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lunedì 19 ottobre 2020

Palermo 19 ottobre 1944: la strage del pane

Il 1944 è un anno terribile per Italia, al Nord martoriata dai rastrellamenti nazisti, al Sud ferita dai recenti bombardamenti e senza pane, senza vestiti, con pochi mezzi di prima necessità.

Nel settentrione si compiono i gravi eccidi nazisti (il 12 agosto Sant’Anna di Stazzema), nel meridione avvengono stragi di inermi cittadini per “fuoco amico”.

A Palermo oggi sono pochi, se non addirittura nessuno, quelli che ricordano gli eventi del 19 ottobre del ’44, una luttuosa giornata sulla quale non esistono pubblicazioni ufficiali, testimonianze, fotografie, testi.

Comincia la mattina del 19 ottobre, giovedì: gli uffici comunali rimangono deserti, per l’astensione dal lavoro dei dipendenti.

Neppure i postelegrafonici e i ferrovieri si recano al lavoro.

È sciopero contro il carovita, come in tante altre parti del paese, è la rabbia di chi soffre gli stenti della ripresa, mentre i “baroni” ed i padroni del “mercato nero” mantengono i privilegi ed aumentano le loro ricchezze.

Gli scioperanti chiedono salari adeguati, ma soprattutto pane e pasta, da mangiare per tutti, e si uniscono i disoccupati, i muratori, i giovani e si fa il corteo al grido di “Pane! Pane!”, un corteo sempre più lungo, che a mezzogiorno parte dalla storica Piazza Pretoria, chiamata da sempre “Piazza della Vergogna” per la nudità delle statue che adornano la monumentale fontana al centro della piazza. 

Scende, il corteo, la breve scalinata che immette sulla via fatta costruire a fine ‘500 dal vicerè, duca di Maqueda, per ospitarvi i palazzi della nobiltà, e si dirige, snodandosi nello splendore barocco che scontra la miseria delle plebi affamate, verso il nobile edificio di Palazzo Comitini.

Lì, nello storico Palazzo ha sede la Prefettura, presidiata da una trentina fra poliziotti e carabinieri, ma il Prefetto non c’è e nemmeno l’Alto Commissario, così i manifestanti che chiedevano di essere ricevuti in delegazione dalle autorità cominciano a scalpitare suscitando i timori del vice-prefetto Giuseppe Pampillonia che invoca l’intervento dell’esercito ed ottiene l’invio di 50 soldati del 139° fanteria “Sabaudia” guidati dal sottotenente Calogero Lo Sardo.

I militari sono accolti con lancio di sassi e rispondono con lancio di bombe a mano e spari ad altezza d’uomo provocando 24 morti e 158 feriti, molti assai gravi, tanto che qualcuno ipotizza che le vittime potrebbero essere di più con decesso, per le conseguenze, dopo vari giorni, ipotesi che non si può escludere a causa del silenzio calato sugli eventi dallo stesso Governo che chiude affrettatamente il caso dandone una versione chiaramente falsa (si parla di “elementi estranei” che è provato non ci sono, “colpi di arma da fuoco”, ma gli unici bossoli rinvenuti appartengono all’esercito, “sedici morti”, ma se ne contano 24 subito), versione dalle quale tuttavia nessuno dei partiti antifascisti prende le distanze.

Il 24 febbraio del ’47 ventuno imputati vanno a processo, riconosciuti colpevoli quanto meno di “eccesso colposo nell’uso legittimo ( ! ) delle armi” e tuttavia nessuno va in galera “per sopraggiunta amnistia”.