Il termine
anarkhia compare in un primo tempo (Omero, Iliade, II, 703 e 726; Erodoto,
Storie, IX, 23) per designare una situazione nella quale un gruppo armato, o un
esercito, si ritrova senza guida. Il significato comune del verbo arkhein era
quello di prendere l’iniziativa, cominciare una battaglia o un discorso. Così
arkhê designava ciò che è all’origine di una successione temporale. Aristotele
lo usa in questo senso quando dice che «principio (principium traduce in latino
il termine greco arkhê) si dice in primo luogo del punto di partenza del
movimento della cosa». Ma arkhê, connesso all’idea di prendere l’iniziativa, ha
anche la connotazione di comando, potere o potere politico. Questo doppio
significato di arkhê (inizio o origine e comando) darà come derivati: 1)
arkhaios, che «risale alle origini» e che nella lingua moderna dà l’idea di
antichità (archivi, archeologia, arcaico); 2) arkhein, comandare, ordinare, da
cui – oltre ad arkhon, - ontos, carica ateniese di un magistrato, o arkheion,
residenza dei principali magistrati – il prefisso arkhi, che indica superiorità
(arcidiacono, arciduca, arciprete), e il suffisso arkhia, che indica la forma
politica: monarchia, oligarchia, gerarchia, anarchia (termine che in Francia
compare nel XIV secolo, ma si trova raramente prima del XVII), autarchia.
L’attribuzione a qualsiasi regime politico di un potere coercitivo pare
evidente o naturale come se il dominio fosse intrinseco al politico, e ancor
oggi risulta evidente alla maggior parte delle persone. Questa apparente
ovvietà, questo andar da sé, ha indotto a considerare il concetto di arkhê come
più o meno neutro. Le cose non sono andate così per quanto riguarda il concetto
di anarkhia, che è rimasto marchiato dallo stigma della disorganizzazione:
senza un capo, senza qualcuno che comanda, la società si disintegra, il caos
divora il sociale. Quando il termine «anarchia» si generalizza nella Francia
rivoluzionaria, designerà in negativo coloro che sono accusati di creare il
disordine e di promuovere la rivolta. Per la rabbia e la passione prodotte da
un’oscura ambivalenza, l’anarchico è accusato di voler disorganizzare la
società politica e indebolire l’autorità e attaccare il potere costituito
(secondo il vocabolario: fautore di tumulti, promotore di disordini), ma al
tempo stesso gli si attribuisce il nobile desiderio di estremizzare la
rivoluzione, di voler livellare ruoli e fortune. Come ha scritto il girondino
Brissot, che flagello per la società questa dottrina anarchica che vuole
stabilire un’uguaglianza universale e di fatto!