..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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domenica 29 gennaio 2023

Contro il 41 bis. Per una società senza galere

Il carcere è un’istituzione totale prodotto di una società basata sul dominio e sullo sfruttamento. Lungi dall’essere una soluzione ai problemi sociali, rappresenta una delle tante facce della violenza degli stati.

In Italia le condizioni di detenzione nelle carceri sono in costante peggioramento da anni: sovraffollamento e abusi fisici e psicologici sono la “normalità” di una situazione sempre più intollerabile, e di questo ne fanno fede i sempre più numerosi suicidi.

Le condizioni di esistenza di chi si trova in regime di 41bis o di Alta Sorveglianza risultano ancora più inaccettabili. In questi casi si può parlare di vera e propria tortura psicofisica per le pesantissime condizioni di isolamento e deprivazione.

L’ergastolo così come l’articolo 41 bis sono orrore istituzionalizzato, indegno di qualsiasi società. Al di là dei proclami pelosi sulla necessità di ‘recupero’ del detenuto e della detenuta alla normale vita sociale, queste pene inflitte palesano in che considerazione le classi dominanti tengano coloro che incappano nelle reti della loro ‘giustizia’: rifiuti da isolare in quella discarica sociale che sono le carceri.

Perfino la Corte Costituzionale se ne è accorta, dichiarando queste misure incostituzionali già da 2021. Il nuovo Governo, continuando la prassi dei precedenti, ha invece ribadito l’applicazione dell’ergastolo ostativo.

Da anni assistiamo all’accanimento particolare delle istituzioni repressive contro il movimento anarchico con teoremi giudiziari sempre più fantasiosi e condanne sempre più pesanti anche per episodi di normale conflitto sociale. Di fatto nei confronti del movimento anarchico viene applicato quel “diritto penale del nemico” sulla base del quale si viene giudicati non tanto per le azioni commesse ma quanto per le proprie idee.

Questo accanimento si riverbera anche contro i detenuti e le detenute che rivendicano il loro ideale anarchico e che, sempre più spesso, vengono sottoposti/e ai regimi carcerari più duri, da ultimo il 41bis.

Da mesi Alfredo Cospito ha iniziato uno sciopero della fame ad oltranza per essere tolto dal regime del 41Bis, mentre altr* detenut* hanno a loro volta iniziato uno sciopero della fame in solidarietà.

Sosteniamo la loro lotta così come tutte le lotte portate avanti dai detenuti e dalle detenute in tutte le carceri per rivendicare condizioni di esistenza meno opprimenti, per la chiusura definitiva del 41bis e degli altri regimi di carcerazione speciale.

Nella nostra storia abbiamo conosciuto la barbarie delle leggi scellerate, il confino, l’esilio, l’eliminazione fisica; non sono mai riusciti nel loro intento: la fame di libertà e di giustizia sociale è più forte di ogni cosa.

venerdì 27 gennaio 2023

Alpini. Revisionismo di stato


La scritta “No a tutti gli eserciti!” è comparsa questa notte sul basamento del monumento agli alpini nell’area del giardino roccioso del parco del Valentino.

Il 26 gennaio è la “Giornata nazionale dedicata alla memoria e al sacrificio degli alpini”. Istituita nel maggio del 2022, sarà celebrata ogni anno “in ricordo dell’eroismo dimostrato dal corpo d’armata nella battaglia di Nikolajewka del 26 gennaio 1943”, durante la seconda guerra mondiale. L’intenzione sin troppo esplicita è celebrare l’avventura dell’ARMIR, il corpo di spedizione italiano inviato in Russia da Mussolini per sostenere l’aggressione della Germania nazista contro l’Unione sovietica.

Il 26 gennaio, un giorno prima della giornata della memoria, in cui si ricorda lo sterminio di ebrei e rom europei nei campi nazisti e le leggi razziali in Italia durante la dittatura, si celebra la guerra voluta dal governo fascista e i valori patriottici che la giustificarono.

Un vero revisionismo di Stato.

Questa celebrazione, che rimette al centro l’interesse nazionale e la retorica patriottica, come elemento fondante del militarismo dei giorni nostri, produce un eccesso di memoria ai danni della storia.

