dal Mingardi si potrebbe scrivere un breve
trattato sulla falsificazione – di quale ideologia sta parlando? – e
sull’immoralità – accenno fugace all’ambiente -.
Di fronte ad uno
spettacolo così desolante occorrerebbe riprendere il buon vecchio Pirandello
che nella novella Pallottoline! fa riflettere così il suo protagonista,
professor Jacopo Maraventano: “Assistendo, come gli pareva d’assistere con la
fantasia, nel fondo dello spazio, alla prodigiosa attività, al lavoro
incessante della materia eterna, alla preparazione e formazione di nuovi soli
nel grembo delle nebulose, al germogliare dei mondi dall’etere infinito: che
cosa diventa per lui questa molecola solare, chiamata Terra, addirittura
invisibile fuori del sistema planetario, cioè questo punto microscopico dello
spazio cosmico? Che cosa diventano questi polviscoli infinitesimali chiamati
uomini; che cosa, le vicende della vita, i casi giornalieri, le afflizioni e le
miserie particolari, le generali calamità?”.
Bisognerebbe
partire da questa consapevolezza per provare a rifondare una nuova e diversa
umanità che parta dal fallimento dell’uomo occidentale.