..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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giovedì 30 giugno 2022

Scolarizzazione e mito sociale

L’istituzione scolastica al giorno d’oggi rappresenta una nuova religione inattaccabile e universalizzata, capace di preparare l'individuo a un consumo disciplinato, diventando così il maggior datore di lavoro della nostra società. Oggi la maggior parte degli uomini sono utilizzati nella produzione di richieste che possano essere soddisfatte da un'industria a forte intensità di capitale. La maggior parte di questa operazione si realizza all’interno del perimetro scolastico durante la scolarizzazione obbligatoria. La scolarizzazione serve efficacemente a creare/diffondere/difendere il mito sociale dato, essa é il rituale di fabbricazione del mito, un rituale su cui la società contemporanea costruisce se stessa. Ne deriva una società che crede nella conoscenza, nel confezionamento della conoscenza che crede nell'invecchiamento della conoscenza e nella necessita di aggiungere conoscenza alla conoscenza.

La conoscenza non come bene, ma come valore quindi concepita in termini commerciali: conoscenza come merce.

Gli ultimi 50 anni di scolarizzazione obbligatoria hanno creato nel mondo occidentale accaniti consumatori di merce e televisione.

E' stato dimostrato che non c'è nessuna connessione tra le materie che gli individui hanno studiato a scuola e l'efficienza degli stessi nei lavori che richiedono una preparazione in quelle materie.

La scolarizzazione è un investimento di capitale della società della merce che ha come fine il controllo sociale, la stratificazione e la creazione di una società di classe suddivisa in livelli.

Le scuole finiscono inevitabilmente a produrre un gran numero di emarginati, un numero limitato di successi e una netta preponderanza di fallimenti. Una sorta di lotteria dove quelli che non ce la fanno perdono non soltanto quello per cui hanno pagato, ma rimangono segnati per il resto della loro vita come individui inferiori.

martedì 28 giugno 2022

28 giugno 1969: i moti di Stonewall

È il giugno 1969. La situazione per gli omosessuali americani è particolarmente difficile, le irruzioni della polizia nei locali gay sono all'ordine del giorno, fino a pochi anni prima l'identità di tutti i presenti al momento di una retata veniva pubblicata sui quotidiani locali, qualsiasi scusa viene usata dalle forze dell'ordine per procedere ad un arresto per "pubblica indecenza", i poliziotti addirittura sono soliti usare l'entrapment (adescamento), per spingere le persone ad infrangere la legge e quindi arrestarle.

Proprio in quest'anno esce il Manuale diagnostico e statistico dell'Associazione americana di psichiatria che ancora definisce l'omosessualità come una malattia mentale. A tutto il '69 non esiste nessun movimento di diritti per gli omosessuali, proprio mentre la questione dei diritti civili (per i neri, per le donne, per i poveri, per le minoranze in genere) raggiunge la massima importanza negli Stati Uniti e in molte altre parti del mondo.

A New York i locali gay sono molto numerosi, soprattutto nel quartiere Greenwich Village, e la maggior parte di essi si sono vista revocare la licenza per la vendita degli alcolici proprio a causa delle frequentazioni omosessuali. Lo Stonewall Inn, in Cristopher Street, è sicuramente uno dei locali più famosi, ed è gestito dalla mafia newyorkese che ha fiutato nella clientela omosessuale un lauto guadagno, e che spesso riesce a contenere i danni delle retate e a continuare a vendere alcolici con qualche bustarella.

Venerdì 27 giugno lo Stonewall Inn è come sempre strapieno: ci sono alcune drag queen, ma soprattutto tantissimi giovani clienti. Verso l'una del 28 giugno sei agenti irrompono nel locale, rompendo gli oggetti a colpi di manganello e minacciando gli avventori. Circa duecento clienti vengono identificati e fatti uscire uno a uno mentre tre travestiti vengono fermati (la legge impone infatti che sia illegale indossare meno di tre capi di vestiario "adatti al proprio genere").

Ma per la prima volta qualcuno reagisce. La miccia si accende , forse quando la trans gender Sylvia Riveira lancia una bottiglia contro un'agente, oppure quando una lesbica oppone resistenza all'arresto: la folla riunitasi davanti al locale attacca la polizia con un fitto lancio di pietre, i bidoni vengono dati alle fiamme, e i poliziotti sono costretti a barricarsi dentro al locale per alcune ore, fino al sopraggiungere di ingenti rinforzi.

Il giorno successivo i giornali parleranno di tredici persone arrestate e tre agenti feriti.

Nelle serate successive, quelle di sabato e domenica, il neonato movimento omosessuale si fortifica, dando vita ad altre manifestazioni davanti allo Stonewall Inn, e ad altre tumulti con le forze dell'ordine: il seme è gettato, per la prima volta gli omosessuali utilizzano il termine gay nelle proprie rivendicazioni e non chiedono più solo di "essere lasciati in pace", ma rivendicano parità di diritti. Gli scontri, una sorpresa per tutti, dimostrano per la prima volta che la comunità omosessuale è diventata movimento, deciso a combattere e a rifiutare il ruolo canonico di vittime.

Ben presto, dopo la svolta segnata dalla rivolta dello Stonewall, vedranno la luce altri gruppi ed organizzazioni come la "Gay Activists Alliance" dapprima a New York, quindi nel resto del paese. In altri paesi ci saranno negli anni successivi simili rivolte, come ad esempio in Canada nel 1981, quando a seguito dell'irruzione della polizia in un locale gay, ci sarà quella che sarà ancora ricordata come la "Stonewall canadese".

domenica 26 giugno 2022

26 Giugno 1839: La rivolta della Amistad

 

Nel giugno del 1839 dalla nave negriera Teçora, circa 500-700 schiavi catturati in Sierra Leone, sbarcarono all’Avana. Il 26 giugno, 53 di loro di origine mendi, furono imbarcati sulla Amistad.