Il 26 gennaio del 1943, le truppe italiane e tedesche avevano ormai perso la guerra sul fronte russo. Gli alpini inviati nella ghiacciata pianura erano completamente circondati dalle truppe sovietiche. La battaglia di Nikolajewka servì a garantire una via di fuga ai soldati. Una fuga disastrosa, nel cuore dell’inverno russo, nella quale morirono tantissimi poveracci inviati al fronte per il duce e per il re.

L’umana pietà per quei proletari inviati al macello, sentimento condiviso da tanti nel nostro paese, non può e non deve tradursi in esaltazione patriottica di una guerra di invasione a fianco dei nazisti.

Oggi in quelle stesse terre si combatte una guerra durissima tra gli imperialismi dei giorni nostri, tra l’esercito ucraino, sostenuto attivamente dalla NATO, e il blocco russo. A perdere, ancora una volta, sono i poveri che non hanno via di fuga, che patiscono le bombe, l’occupazione militare, le violenze infinite che ogni guerra permette e giustifica. La cornice è sempre la medesima, quella di opposti nazionalismi, supposti scontri di civiltà, ma la partita vera è quella del controllo di risorse e territori, per gli interessi di chi si arricchisce sulle vite degli oppressi e degli sfruttati.

L’Italia a guida fascista è in prima linea. In meno di un anno è aumentato di cinque volte il numero dei militari italiani schierati in Europa orientale alle frontiere con Ucraina, Russia e Bielorussia. Sui 7.000 effettivi impiegati attualmente in missioni internazionali quasi 1.500 operano in ambito NATO nel “contenimento” delle forze armate russe. A partire dal 2014 l’Alleanza atlantica ha dato vita ad un’escalation bellica sul fianco est come mai era accaduto nella sua storia. Nelle Repubbliche baltiche, in Polonia, Romania, Bulgaria e Ungheria, sono state realizzate grandi installazioni terrestri, aeree e navali, sono state trasferite le più avanzate tecnologie di guerra, sono state sperimentate le strategie dei conflitti globali del XXI secolo con l’uso dei droni e delle armi interamente automatizzate, cyber-spaziali e nucleari.

In Italia ci sono le basi da cui partono i droni impiegati in missioni di spionaggio, da queste stesse basi, se vi fosse un allargamento del conflitto, possono partire droni e bombardieri armati con ordigni nucleari.

Il capo del Distretto Aerospaziale del Piemonte è oggi ministro della Difesa. Un fascista legato a filo doppio all’industria armiera italiana, pronta a realizzare a Torino la Città dell’Aerospazio, nuovo polo di ricerca e progettazione di sempre più sofisticati ordigni bellici, con il coinvolgimento diretto del Politecnico che avrà un suo spazio all’interno della nuova città delle armi. Armi che già ora sono impiegate nei conflitti di mezzo mondo.

Un coinvolgimento diretto di truppe italiane nella guerra in Ucraina è possibile. Senza dimenticare le 40 missioni militari all’estero in cui sono impiegati militari italiani.

Gli alpini sono stati e sono oggi in prima fila nelle guerre cui l’Italia ha partecipato in questi anni. Sei mesi all’estero e sei mesi nel controllo militare delle città – operazione “strade sicure” – o nei cantieri militarizzati della Valsusa.

Il cerchio si chiude. Una battaglia fascista per celebrare la guerra di Mussolini e per rilanciare le nuove avventure imperialiste dell’Italia.

Il 26 gennaio dovrebbe essere un giorno di lutto. Lutto per i milioni di civili morti in quella guerra che ha insanguinato l’Europa. Lutto perché, dalle ceneri del fascismo, un governo che si ispira a quell’epoca riesuma la retorica patriottica, la guerra di conquista, gli orrori del colonialismo.
Fermiamoli prima che sia troppo tardi.


