La capacità professionale di un
individuo è il frutto dei suoi studi. È però anche il prodotto di una società
che gli ha permesso, con i libri e con i saperi che gli ha trasmesso, di
diventare capace di far certe cose; una società che ha dedicato risorse,
energie, tempo, spazi alla sua formazione. Il suo impegno senza tutto ciò non
sarebbe stato sufficiente a farne quello che è diventato; viceversa la cura
della società non sarebbe bastata senza i suoi sforzi personali.

Il fatto che egli abbia raggiunto un
certo grado di professionalità e sia entrato nel mondo del lavoro non può
rappresentare un fattore di distacco da questo contesto, semmai è il momento in
cui egli comincia a restituire parte di quanto ricevuto sotto i più svariati
aspetti. È difficile dire che il pastore che accudisce le sue pecore per
ricavarne latte e lana svolga una professione meno importante del professore che
beve latte e indossa maglioni di lana, o che il lavoro dell’artigiano
costruttore di borse , di scarpe sia meno dignitoso e meritevole dell’attività
dello studente che riempie una di quelle borse con i libri sui quali studia o
del lavoro di un ingegnere, del chirurgo che indossa quelle scarpe per andare a
lavorare.
Non c’è nulla nella società che non sia
il prodotto di tante attività umane. Ma la nostra coscienza è stata così
violentata che ci è difficile guardare dentro le cose che ci circondano,
pensarle come l’aspetto finale di una serie più o meno lunga e laboriosa di
attività.
Per questi motivi ritengo che un
primario di ospedale, un chirurgo, un ingegnere, un amministratore delegato, un
imprenditore guadagnino tanto denaro in un anno che ad una persona non
basterebbero dieci vite per guadagnare altrettanto. Questo non solo è un fatto
assurdo di per sé in quanto è ingiusto concedere ad una sola persona beni e
privilegi che egli non potrà mai consumare nella sua intera vita, soprattutto è
umiliane per tutti coloro che trascorrono i loro anni migliori piegati su un
campo, rinchiusi in una fabbrica o arrampicati su di una impalcatura a
sgobbare, per portare a casa un salario che serve a malapena per tirare avanti
un altro mese in vista del successivo salario.
E per tornare al primario, al chirurgo
di prima che oggi viene lautamente gratificato, cosa sarebbe tutta la sua
bravura senza gli operai che hanno costruito i macchinari su cui lavora e dei
tecnici che li hanno progettati, di quelli che li hanno istallati, degli
infermieri che lavorano con lui, senza il lavoro dell’addetto alle pulizie, che
rende sterile e igienicamente sano quell’ambiente, senza gli analisti, gli
anestesisti, gli elettricisti, gli idraulici .. anche perché ognuno di questi a
sua volta ha bisogno di persone che svolgono altri lavori: dal panettiere al
calzolaio, dal contadino all’operaio, dall’insegnante al muratore, dal
netturbino al medico, dall’autista di mezzi pubblici al pescatore. Ognuno è
debitore sempre verso qualcun altro, non esistono lavori separati o separabili.
La divisione tra lavoro manuale e lavoro
intellettuale e la gerarchia di valori che oggi assegna ad ognuna di queste
attività una posizione differente nella scala sociale è il frutto della
dissennata politica che tende a dividere gli individui, a perpetuare la
divisione in classi, ad affidare privilegi agli uni e compiti gravosi ed
umilianti ad altri al fine di garantire lo sfruttamento umano.
Solo l’abolizione della divisione tra
queste due forme di lavoro e della proprietà privata, insieme ad un
decentramento della produzione, delle attività e delle decisioni, che
permettono il coinvolgimento della comunità delle scelte di fondo che la
riguardano, all’equa divisione tra tutti gli esseri viventi della ricchezza
mondiale, possono gettare le basi per l’instaurazione di una società
egualitaria in cui il lavoro diverrà l’esercizio di una attività bella ed
interessante.