La goletta stava viaggiando lungo la costa cubana quando i prigionieri africani riuscirono a liberarsi dalle catene e presero il controllo della nave. Uccisero dapprima il cuoco di bordo e poi il capitano, mentre altri due membri dell'equipaggio riuscirono a fuggire su una lancia. Gli africani chiesero agli uomini dell'equipaggio sopravvissuti di ricondurli a casa ma questi li ingannarono, navigando di notte verso nord. La Amistad fu quindi abbordata da una nave della marina americana nei pressi di Long Island, dove gli ammutinati avevano fatto gettare l'ancora per recarsi sulla costa e procacciarsi così acqua e cibo. Gli schiavi ribelli furono catturati e condotti in porto a New London nel Connecticut.

Quello che seguì fu un caso giudiziario che cambiò la storia degli Stati Uniti.

Le parti in causa erano diverse.

In primis José Ruiz e Pedro Montez dell’equipaggio della Amistad che chiedevano la restituzione degli schiavi e delle merci. Poi l’ufficio del Procuratore degli Stati Uniti per il Distretto del Connecticut che la restituzione del carico e degli uomini alla Spagna. In tal caso gli schiavi sarebbero stati uccisi. Infine, gli africani, che supportati dal movimento abolizionista, negavano di essere schiavi o proprietà e sostenevano che la corte non poteva "restituirli" al controllo del governo spagnolo.

Preoccupato per le relazioni con la Spagna e soprattutto per le sue prospettive di rielezione, legate ad un calo di consensi nel Sud schiavista, il presidente democratico Martin Van Buren si schierò con Madrid. La corte distrettuale di Hartford, Connecticut, però si pronunciò a favore degli africani. Il procuratore degli Stati Uniti per il distretto del Connecticut, per ordine di Van Buren, fece immediatamente appello, ma in aprile il ricorso fu rigettato e la sentenza di primo grado venne confermata. Allora su pressioni del Presidente il Procuratore Generale degli Stati Uniti portò il caso davanti alla Corte Suprema. Anche quest’ultima confermò che il trasporto degli africani rapiti attraverso l'Atlantico era stato in violazione delle leggi e dei trattati contro la tratta atlantica degli schiavi africani da parte di Gran Bretagna, Spagna e Stati Uniti d'America. I prigionieri vennero considerati aver agito come uomini liberi quando si sollevarono. Pertanto, autorizzò il loro rilascio.

Così mentre negli USA molti neri lavoravano e morivano da schiavi, altri venivano liberati.

Questa vicenda dimostra chiaramente come certe condizioni di violenza, oppressione e ingiustizia non possano essere accettate, anche se ci sono norme che ne permettono la perpetrazione.

venerdì 24 giugno 2022

La comunità anarchica di Elisée Réclus

 

L’uomo è la natura che prende coscienza di se stessa. Ma cos’è la natura? La natura è quell’unità meravigliosa che presiede tutte le cose, le cui leggi esprimono una grande semplicità. Essa è un’immensa sintesi che si presenta a noi in tutta la sua infinità e non pezzo per pezzo. Ciò significa, anarchicamente, che è veramente sintetica quando è veramente infinita, cioè diversificata. Perciò se la sua universalità si coglie nella “completezza” (non può essere presa pezzo per pezzo), la sua infinità si rivela nella complessità, nel senso che la diversità è la condizione dell’unità; un’unità che deriva dal fatto che la Terra e l’umanità presentano un’eguale, intrinseca regola, quella, appunto, dell’unità nella diversità: e questa la sintesi anarchica. Nella società, come nella natura , perché vi sia vera coesione vi deve essere libertà, differenza, autonomia, specificità. L’uomo deve appropriarsi delle leggi naturali attraverso la conoscenza scientifica, con l’osservazione della natura controllata dall’esperienza e guidata da ipotesi in ipotesi. Questa conoscenza gli permette di scoprire qual è il nesso che unisce il tutto attraverso l’infinità diversità. Segreto che dà la possibilità di scoprire il modo di vivere la propria vita, adeguandola ai ritmi naturali. Sempre, beninteso, se l’uomo vuole preservare un’organica armonia con la natura perché solo così può esservi una vera società, come del resto, un’autentica armonia naturale non potrà che essere il risultato di una giusta comunità umana. Si tratta, insomma, di conciliare la storia con la natura, fondendone l’una nell’altra.

In conclusione la comunità deve apprendere da se stessa come adattarsi sempre più alle condizioni intime dell’ambiente.

martedì 21 giugno 2022

L’Occidente e l'individuo in briciole

L’occidente, oggi, è un soldato che espugna Falluja a bordo di un carro armato abraham m1 ascoltando hard rock a tutto volume. È un turista perso nelle pianure della mongolia, preso in giro da tutti, che tiene in mano la sua carta di credito come fosse la sua ancora di salvezza. È un manager che giocherebbe sua madre in borsa. È una jeune fille che cerca la felicità fra vestiti, ragazzi e creme idratanti. È un militante per i diritti umani svizzero che si rivolge ai quattro angoli del mondo, solidarizza con tutte le rivolte a patto che siano sconfitte. È uno spagnolo che se ne frega della libertà politica in favore di quella sessuale. È un amante dell’arte che da in pasto all’ammirazione stupefatta un secolo di artisti, che dal surrealismo all’azionismo viennese fanno a gara nel chi fa a pagare di più la loro crosta, come fosse l’ultima espressione del genio contemporaneo. È un cibernauta che ha trovato nel buddismo una teoria veritiera della coscienza e un fisico molecolare che è andato a cercare nella metafisica induista l’ispirazione per le sue ultime scoperte. L’occidente è la civilizzazione sopravvissuta a tutte le profezie sulla sua fine grazie ad un particolare stratagemma. Come la borghesia ha dovuto negarsi come classe per permettere l’imborghesimento della società, dall’operaio al barone. come il capitale ha dovuto sacrificarsi come rapporto salariale per imporsi come rapporto sociale,diventando così anche capitale culturale e capitale di salute oltre che capitale finanziario. Come il cristianesimo ha dovuto sacrificarsi come religione per sopravvivere come struttura affettiva, come ingiunzione diffusa all’umiltà, alla compassione e all’impotenza, l’occidente si è sacrificato come civilizzazione particolare per imporsi come cultura universale. L’operazione si riassume ad un entità agonizzante che sacrifica il suo contenuto per sopravvivere come forma. L’individuo in briciole si salva solo come forma grazie alle tecnologie spirituali del life coaching.