giovedì 26 gennaio 2023

Un'epoca rivoluzionaria, Mikhail Bakunin – parte seconda

Carcere Pietroburgo 

Il trattamento che ricevette qui avrebbe distrutto una fibra meno solida della sua. Gli vennero negati  ogni assistenza legale e il permesso di scrivere e ricevere lettere. Poteva disporre soltanto di mezz'ora di “aria” al giorno, durante la quale passeggiava su e giù per il corridoio guardato a vista da sei uomini armati di fucile. Non poteva neppure raggiungere il cortile per l'aria, perché le autorità temevano che con la sua  oratoria ormai leggendaria egli potesse convincere gli animi e suscitare sommosse. Ma neppure queste inumane persecuzioni tranquillizzano le autorità. Dopo nove mesi di questo trattamento si sparge la voce che gli amici del rivoluzionario hanno un piano per liberarlo. Di conseguenza Bakunin viene trasferito alla fortezza di Olmiitz e incatenato al muro. Due mesi dopo, un tribunale militare Io condanna per alto tradimento. Ancora una volta il potere cerca di disfarsi di Mikhail Bakunin: la condanna è all'impiccagione. Ma ancora una volta avviene qualcosa che  rimanda l'appuntamento con la morte. Bakunin era un ufficiale russo: e lo zar lo richiese perché voleva ammazzarlo lui. Gli austriaci lo accompagnarono alla frontiera e lo  consegnarono ai russi, che lo caricarono di catene ancora più pesanti. L'eroe giovanile e romantico si avvia a diventare un martire. Lo zar lo fece rinchiudere nella fortezza Pietro e Paolo di Pietrogrado, e la tortura gli estorse una di quelle «confessioni» di cui sono specialiste le polizie segrete e di cui il potere si serve per umiliare gli avversari politici. Verso il 1840, Bakunin aveva scoperto il socialismo e l'anarchismo francesi, all'incirca un paio d'anni prima di Marx; e come Marx, a contatto delle idee francesi aveva ripudiato l'ideologia tedesca. Ora vuole «la Chiesa universale e autenticamente democratica della  libertà», paradigma dell'aspirazione rivoluzionaria del suo secolo. Ma dopo l'isolamento, la catena, la tortura, la galera, tutto ciò, insomma, che gli ha fatto cadere i capelli e i denti, ha un solo problema: riacquistare la libertà personale per continuare la lotta. Non vuole più marcire nell'umida gabbia che non gli consente neppure di stare diritto in piedi. La sua confessione allo zar Nicola I ha dunque un carattere strumentale: ingannare il tiranno, uscire di galera. Ma Bakunin non è un uomo capace di mentire: in lui anche il calcolo, il cinismo politico si colorano di una patetica vena di autenticità, come quando ammette che aveva potuto credere alla rivoluzione finale «solo con uno sforzo sovrannaturale e doloroso, soffocando a forza la  voce intima che mi  sussurrava l'assurdità delle mie speranze». «Ora auspico una  dittatura illuminata ma impietosa, esercitata per il popolo».

Davanti allo zar  Bakunin evoca il sogno di un impero slavo rivoluzionario. Il tono è ossequiente in modo palese, ostentato. Ma si tratta solo di doppio gioco per ingannare lo zar e riavere quella libertà che serve al rivoluzionario per ordire la caduta dello zarismo? Questa è la molla contingente e forse la fondamentale, ma Bakunin è un russo, e i suoi modelli politici sono quelli panslavi ereditati dalla tradizione, e rafforzati dalla forza di convincimento della galera e della tortura. Quando la sorella più amata andò a trovarlo, Bakunin le fece passare un  biglietto disperato: «Non potrai mai capire che cosa significa sentirsi sepolto vivo, dire a se stesso a  ogni momento del giorno e della notte: sono uno schiavo, sono annientato, ridotto all'impotenza a vita, udire nella propria cella i prodromi della prossima lotta che deciderà gli interessi più vitali del genere umano ed essere forzato a rimanere inattivo e silenzioso, essere ricco di idee, alcune delle quali, almeno, potrebbero essere belle, e non poterne attuare nemmeno una; sentire l'amore in petto, si, l'amore, a dispetto della pietrificazione esteriore, e non poterlo spendere per niente e per nessuno, sentirsi pieno di devozione e di eroismo verso una causa sacra e vedere il proprio entusiasmo che s'infrange contro quattro mura nude, uniche mie confidenti». Il doppio gioco, le suppliche della famiglia Bakunin non servirono. Lo zar aveva deciso: il rivoluzionario doveva morire. 

