Un sabato con il sapore della primavera anticipata. Impossibile fare il conto esatto delle città attraversate dalla giornata di lotta del 22 febbraio. Tra cortei, presidi, punti info, azioni simboliche l’intero paese è stato attraversato da iniziative grandi e piccole: decine di migliaia di persone sono scese in piazza contro il Tav e la repressione.
Nelle stesse ore Matteo Renzi prende la campanella dalle mani di un Enrico Letta ancora stordito per la rapida congiura di Palazzo, che gli aveva sfilato la poltrona in meno di due settimane. Renzi sale al trono, Letta prende la via dell’esilio.
In Ucraina, dopo cento morti, il parlamento decreta la cacciata dell’autocrate e miliardario Yanucovich e apre le porte della galera della sua antagonista, condannata per aver favorito gli interessi russi, la miliardaria oligarca Timoshenko. Mentre l’uno scappava nella Crimea filorussa, l’altra arringava una folla di gente, accolta come un’eroina.
Due brutti film. Uno ci racconta dell’Italia che continua a cambiare testimonial, sperando di trovare quello con la faccia giusta, con il piglio adatto per contendere gli spazi al Cavaliere delle mille risorse. Una tristissima commedia.
L’altra pellicola, tra le divise improvvisate e truci, il fumo nero dei roghi, i liquami scuri che si mescolano al sangue e alle bandiere, ci raccontano dell’ennesima follia identitaria che frantuma il cuore dell’Europa, che mette a nudo la paura dei poveri, gente che lotta e muore tra preti e fascisti, sperando che i muri d’Europa li possano proteggere. O, forse, illudendosi che le strade dell’emigrazione siano più facili da solcare. Tinte fosche come nei “Giovani leoni”, ma con scene da “Apocalipse now”.
Difficile non pensare alla distanza infinita, culturale, politica di pratica e di esempi tra le piazze No Tav del 22 febbraio e le feroci battaglie di potere che di giocavano nelle stesse ore a Roma e Kiev.
Nelle piazze che si sono strette intorno a Chiara, Claudio, Nicolò, Mattia c’era la forza di chi passo dopo passo ha imparato a camminare con le proprie gambe, a non delegare ai professionisti della politica il proprio futuro. Non solo. Le piazze che da Chiomonte a Caltanissetta hanno risposto all’appello del movimento No Tav sono la rappresentazione migliore del fallimento delle strategie del governo, dei media, della magistratura.
Hanno fallito se speravano di seminare la paura, di indurre i più al mugugno silente del bar sport, all’invettiva tra le mura di casa.
L’utilizzo di una fattispecie di reato che colpisce quattro attivisti per ammonirne cento, ha prodotto un effetto boomerang.
Di fronte alla criminalità di una classe politica che sistematicamente depreda le risorse pubbliche per fini del tutto privati, di fronte a chi non esita ad avvelenare la terra e chi ci vive, di fronte a chi saccheggia e devasta, a chi abbandona al degrado le scuole e i treni locali, a chi risparmia sulla nostra salute per arricchirsi, è chiaro chi sono i terroristi. Siedono nei consigli di amministrazione della CMC e della Rocksoil e delle tante ditte che lucrano sulle grandi opere inutili e dannose, siedono sui banchi del governo di turno, siedono sugli scranni dei giudici e sulle poltrone del Procuratori della Repubblica. Sempre più persone sanno che di fronte alla criminalità del potere, non basta la testimonianza, occorre mettersi in mezzo, agire concretamente per inceppare il dispositivo disciplinare nel quale stringono interi territori.
Non era un esito scontato. Chi in questi tre anni ha spinto sul pedale che accelera la repressione, chi rende sempre più dura l’occupazione militare, chi ricatta la materialità stessa delle nostre vite, sperava che un simile dispiegamento di violenza fermasse le lotte.
Le piazze del 22 febbraio sono la dimostrazione di quanto si sbagliassero.
In valle, ma non solo in valle, i vari governi hanno sperato che questi lunghi e difficili anni di lotta spaccassero il movimento, rompessero quell’unità nella diversità che ne ha cementato la forza.
Come dimenticare la marea di menzogne che certa sinistra gettò sulle giornate del luglio 2001 a Genova? Come dimenticare la miriade di becchini che si avventarono sul nascente movimento antiglobalizzatore nel nostro paese, annegandolo in una marea di melassa?
Quel movimento pagò il proprio scarso radicamento, una radicalità del fare che si esprimeva in maniera sostanzialmente simbolica, l’illusione che l’altro mondo possibile potesse sostituire in maniera fluida ed indolore quello che contestava.
Venne frantumato, fatto a pezzi da certa sinistra di governo, da chi, come la CGIL, ambiva a farsene un bel fiore da portare all’occhiello. La denuncia sulle violenze della polizia, sulle torture di Bolzaneto venne depotenziata dalla presa di distanza dal blocco nero, dai manifestanti più radicali.
I governi di turno hanno operato perché la Val Susa offrisse uno scenario simile a quello genovese. Si sono sbagliati. La sinistra civilizzata, istituzionale, la sinistra del meno peggio è affogata nelle tristi avventure di governo. Quel poco che ne resta non ha potuto che mettersi in coda ai cortei del 22 febbraio, cortei in cui si sono espressi i tanti movimenti di lotta che stanno crescendo nel nostro paese.
Tanta gente, gente comune rifugge la violenza e vorrebbe più giustizia sociale e più libertà politica, tanta gente non è rivoluzionaria, ma considera le pratiche più radicali una risposta necessaria alla violenza di Stato, all’occupazione militare, alla ferocia nei confronti di chi resiste.
Sabato 22 febbraio questa gente è scesa in piazza in sostegno di quattro anarchici, nemici dello Stato e del capitalismo, accusati di aver attaccato il cantiere/fortino della Maddalena con bombe carta e molotov.
Il vento sta cambiando. È un vento teso, forte, che ci racconta di un paese dove tanti, troppi, fanno fatica a vivere, dove tanti non sono più disposti a chinare la testa.
Nei prossimi mesi occorrerà mantenere ferma la rotta, per rompere le catene nelle quali stanno stringendo le vite di quattro No Tav, per moltiplicare le iniziative, per far sì che la radicalità delle lotte si innesti nel radicamento territoriale.