sabato 18 giugno 2022

Camillo Berneri: Il cretinismo anarchico (1935)

Nota:

In questo scritto breve pubblicato nella rubrica Rilievi del giornale L’Adunata dei Refrattari del 12 Ottobre 1935 sotto la firma L’Orso, Berneri mette in luce la stupidità di taluni pseudo-anarchici che prendono l’anarchia come mezzo per coprire il loro menefreghismo nei confronti di tutti e come scusa per imporre agli altri il loro comportamento da “cafone cretino”, per usare le parole stesse dell’autore.

 

«Benché urti associare le due parole, bisogna riconoscere che esiste un cretinismo anarchico. Ne sono esponenti non soltanto dei cretini che non hanno capito un'acca dell'anarchia e dell'anarchismo, ma anche dei compagni autentici che in esso sono irretiti non per miseria di sostanza grigia bensì per certe bizzarrie di conformazione celebrale. Questi cretini dell'anarchismo hanno la fobia del voto anche se si tratti di approvare o disapprovare una decisione strettamente circoscritta e connessa alle cose del nostro movimento, hanno la fobia del presidente di assemblea anche se sia reso necessario dal cattivo funzionamento dei freni inibitori degli individui liberi che di quell'assemblea costituiscono l'urlante maggioranza, ed hanno altre fobie che meriterebbero un lungo discorso, se non fosse, quest'argomento, troppo scottante di umiliazione. Il problema della libertà, che dovrebbe essere sviscerato da ogni anarchico essendo il problema basilare della nostra impostazione spirituale della questione sociale, non è stato sufficientemente impostato e delucidato. Quando, in una riunione, mi capita di trovare il tipo che vuole fumare anche se l'ambiente è angusto e senza ventilazione, infischiandosene delle compagne presenti e dei deboli di bronchi che sembrano in preda alla tosse canina, e quando questo tipo alle osservazioni, anche se cordiali, risponde rivendicando la "libertà dell'io", ebbene, io che sono fumatore e per giunta un poco tolstoiano per carattere, vorrei avere i muscoli di un boxeur negro per far volare l'unico in questione fuori dal locale o la pazienza di Giobbe per spiegargli che è un cafone cretino.

Se la libertà anarchica è la libertà che non viola quella altrui, il parlare due ore di seguito per dire delle fesserie costituisce una violazione della libertà del pubblico di non perdere il proprio tempo e di annoiarsi mortalmente. Nelle nostre riunioni bisognerebbe stabilire la regola della condizionale libertà di parola: rinnovabile ogni circa dieci minuti. In dieci minuti, a meno che non si voglia spiegare i rapporti tra le macchie solari e la necessità dei sindacati o quella tra la monere haeckeliana e la filosofia di Max Stirner, si può, a meno che si voglia far sfoggio di erudizione o di eloquenza, esporre la propria opinione su una questione relativa al movimento, quando questa questione non sia di... importanza capitale. Il guaio è che molti vogliono cercare le molte, numerose, svariate, molteplici, innumerevoli ragioni, come diceva uno di questi oratori a lungo metraggio, invece di cercare e di esporre quelle poche e comprensibili ragioni che trova e sa comunicare chiunque abbia l'abito a pensare prima di parlare. Disgraziatamente accade che siano necessarie delle riunioni di ore ed ore per risolvere questioni che con un po' di riflessione e di semplicità di spirito si risolverebbero in una mezz'ora. E se qualcuno propone, estremo rimedio alla babele vociferante, un presidente, in quel regolatore della riunione che ha ancor minore autorità di quello che abbia l'arbitro in una partita di foot-ball, certe vestali dell'Anarchia vedono... un duce. Per chi questo discorso? I compagni della regione parigina che hanno, recentemente, affrontato la spesa e la fatica di recarsi ad una riunione da non vicine località per assistere allo spettacolo di gente che urlava contemporaneamente intrecciando dialoghi che diventavano monologhi per la confusione imperante e delirante, si sono trovati, ritornando mogi mogi verso le loro case, concordi nel pensare che la gabbia dei pappagalli dello zoo parigino è uno spettacolo più interessante.

Quando degli anarchici non riescono ad organizzare quel problema meno difficile di quello della quadratura del circolo, di esporre a turno il proprio pensiero, un regolatore diventa indispensabile.

Questa è quella che io chiamo l'auto-critica. Ed è diretta a tutti coloro che rendono necessario un regolatore di riunioni anarchiche. Cosa che è ancora più buffa di quello che pensino coloro che se ne scandalizzano. Molto buffa e molto grave. E grave perché resa, molte volte, necessaria proprio là dove dovrebbe essere superflua».


giovedì 16 giugno 2022

16 giugno 1976: la rivolta di Soweto

È il 16 Giugno 1976 quando a Soweto in Sudafrica iniziano violenti scontri tra gli studenti neri e la polizia segregazionista del National Party, partito nazionalista al governo del paese.

Il motivo specifico della protesta studentesca di Soweto fu un decreto governativo che imponeva a tutte le scuole in cui erano segregati i neri, di utilizzare l'afrikaans come lingua paritetica all'inglese.