lunedì 23 gennaio 2023

Un'epoca rivoluzionaria, Mikhail Bakunin – parte prima

Mikhail Bakunin era nato l’8 maggio 1814 a Prjamuchino nella provincia di Tver, da una famiglia di proprietari terrieri. Aveva passato l'infanzia in una fattoria in cui vivevano cinquecento "anime", cioè servi. La grande casa settecentesca era rallegrata dalle risa e dai giochi dei fratelli e delle sorelle di Mikhail; sul davanti scorreva un fiume largo, maestoso: il paesaggio che il rivoluzionario russo ricorderà per tutta la vita. Come un personaggio di Turgheniev o di Cecov, il giovane Mikhail crebbe in un ambiente ricco di sottili emozioni, immerso nella grandezza della natura. Era il maggiore di dieci fratelli. Una vera banda, di cui lui era il capo. A tutti insegnò subito a ribellarsi alle autorità, a cominciare da quella paterna, come più avanti insegna loro come ribellarsi a corteggiatori, fidanzati e consorti. Un'inibizione sessuale di origine evidentemente incestuosa lo spinse per tutta la vita a ricercare la  compagnia di giovani donne, anche sposate, che poi invariabilmente “doveva” lasciare. All'età di quarantaquattro anni sposò in Siberia una ragazza di diciotto che ebbe due figli con un altro uomo pur continuando a convivere con Bakunin. Come Marx, Bakunin divenne in gioventù un idealista hegeliano. A 19 anni aveva assistito al fallimento della congiura decabrista in cui era implicata la famiglia di sua madre. A ventisei anni, nel 1840, si recò a Berlino per attingere alla fonte dell'hegelismo. Ma voleva anche raggiungere una sorella che aveva convinto a lasciare il marito e ad andarsene col bambino in Germania. A Berlino l'influenza dei giovani hegeliani lo spinse a sinistra. Da ribelle all'autorità paterna, il giovane russo si converti in ribelle all'autorità del super-padre, l'imperatore. La “piccola banda” dei fratelli, del resto, lo aveva abbandonato: la sorella s'era riconciliata col marito ed era tornata in Russia, un fratello che lo aveva raggiunto a Berlino se ne tornò a casa a fare il funzionario, e un'altra sorella, che Bakunin aveva teneramente amato, s'era innamorata dello scrittore Targheniev, e restava a casa anziché raggiungere il “capobanda” in Germania. Fu allora che  Bakunin scrisse la frase diventata famosa: «Il desiderio di  distruggere è anche un desiderio creativo», che diventerà un caposaldo della concezione anarchica fine secolo e che subirà una razionalizzazione da parte dei libertari operaisti nella formula: “La classe operaia può distruggere tutto, perché tutto ha costruito e tutto può ricostruire”. E comunque insensato voler attribuire  soltanto a tare psichiche o a contrasti familiari gli atteggiamenti di un grande rivoluzionario. La psiche di un uomo, certe esperienze formative - del resto comuni a gran parte degli uomini, che  però non hanno la lucidità e il coraggio di  ammetterlo —  possono spiegare tutt'al più le modalità di scelte altrimenti inspiegabili, non perché si diventa ribelli o conformisti. 

Era stato ufficiale di artiglieria in Russia, e sapeva come si conduce all'attacco una colonna e si organizza una difesa.Con la sua corporatura imponente, con la sua parola appassionatamente popolare, fa pensare a un “bandito” patriota come Garibaldi. Bakunin però non diventò un patriota russo, un eroe nazional-popolare,ma portò l'idea stessa della rivoluzione internazionalista in tutto il  mondo. Partecipò alle giornate di febbraio, nel 1848, con la Guardia Nazionale Operaia di Parigi, all'insurrezione di  Praga, di Dresda. In quest'ultima città fu in pratica l'unico che nel 1849  seppe organizzare la resistenza, e che si batte fino all'ultimo, anche se non aveva un grande interesse a questa rivolta cui aveva aderito dietro sollecitazione del musicista Richard Wagner, allora direttore dell'Opera di Dresda. Arrestato dai prussiani e condannato a otto anni di carcere, dopo tredici mesi passati in prigione a Dresda e nella fortezza di Kongstein, una notte lo trascinarono fuori dalla cella per decapitarlo: a sua insaputa era stato condannato a morte. All'ultimo momento la  pena venne commutata nell'ergastolo, ma fu consegnato all'Austria che ne aveva chiesto l'estradizione onde processarlo per la rivolta di Praga. Conclusione: Bakunin venne rinchiuso nella cittadella di Hradcin, dopo essere stato consegnato a Praga come prigioniero di guerra.