Quest' ultimo episodio, preceduto da una lunga serie di imposizioni da parte degli afrikaner, fu percepito come direttamente associato alla logica generale dell'apartheid.

L'inglese era la lingua più diffusa presso la popolazione nera ed era stata scelta come lingua ufficiale da molti bantustan al contrario dell'afrikaans, la lingua degli oppressori.

Il Ministro per l'Istruzione Bantu, Punt Janson, incurante del volere della popolazione arrivo ad affermare « Non ho consultato gli africani sulla questione della lingua e non intendo farlo. Un africano potrebbe trovarsi di fronte a un "capo" che parla afrikaans o che parla inglese. È nel suo interesse conoscere entrambe le lingue. »

Queste ultime dichiarazioni suscitarono numerose proteste da parte del corpo docenti e degli studenti neri delle scuole dov'erano segregati.

Il 30 aprile 1976, i bambini della "Orlando West Junior School" diedero inizio a uno sciopero, rifiutandosi di andare a scuola.

Gli studenti di Soweto intanto formarono un comitato d'azione, il "Soweto Students' Representative Council" per organizzare la protesta, indicendo una manifestazione di massa per il 16 giugno.

Migliaia di studenti e docenti neri si riversarono nelle piazze e si diressero verso lo stadio di Orlando.

Si decise per la linea pacifica, pianificando in modo accurato il tutto, in modo tale che fosse chiaro: nelle prime file del corteo erano esposti cartelli con scritte come "Non sparateci - non siamo armati".

Il corteo incontrò la polizia, che aveva preparato delle vere e proprie barricate.

Si optò per una deviazione del corteo su di un percorso alternativo: anziché andare allo stadio, giunsero presso la Orlando High School.

Qui, nuovamente trovarono la polizia ad attenderli che cercò subito di disperdere la folla con i gas lacrimogeni.

Dal corteo cominciarono a levarsi slogan di protesta ed i bambini esasperati dalla condizione di segregazione in cui si trovavano costretti a vivere sin dalla nascita e dal crescendo di angherie che erano costretti a subire, cominciarono a tirare pietre verso la polizia.

La polizia prontamente e senza alcuno scrupolo, aprì il fuoco uccidendo quattro bambini, fra cui il tredicenne Hector Pieterson di cui la fotografia del suo corpo martoriato divenne un simbolo della violenza della polizia sudafricana.

Negli scontri che seguirono durante la giornata morirono altre 23 persone.

Dopo il massacro del 16 giugno, la tensione fra gli studenti neri di Soweto e la polizia continuò a crescere.

Il giorno successivo, le forze dell'ordine sudafricane giunsero a Soweto armate di fucili automatici, inoltre furono dispiegate anche forze dell'esercito.

Soweto era pattugliata da elicotteri e automobili della polizia e diverse fonti riportarono di agenti in borghese che giravano in automobili civili e sparavano a vista sui dimostranti neri.

Le contestazioni durarono circa 10 giorni e si dovette arrivare alla morte di più di 500 manifestanti e il ferimento di oltre 1000, perchè il regime dell'apartheid crollasse.

La rivolta contribuì a consolidare il sentimento anti-afrikaner nelle masse nere e la posizione predominante dell'ANC come principale interprete di questo sentimento.

Molti dei cittadini bianchi sudafricani presero parte in modo deciso a favore dei dimostranti.

Alle manifestazioni di studenti neri si andarono ad aggiungere quelle degli studenti bianchi.

Dal mondo studentesco, inoltre, la protesta si allargò a diversi settori produttivi con una catena di scioperi da parte degli operai di molte fabbriche.

La rivolta che si estese in tutto il Sudafrica pagò ed ebbe un ruolo fondamentale nella caduta del National Party e nella fine dell'apartheid, sancita definitivamente nel 1994.

martedì 14 giugno 2022

Demetrios Stratos

 

Il 14 giugno 1979, una folla tra musicisti, pubblico e amici, saluta con rabbia e affetto il musicista e compagno che fece più degli altri la storia della musica d'avanguardia in Italia, mancato solamente il giorno prima. La malattia di Demetrio Stratos non aveva lasciato indifferente nessuno della scena musicale popolare italiana. Il grande concerto organizzato il 14 a Milano per trovare i soldi per le cure di Demetrio, dovette mutarsi in un addio. Area, Guccini, PFM e tanti altri si alternarono sopra il palco.

Demetrio (Efstràtios Dimitrìu) nacque ad Alessandria d'Egitto nel 1945 da genitori greci e studiò fin da bambino al prestigioso «Conservatorio Nazionale di Atene». Visse alcuni anni a Cipro fino a trasferirsi a Milano nel '62 per iscriversi ad Ingegneria. Iniziò a suonare in diversi gruppi di influenza rock, ma portandosi sempre dietro quelle sonorità bizantine che lo avevano accompagnato nella sua infanzia, fino a fondare il gruppo sperimentale degli Area. Diventato cantante per caso, si appassionò alla propria voce sondando le potenzialità di uno strumento così poco considerato dalla musica occidentale, e riscoprendo il suo valore nelle culture extraeuropee. Nei primi anni '70, osservando sua figlia Anastassia durante la fase di lallazione, si accorse che la bambina inizialmente giocava e sperimentava con la propria voce, ma poi la ricchezza delle sonorità vocali andava via via perduta con l'acquisizione del linguaggio: "il bambino perde il suono per organizzare la parola". E questa fu l'origine di tutta la sua sperimentazione sul ritorno a quelle sonorità di una voce-musica che veniva privata delle sue sfumature grezze, rumorose e istintive dalla voce-parola dominata dai meccanismi culturali di controllo e dagli imperativi della società di mercato. Stratos combatté il canone "morale" della bella voce armoniosa con la sua voce, che sapeva essere testarda nella sua naturale "indecorosità". La voce come arma rivoluzionaria, in un decennio in cui questa assumeva importanza in un contesto di radicale opposizione al sistema di cose presenti. La voce, per Demetrio Stratos, aveva bisogno di accompagnare il proletariato nel suo percorso di emancipazione dalle strutture restrittive attuali.

domenica 12 giugno 2022

Erich Fromm sostiene il pensiero anarchico. L'Uomo non nasce aggressivo

Quando si vuole screditare l'anarchia si tirano fuori argomenti strambi o pseudo teorie, come quella secondo cui l'anarchia sarebbe inattuabile perché l'Uomo, essendo un animale, è per sua stessa natura aggressivo. Ciò è falso.

L'Uomo non nasce affetto da aggressività, o almeno non di quell'aggressività distruttiva e nefasta che conosciamo oggi, ma lo diventa a causa del sistema in cui egli è stato costretto a sopravvivere. Questo è (potremmo dire) l'assunto finale di Erich Fromm in merito al suo meticoloso studio sulla società. Gli studiosi anarchici lo avevano detto già prima di Fromm, ma se ai più i nomi di Errico Malatesta o di Pëtr Alekseevič Kropotkin non dicono nulla (chiedetevi anche perché lo Stato non faccia conoscere i filosofi anarchici), quello di Fromm ci induce a stimolare la nostra curiosità in merito al tema Uomo/aggressività. Ci dispiace per quelli che ancora sostengono la teoria della presunta aggressività umana, Fromm non esita a definirla invece 'insostenibile'. Ma l'analisi che lo psicanalista e sociologo tedesco ha fatto circa le radici dell'aggressività respinge con forza anche il paragone tra Uomo e animale, sostenendo invece le ragioni scientifico-culturali dell'anarchia e dei sistemi non gerarchici di gestione sociale. Semmai, dice Fromm, l'Uomo è diventato aggressivo molto più degli animali. Attenzione, Fromm dice “è diventato”, e ne spiega i motivi. In sintesi, è un fatto di carattere acquisito, non di natura umana. C'è ovviamente differenza tra carattere e natura.

Lo studio di Fromm è rilegato in un libro dal titolo “L'amore per la vita" (ricordiamo che l'anarchia è la cultura della vita, mentre lo Stato è la cultura della morte), tratto da alcuni suoi interventi radiofonici. Nel capitolo intitolato “Le radici dell'aggressività”, Fromm fa a pezzi molti luoghi comuni, portando a supporto della tesi anarchica tutta una serie di prove scientifiche, storiche, antropologiche, alle quali non si può davvero voltare le spalle, a cominciare dal fatto che se l'Uomo avesse una natura geneticamente aggressiva non potremmo spiegarci l'esistenza di gruppi sociali pacifici, intere etnie votate alla cooperazione (federalismo anarchico), comunità che non sanno che farsene dell'autorità e delle gerarchie. Infatti, presso alcune civiltà, dove il progresso è quello vero, cioè umano, manca la concezione di gerarchia, quindi non vi sono crimini, non c'è polizia o esercito, non c'è Stato, né governo. C'è una meravigliosa anarchia (che a ragion veduta non può definirsi utopia).

Ma questa è solo una delle ragioni che Fromm evidenzia, noi vi invitiamo a leggere l'intero capitolo (pag. 56 - 77). Interessante è anche il paragrafo “La crisi dell'ordine patriarcale” (pag. 36), dove lo psicanalista riporta alla luce e alla conoscenza di tutti le società gilaniche, fiorenti e civilissime culture europee, anarchiche, dove la gerarchia non era conosciuta, la donna non era sottomessa all'uomo, non v'era bisogno di esercito, non esisteva lo Stato, di conseguenza neppure le guerre e i crimini. La pace e la cooperazione anarchiche erano le uniche sovrane. D'altra parte, non possiamo ignorare che il progresso umano (sottolineiamo umano) si è potuto realizzare soltanto grazie all'incontro delle popolazioni con altre popolazioni e alla loro reciproca cooperazione (scambio di informazioni); l'imposizione dello Stato, invece, ha fatto basare tutto sulla competizione, quindi sull'aggressività alimentata dalla gerarchia in ogni settore sociale, con tutto ciò che di nefasto ne deriva.

Riguardo al fatto che l'Uomo sia poi diventato aggressivo per colpa dell'invenzione pretestuosa dello Stato (che non deve più essere considerato una sorta di religione, se vogliamo liberarci dalla sua morsa), Fromm lo dice proprio chiaramente, arrivando a formulare accuse precise al “popolo obbediente” definendo tale obbedienza “da cadavere", cioè obbedienza del popolo morto. Interessante anche l'analisi che Fromm fa dello Stato, quando definisce i politici dei veri “sadici” dandone logicamente motivazioni scientifiche e prendendo come esempio il carattere del comandante nazista Himmler, tanto crudele, quanto attento e ligio al dovere e all'ordine. Attenzione a questa parola, “ordine”, perché nasconde tante insidie e inganni. La triste cultura borghese di cui ancora siamo impregnati ci ha fatto associare a questa parola (ordine) un concetto di buono, di bello, di giusto, di qualcosa da perseguire e onorare a tutti i costi. Ma qual è l'ordine supremo della società odierna se non quello voluto dallo Stato? Di che ordine si tratta se non l'ordine gerarchico-autoritario delle istituzioni borghesi, conservatrici, capitaliste, quindi fasciste? E guarda caso, anche secondo Fromm il potere Statale è sempre gestito da sadici con la mania dell'ordine al quale il popolo deve obbedire per soddisfare le manie sadiche di quelli che gestiscono gli Stati.