venerdì 20 gennaio 2023

20 Gennaio 1893: I Fasci Siciliani di Caltavuturo

Il 20 gennaio di quest’anno ricorre il 130° anniversario della strage di Caltavuturo. Probabilmente nei nostri Comuni non assisteremo ad alcuna celebrazione della ricorrenza; sicuramente non leggeremo niente a riguardo sui giornali né tantomeno né sentirete parlare in televisione. Di quella data e della cornice storica in cui si inseriscono i tragici eventi di cui sto per raccontare si è semplicemente preferito perdere la memoria, come se non fossero mai accaduti.

Ma andiamo per ordine: centotrenta anni fa, tra il 1891 e il 1894, nasceva nelle città e nelle zone rurali della Sicilia, il movimento dei Fasci dei Lavoratori Siciliani, al quale aderirono spontaneamente migliaia tra operai, contadini, artigiani e intellettuali.

Il movimento dei Fasci aveva come obiettivo quello di contrastare il latifondo agrario, di ribellarsi alle prerogative di una monarchia sempre assente e lontana dai problemi del popolo e di raggiungere più degni livelli di giustizia sociale e di libertà.

Una delle sue caratteristiche più rivoluzionarie fu quello di riservare alla figura della donna un ruolo preminente. Proprio le donne ebbero, in particolare a Piana degli Albanesi, funzioni di primo piano e si assisteva per la prima volta nell’isola ad un tentativo organizzato di richiedere un’emancipazione del ruolo femminile oltre ad una più generale rivendicazione di lavoro e di diritti.

Diversi furono i Fasci fondati in Sicilia. Uno dei primi fu quello di Catania nel 1891, ma quelli più organizzati sorsero a Corleone, Piana degli Albanesi e a Palermo.

A Corleone il 30 luglio del 1893, si riunirono tutti i Fasci della provincia di Palermo, per elaborare quello che venne denominato il “Patto di Corleone”, da più parti considerato come il primo esempio di contratto sindacale redatto nell’Italia dell’epoca.

Per capire per cosa lottava quella povera gente occorre menzionare quelli che erano i patti colonici più diffusi nell’800 in Sicilia: la mezzadria ed il terratico. Con la mezzadria il proprietario metteva a disposizione del colono la terra, anticipando le sementi e quest’ultimo era invece tenuto a svolgere tutti i lavori necessari per la produzione; il raccolto veniva poi ripartito in modo sistematicamente iniquo e penalizzante per il colono. Si andava da una divisione a metà del raccolto fino ai casi in cui la suddivisione prevedeva l’attribuzione dei due terzi al proprietario e solo del restante terzo al colono. Alla base del contratto di mezzadria, dunque, c’era sempre lo sfruttamento del colono da parte del proprietario. Il contadino e in modo particolare il mezzadro che usava i suoi muli e la sua attrezzatura per lavorare la terra, finiva poi spesso per essere con questi indebitato in modo permanente.

Inoltre il contratto tra le parti era sempre verbale e così i proprietari avevano gioco facile nel negare le condizioni precedentemente pattuite, abusando del lavoro dei contadini. Come se ciò non bastasse, della sua quota il mezzadro doveva cederne una parte che il proprietario distribuiva tra i campieri. Questi lasciti erano in realtà tributi che il contadino era obbligato a pagare in cambio di protezione. Il ”terratico” era per il contadino, un patto ancora più svantaggioso di quello di mezzadria. Infatti, mentre con la mezzadria il compenso dovuto al proprietario era proporzionato al raccolto, nel terratico il colono doveva versare al proprietario una quota fissa, in denaro o in natura, indipendentemente dall’esito dello stesso; bastava quindi una cattiva annata per costringere il terratichiere a rivolgersi all’usuraio o a vendere quel poco di cui disponeva per far fronte alla quota dovuta.

In questo contesto, la fame e la miseria, il desiderio di riscatto sociale e di giustizia indussero migliaia di contadini nell’autunno del 1893 a ribellarsi e a dare vita ad imponenti scioperi che in alcuni casi ottennero i risultati sperati con il miglioramento dei contratti agrari. Molti furono infatti i proprietari terrieri che intimoriti dalle imponenti manifestazioni vennero incontro alle rivendicazioni insite nei “Patti”.

Tuttavia, la pressione politica dei latifondisti si era tutt’altro che affievolita e questi riuscirono a condizionare il governo statale presieduto dal siciliano Francesco Crispi che acconsentì a mettere in atto politiche repressive contro il movimento stesso.

Proprio a Caltavuturo il 20 gennaio 1893, 11 contadini sui 500 presenti, trovarono la morte ritornando da un’occupazione simbolica del demanio comunale che il Sindaco del tempo aveva da mesi promesso di assegnare loro. A seguito di una sassaiola ingaggiata contro l’esercito regio, quest’ultimo incitato dai campieri mafiosi reagì aprendo il fuoco sulla massa inerme e inseguendo i contadini in fuga perpetuò una delle stragi più brutali di quegli anni.

Nei mesi a seguire gli atti violenti si moltiplicarono.

In ordine cronologico: Giardinello, 10 dicembre 1893, l’esercito spara sui dimostranti di una manifestazione, provocando 11 morti e numerosi feriti. Monreale, 17 dicembre 1893, viene aperto il fuoco su una manifestazione contro i dazi: diversi i morti e i feriti. Lercara Friddi, 25 dicembre 1893, 11 morti e numerosi feriti. Pietraperzia, 1 gennaio 1894, si spara su gente che manifesta contro le tasse. I morti alla fine sono in numero di 8 e 15 i feriti. Nella stessa giornata a Gibellina i morti furono 20 e numerosi i feriti. Belmonte Mezzagno, 2 gennaio 1894, 2 morti; Marineo, 3 gennaio 1894, 18 morti. Santa Caterina Villarmosa, 13 morti e diversi feriti.

Il bilancio finale fu tragico: più di 100 i morti complessivamente conteggiati nell’intera isola e oltre 3.500 i lavoratori arrestati e incarcerati.

Il Governo Crispi il 4 gennaio del 1894, decretò lo stadio di assedio della regione affidando pieni poteri al generale Morra di Lavriano.

L a condotta del generale Morra fu assai cruenta. Diede l’ordine di arrestare i dirigenti dei Fasci e in più di 70 paesi vennero condotti arresti di massa.

Più di 1000 persone furono costrette al soggiorno obbligato nelle isole minori, spesso anche perché semplicemente sospettate di essere simpatizzanti del movimento. Le libertà individuali, di stampa, di domicilio, i diritti di associazione, vennero sospese. Si stava infliggendo un colpo duro a quello che in Europa fu uno dei movimenti di protesta più organizzati, paragonabile senza timore di cadere in esagerazioni, alla Comune di Parigi. E lo si faceva con le armi e col fuoco dell’esercito regio e con la collaborazione della mano mafiosa al soldo del latifondo agrario. Di quei fatti di sangue e del confino di massa narra anche un articolo dell’epoca del Corriere della Sera. Il movimento dei Fasci Siciliani produsse dirigenti di spessore, del calibro di Rosario Garibaldi Bosco, Bernardino Verro e Nicola Barbato, solo per citarne alcuni. In particolare a quest’ultimo si sarebbe ispirato, diversi anni dopo, attribuendosi il nome di battaglia il partigiano Comandante Pompeo Colajanni “Barbato” che ebbe un ruolo centrale nella liberazione di Torino il 28 aprile del 1945. In Italia, purtroppo sono in pochi a sapere dell’esistenza di questo movimento e di quello che accadde in Sicilia in quegli anni. Nessun manuale scolastico gli dedica una riga; il movimento dei Fasci sembra nell’immaginario degli Italiani semplicemente non essere mai esistito, per lo più noto solo a pochi appassionati di storia. Sciascia invece, dal canto suo vide nei Fasci la prima ribellione popolare antimafiosa dell’Italia moderna e contemporanea.