Non è certo un'esagerazione quando gli anarchici dicono che tutti gli Stati e tutti i governi sono fascisti e vanno abbattuti. Quello anarchico è invece un ordine-altro, non gerarchico, l'ordine naturale e mutualistico in cui l'Uomo ha sempre vissuto. Ora spetta a voi compiere un passo, o più di uno. Potete offrire ai vostri figli e nipoti un futuro di pace e di vera giustizia sociale, oppure condannarli alla cieca obbedienza da cadavere, alla lamentazione continua, all'inganno perenne, alla sottomissione. Gli anarchici inneggiano alla disobbedienza e perciò vengono criminalizzati e derisi. Ma anche Kropotkin, Gandhi e Fromm sostengono che disobbedire allo Stato è giusto. Criminalizziamo e deridiamo anche Kropotkin, Gandhi e Fromm? È innegabile il fatto che chi criminalizza un nuovo percorso, una nuova idea, un nuovo sistema, tende inesorabilmente a conservare la realtà attuale e a non compiere alcun progresso. Come diceva Bakunin: “È ricercando l'impossibile che l'uomo ha sempre realizzato il possibile. Coloro che si sono saggiamente limitati a ciò che appariva loro come possibile, non hanno mai avanzato di un solo passo”.

venerdì 10 giugno 2022

L'Anarchia non è utopia

È in quell'immenso vulcano delle rivoluzioni (megafoni che ingrandiscono e universalizzano le voci dei popoli) che le grandi idee si elaborano, e si sviluppano, perchè è allora che gli uomini spezzano i freni, schiantano le vecchie abitudini, rovesciano il passato e calpestano tutto quanto il giorno prima avevano creduto che fosse sacro.

L'Anarchia non è utopia. Essa è allo stato di aspirazione nel fondo dell'animo umano. Essa si rivela nel perpetuo moto che è sorgente e scopo della vita stessa. Quel continuo travaglio interiore, quel costante bisogno di ricerca, di lotta e di sogno, che agita l'individuo, nell'insofferenza del presente, in uno sforzo perenne di superamento e di liberazione, è legge eterna della vita, eterna aspirazione all'Anarchia. Poeti, artisti, letterati, hanno sempre avvertito il suo palpito, il suo respiro, nelle visioni e nelle lotte dell'opera loro: essi hanno demolito qualcosa di ciò che l'Anarchia vuol demolire; hanno portato chi una pietra, chi un marmo, chi un mosaico all'edificio che essa va pazientemente costruendo.

martedì 7 giugno 2022

7 giugno 1914: la settimana rossa in Toscana (Parte 2)

Il giorno seguente in molte località fu proclamato lo sciopero generale e iniziarono i moti della cosiddetta Settimana rossa, che ben presto si allargano a tutta la Romagna e alle Marche. L’agitazione, in molte località, prenderà un aspetto d’insurrezione spontanea e popolare, coinvolgendo centri urbani importanti come Genova, Milano, Parma, Firenze, Napoli, Bari e Roma. In queste giornate vi furono assalti agli edifici pubblici, saccheggi, sabotaggi delle linee ferroviarie e ripetuti scontri con le forze dell’ordine. Complessivamente vi furono 13 morti, uno tra le forze dell’ordine, molte centinaia di feriti e diverse migliaia d’arresti tra i dimostranti. In Toscana lo sciopero si affermò a Firenze, Pisa, Livorno, Massa, Carrara, Viareggio, Pietrasanta e Pescia mentre altre province come Grosseto, Arezzo o città come Lucca furono toccate solo marginalmente dall’agitazione. Gli incidenti più gravi accaddero a Firenze dopo il comizio in Piazza Indipendenza quando un consistente gruppo di scioperanti si diresse verso il centro città. Nei pressi della Manifattura tabacchi i dimostranti venuti a contatto con alcuni agenti di Pubblica sicurezza tentarono di disarmarli e nel parapiglia venne ucciso dalle guardie un operaio mentre molti altri rimasero feriti. La città nelle ore successive vide moltiplicarsi gli incidenti causati dai continui scontri tra operai e forze dell’ordine che con la forza solo a tarda notte riportare la calma in città. Sotto la pressione della direzione del PSI, la Confederazione generale del lavoro (CGdL), il maggior sindacato italiano, proclamò uno sciopero generale di protesta per il 9 giugno, ottenendo però che modi e tempi dell’astensione dal lavoro rispondessero alle direttive approvate dal Consiglio nazionale nell’aprile 1913, le quali circoscrivevano ad un limite massimo di 48 ore la durata di un eventuale sciopero generale. Questo modo di condurre l’agitazione attirò sulla dirigenza riformista della Confederazione l’accusa di diserzione della causa proletaria da parte di molti esponenti della sinistra socialista, primo fra tutti Benito Mussolini, in quel frangente direttore dell’«Avanti!». Fu soprattutto in Romagna, e in particolare nel Ravennate, dove più forte era il radicamento delle organizzazioni politiche e sindacali popolari e dove maggiore era il grado di politicizzazione delle masse e maggiore, che lo sciopero prese i contorni di una vera e propria rivolta, al punto che il presidente del Consiglio Antonio Salandra, intervenendo il 12 giugno alla Camera, avrebbe addirittura sostenuto l’esistenza di un “concerto criminoso” all’origine delle sollevazioni popolari romagnole e marchigiane, un autentico piano rivoluzionario volto al sovvertimento delle istituzioni monarchiche e statali.