Il cinema si è interessato all’argomento con il film documentario di Nella Condorelli, “1893. L’INCHIESTA”. La pellicola narra di questa pagina rimossa dalla memoria storica nazionale attraverso l’inchiesta, anch’essa dimenticata, condotta dal giornalista veneto Adolfo Rossi per il quotidiano romano La Tribuna. Rossi, nel 1894, per un mese intero, percorse a dorso di mulo le trazzere della Sicilia, raccogliendo le voci dei contadini e degli zolfatari dei Fasci in lotta.

Un tributo alla memoria, contro i luoghi comuni e gli stereotipi che additano il popolo di Sicilia di essere stato sempre soggiocato passivamente e inerte alle prevaricazioni esterne.

martedì 10 gennaio 2023

La rivoluzione di Michael Bakunin

L'obiettivo della rivoluzione è l'estirpazione del principio di autorità, comunque esso si manifesti, sia esso religioso, metafisico e dottrinario alla maniera borghese, o perfino rivoluzionario alla maniera giacobina, perché non ci interessa che l'autorità si chiami Chiesa, monarchia, Stato costituzionale, repubblica borghese, oppure dittatura rivoluzionaria.

La rivoluzione ha come scopo la radicale dissoluzione di tutte le organizzazioni, e istituzioni religiose, politiche, economiche attualmente esistenti, in modo tale che non rimanga pietra su pietra, in Europa e nel resto del mondo, del presente ordine di cose fondato sulla proprietà, sullo sfruttamento e sul dominio.

Bakunin intende la rivoluzione come un rivolgimento radicale, come la sostituzione di tutte senza eccezione le forme della vita europea contemporanea con altre nuove, completamente opposte.

Bakunin vuole distruggere tutti gli Stati e tutte le Chiese, con tutte le loro istituzioni e le loro leggi religiose, politiche, finanziarie, giuridiche, poliziesche, educative, economiche e sociali, cosicché milioni di esseri umani ingannati, tenuti in servitù, torturati, sfruttati, possano respirare in completa libertà.

Ponendo l'esclusione assoluta di ogni principio di autorità e di ragione di Stato, Bakunin mira per conseguenza alla abolizione delle classi, dei ceti, dei privilegi e di ogni specie di distinzione» e quindi, ancora una volta, all' abolizione,alla dissoluzione e alla bancarotta morale, politica, burocratica e giuridica dello Stato tutelare, trascendente, centralista, doppione e alter ego della Chiesa.

sabato 7 gennaio 2023

Anarchia e anarchismo

L’importanza del pensiero malatestiano sta soprattutto nella sua teoria dell’azione, nell’aver delineato e approfondito i termini generali dell’agire anarchico, sia in senso etico, sia in senso razionale. 

Errico Malatesta presentando la “summa” del pensiero anarchico ha diviso l’Anarchia (il fine) dall’Anarchismo (il mezzo). Con questa grande divisione tra anarchismo e anarchia, Malatesta cerca di conferire al primo la sua massima valenza realistica e alla seconda la sua più alta espressione etica. Il primo si media con la storia, acquisendo tutti i giudizi di fatto che questa produce nel suo continuo mutamento, la seconda si mantiene contro la storia perché il processo storico non può mai coincidere con i giudizi di valore che l’anarchia esprime. L’anarchia è l’ideale che potrebbe anche non realizzarsi mai, così come non si raggiunge mai la linea nell’orizzonte che si allontana di tanto in quanto uno avanza verso di esso, invece l’anarchismo è metodo di vita e di lotta e deve essere, dagli anarchici, praticato oggi e sempre, nei limiti delle possibilità variabili secondo i tempi e le circostanze. L’anarchia è l’ideale, la meta mai completamente raggiungibile della libertà e dell’uguaglianza, e dunque è tutto ciò che sta alla base dell’agire anarchico; l’anarchismo, invece, costituisce l’insieme teorico-pratico della traduzione qi questi valori e di questi motivi nel processo storico e come tale fa da tramite dinamico fra deduzione mutevole e relativa del presente e gli obiettivi universali del futuro. L’anarchismo può quindi utilizzare e far proprio qualunque strumento di comprensione dell’esistente mentre l’anarchia non ha bisogno, per sussistere, di essere “giustificata” da tale spiegazione. 