Le organizzazioni della sinistra dal PSI alla CGdL agli anarchici dell’USI non riuscirono però a dare un orientamento e uno sbocco politico alla protesta. La direzione del PSI, pur avendo lavorato per portare la CGdL alla decisione dello sciopero generale, che in molte località era già stato indetto dalle Camere del lavoro – soprattutto quelle a guida sindacalista rivoluzionaria –, non volle assumersi la responsabilità politica di guidare il moto di protesta. Il 10 giugno la CGdL tramite il suo segretario Rinaldo Rigola, diramò l’ordine di cessazione dell’agitazione mentre lo stesso giorno il Sindacato dei ferrovieri proclamava l’astensione generalizzata dal lavoro. Le manifestazioni terminarono tra il 12 e 14 giugno e il governo Salandra potette tirare un sospiro di sollievo. Le elezioni amministrative indette per la fine di giugno si tennero regolarmente e il PSI ottenne un importante successo conquistando la maggioranza in più di 300 comuni, tra i quali Milano e Bologna, e in quattro amministrazioni provinciali.

La Settimana rossa lasciò uno strascico di polemiche tra l’ala riformista e quella rivoluzionaria del PSI. La Settimana rossa, sicuramente, ebbe un ruolo nel determinare l’atteggiamento della Corona nella decisione di rinunciare ad entrare subito in guerra nell’agosto del 1914. L’opinione pubblica, le classi dirigenti e le forze popolari non erano ancora pronte ad affrontare la scelta drammatica della partecipazione italiana al primo conflitto mondiale. Era assai diffuso il timore che la scelta di entrare in guerra potesse, in quel momento, scatenare forti reazioni delle masse popolari mettendo a repentaglio la stessa sopravvivenza della corona e l’integrità dello Stato. Ci vollero più di dieci mesi, di acceso confronto e scontro tra interventisti e neutralisti, per portare l’Italia nel coacervo della Prima Guerra Mondiale.

lunedì 6 giugno 2022

7 giugno 1914: la settimana rossa in Toscana (Parte 1)

La Settimana rossa fu un moto a carattere popolare, antimilitarista e insurrezionale che attraversò l’Italia dal 7 al 13 giugno 1914, alla vigilia del primo conflitto mondiale, il Paese, allora, sembrò sull’orlo di una rivoluzione sociale.

Durante tutta l’età giolittiana l’agitazione antimilitarista fu al centro delle principali attività dei partiti e dei movimenti della estrema sinistra. L’antimilitarismo unì in un unico fronte quelle forze sovversive, dai repubblicani ai libertari, dai socialisti ai sindacalisti rivoluzionari, che all’epoca erano profondamente divise per contrasti ideologici e programmi politici. La critica al militarismo, insieme all’anticlericalismo e alla profonda avversione alla monarchia dei Savoia, fu alla base di una stagione unitaria ed eccezionale di lotte radicali nella storia della sinistra italiana. La monarchia dei Savoia aveva costruito la propria egemonia durante il processo di unificazione dell’Italia proprio utilizzando le forze armate. L’esercito si era distinto nella battaglia al banditismo nel Mezzogiorno d’Italia, nella repressione dei moti popolari in Sicilia e in Lunigiana nel 1893-1894 e in quelli per il “caro-pane” del 1898. Nei primi anni del Novecento l’esercito si era ancora reso protagonista, inoltre, per alcune efferate stragi di contadini e operai durante scioperi e proteste. Per tutte le forze della sinistra i militari rappresentavano uno dei maggiori ostacoli alla rivoluzione sociale e all’avvento di una nuova società. Ancora di più, le gerarchie militari si erano fatte conoscere all’epoca per i disastri delle imprese coloniali e per una serie di scandali finanziari e di corruzione che avevano fortemente minato la loro credibilità. La recente Guerra italo-turca del 1911-1912 aveva gettato benzina sul fuoco, non solo per la sua conduzione e l’altro numero di vittime – che aveva causato tra la popolazione e tra gli stessi soldati italiani – ma anche per la netta opposizione di una parte consistente delle forze popolari che vedevano in questa guerra l’ennesima riprova dell’aggressività e voracità del capitalismo italiano. In tutta Italia, da parte dei leader della sinistra rivoluzionaria e anarchica, si erano lanciate parole d’ordine di fuoco contro la guerra e si incitavano i militari alla diserzione e al boicottaggio. Il soldato Augusto Masetti, durante una rassegna militare sparò, in segno di ribellione contro l’impresa libica, ad un alto ufficiale ferendolo gravemente. Masetti fu subito preso dal fronte antimilitarista a simbolo ed eroe. Intorno al suo nome i libertari, le componenti repubblicane, socialiste e sindacaliste rivoluzionarie che avevano preso le distanze dagli esponenti politici che approvarono l’invasione della Libia – come il deputato socialista Leonida Bissolati –, avevano avviato una campagna di generale mobilitazione. La domenica del 7 giugno 1914 – festa dello Statuto, giorno caro all’Italia monarchica e liberale – in tutta Italia furono convocate congiuntamente dalle forze dell’estrema sinistra centinaia di manifestazioni antimilitariste. Le parole d’ordine erano semplici ed efficaci: libertà per Masetti , solidarietà alle vittime delle ingiustizie militari e la soppressione delle famigerate compagnie di disciplina. Il ministro Salandra, all’epoca capo gabinetto, vietò tutte le manifestazioni molte delle quali furono comunque svolte. Ad Ancona, al termine di un infuocato comizio in forma privata presso la sede del PRI, chiamata comunemente “Villa rossa”, i dimostranti tentarono di forzare i cordoni della polizia e di penetrare nell’attigua Piazza Roma, dove la banda militare stava intonando la “Marcia reale”. Seguirono dei violenti scontri tra le forze dell’ordine e i dimostranti nel corso dei quali alcuni carabinieri, presi dal panico, aprirono il fuoco indiscriminatamente sui manifestanti uccidendone tre, un libertario e due repubblicani e ferendone molti altri. La notizia dell’eccidio si propagò rapidamente in tutta Italia.

sabato 4 giugno 2022

Elisée Réclus geografo

La storia del movimento libertario nel XIX secolo vanta, accanto alla schiera dei lavoratori sfruttati, alcuni dei più bei nomi della scienza e dell'arte. Uomini dalla cultura così profonda e dalla sensibilità tanto acuta da avere compreso, prima e meglio di tanti loro colleghi accademici parrucconi, quanto urgente fosse una svolta sociale in senso libertario, quanto precario un ordine politico che continuava a basarsi, in piena era scientifica e industriale, su una visione burocratica e centralistica della vita sociale. Non è un caso che diversi di loro venissero dallo studio della geografia, la più "umanistica" delle scienze, anzi, il vero anello di congiunzione tra cultura scientifica e artisticoletteraria. La geogragfia che, nella prima metà del XIX secolo, sulla scorta dell'insegnamento di von Humboldt e Karl Ritter, si avviava a una visione complessiva, "organica", del rapporto uomo-natura, a una concezione dinamica dell'interazione fra società e ambiente, fra Storia e Natura.

Elisée Réclus nasce a Sainte-Foy-la-Grande, nella Gironda, nel 1830, secondogenito di una nidiata di dodici fratelli.

Elisée frequenta l'Università di Berlino, dove ha per maestro il famoso Ritter, che gli comunica un amore inestinguibile per la geografia.

Rientrato in Francia, frequenta i primi circoli socialisti-anarchici e vi aderisce pieno d’entusiasmo, superando l’originale, generico repubblicanesimo. Ma passata l’illusione rivoluzionaria del 1848, Luigi Napoleone Bonaparte realizza il colpo di Stato nel 1851, e Reclus è costretto all’esilio. Viaggia molto, in Europa e fuori; è, tra l' altro, negli Stati Uniti e in Colombia, sinché nel 1857 un' amnistia non gli riapre le frontiere della Francia. Si dedica allora a un’intensissima attività di scrittore, pubblicando libri di geografia divulgativa. Intanto intensifica la sua militanza anarchica, pur senza mai abbandonare del tutto gli studi geografici e l’insegnamento. S’incontra con Bakunin in Svizzera, e nel settembre 1867 partecipa al Congresso democratico internazionale della pace. Parteggia ovviamente per Bakunin nel dissidio, sorto in seno alla Prima Internazionale, rispetto a Marx e ai suoi seguaci.

Così lo descrive, commosso, l'amico Kropotkin nelle sue celebri Memorie di un rivoluzionario: "Uomo che animava gli altri, ma che non ha mai comandato nessuno, né mai lo farà. È l'anarchico la cui fede è l'essenza della sua conoscenza vasta e profonda della vita umana in tutte le sue manifestazioni, in tutti i paesi e a tutti i gradi di civiltà, i cui libri sono fra i migliori del secolo; il cui stile, di notevole bellezza, colpisce la mente e la coscienza; che quando entra nella redazione di un giornale anarchico dice al direttore - che di fronte a lui è forse un ragazzo: "Ditemi che cosa devo fare", e siede, come un collaboratore qualunque, a scrivere poche righe per riempire una lacuna sul numero che si sta stampando. Durante la Comune di Parigi si armò di un fucile e prese il suo posto fra i combattenti. Se invita qualcuno a collaborare alla sua Geografia di fama mondiale, e il collaboratore chiede timidamente: "Che cosa devo fare?", egli risponde: "Ecco i libri, ecco una tavola. Fate quel che volete."

mercoledì 1 giugno 2022

1 giugno 1307: Fra Dolcino e Margherita arsi vivi

Fra Dolcino fu un eretico che si batte contro la gerarchia ecclesiastica e i poteri costituiti.

I dolciniani credevano che non fosse possibile riformare la Chiesa senza modificare radicalmente la stessa società, per questo il suo programma poteva essere riassunto in questo modo:

-ritorno alla Chiesa della origini;

-abolizione di tutte le gerarchie (in primis quelle ecclesiastiche) e di ogni potere costituito;

Questo significava distruggere il sistema di dominio feudale e la sua sostituzione con una società egualitaria (in primis quella dei sessi) fondata sulla comunione dei beni. Per raggiungere quest'obiettivo essi non disdegnavano l'uso della forza.

Per sconfiggerlo fu organizzato un imponente esercito costituito da circo 8 mila uomini, per difendersi dai quali i dolciniani scelsero di riunirsi ed appostarsi sul Monte Rubello, una montagna delle Alpi Biellesi oggi conosciuto come monte San Bernardo. Dopo una strenua resistenza, il 23 marzo 1307 i crociati penetrarono nelle fortificazioni erette dai seguaci di Dolcino e catturarono gran parte di loro. Quasi tutti i prigionieri furono passati per le armi; Dolcino, torturato, processato e condannato a morte, fu arso vivo pubblicamente il 1º giugno 1307 dopo aver assistito al rogo di Margherita e di Longino da Bergamo.

Alla fine dell'800, il monte Rubello, dove si era svolta l'ultima battaglia dei dolciniani, comincia a diventare luogo prescelto di incontro dei sovversivi biellesi (mazziniani, radicali, anarchici, socialisti...). Nel 1907, diecimila persone si riunirono sul monte Rubello per celebrare il seicentesimo anniversario della morte di Dolcino e Margherita, dove eressero un obelisco alto dodici metri in memoria dei comunitari apostolici.

Nel 1927, quando l'Italia si trovava sotto la dittatura di Mussolini, l'obelisco fu abbattuto sprezzantemente dal regime fascista. Cinquant'anni dopo, nel 1974, un gruppo di attivisti del movimento operaio biellese collocarono una croce catara in sostituzione dell'obelisco. Alla festa popolare organizzata per celebrare l'evento parteciparono Dario Fo e Franca Rame che con la commedia teatrale Mistero Buffo avevano fatto ritornare in auge Dolcino e Margherita, precursori del socialismo.