mercoledì 4 gennaio 2023

Il furto: di Alexandre Marius Jacob

Il popolo ha paura, voi dite. Noi lo governiamo con il terrore della repressione; se grida, lo gettiamo in prigione; se brontola, lo deportiamo, se si agita lo ghigliottiniamo. Cattivo calcolo, signore, mi creda. Le pene che infiggete non sono un rimedio contro gli atti della rivolta. La repressione invece di essere un rimedio, un palliativo, non fa altro che aggravare il male. Le misure coercitive non possono che seminare l’odio e la vendetta. E un ciclo fatale. Del resto, fin da quando avete cominciato a tagliare teste, a popolare le prigioni e i penitenziari, avete forse impedito all’odio di manifestarsi? Rispondete! I fatti dimostrano la vostra impotenza. Se mi sono dato al furto non e per guadagno o per amore del denaro, ma per una questione di principio, di diritto. Preferisco conservare la mia liberta, la mia indipendenza, la mia dignità di uomo, invece di farmi l'artefice della fortuna del mio padrone. In termini più crudi, senza eufemismi, preferisco essere ladro che essere derubato.

Certo anch’io condanno il fatto che un uomo s’impadronisca violentemente e con l’astuzia del furto dell’altrui lavoro. Ma e proprio per questo che ho fatto guerra ai ricchi, ladri dei beni dei poveri. Anch’io sarei felice di vivere in una società dove ogni furto sarebbe impossibile. Non approvo il furto, e l’ho impiegato soltanto come mezzo di rivolta per combattere il più iniquo di tutti i furti: la proprietà individuale.

Per eliminare un effetto, bisogna, preventivamente, distruggere la causa. Se esiste il furto e perché tutto appartiene solamente a qualcuno. La lotta scomparirà solo quando gli uomini metteranno in comune gioie e pene, lavori e ricchezze, quando tutto apparterrà a tutti.

domenica 1 gennaio 2023

1 gennaio Sante Caserio in tribunale

Presidente: Accusato, la vostra fanciullezza era ben lungi dal lasciar prevedere il vostro orribile delitto. Eravate laborioso e probo: però eravate impetuoso, spesso annuvolato e chiuso.

Caserio: Sono  forse, Signore, responsabile di questo?

Presidente: Eravate chierico? Comparivate nelle processioni come un piccolo San Giovanni Battista?

Caserio: I ragazzi non sanno quello che fanno; commettono delle sciocchezze.

Presidente: Nel 1892 foste arrestato perché facevate propaganda anarchica fra i soldati?

Caserio: Sissignore.

Presidente: Nel 1893 disertaste e rinnegaste, dopo la famiglia, la patria.

Caserio: La patria è per me il mondo intero.

Presidente: Avete  frequentato certi anarchici  ben noti a Milano?

Caserio: Se li avessi anche frequentati, non lo direi.

Presidente: La polizia lo sa invece vostra.

Caserio: La polizia fa il suo mestiere, io il mio.

Presidente: L'accusa pretende che frequentavate un parrucchiere anarchico.

Caserio: Non potevo andare da un fornaio a farmi tagliare i capelli.

Presidente: Siete italiano; era il 24 giugno. Quella data non vi ricordò nulla?

Caserio: Che era San Giovanni Battista, festa del mio paese.

Presidente: Che era l'anniversario della battaglia di Solferino, dove il sangue italiano e quello francese sgorgarono insieme per la libertà d'Italia.

Caserio: Io non ammetto la guerra civile.

Presidente: Quale diritto avevate voi di uccidere il Presidente della Repubblica? C'è una legge naturale che impedisce di uccidere!

Caserio: I governanti uccidono però...

Presidente: Non avete anche detto che se vi foste trovato in Italia avreste colpito il re e il papa?

Caserio: Oh no! Non escono mai assieme.