
Sarebbe troppo facile affermare che Muhammad Alì
ha perso il match più difficile della carriera, quello con il morbo di
Parkinson, di cui soffriva da oltre 30 anni e che all'ospedale di Phoenix, dove
era stato ricoverato due giorni fa per problemi respiratori, ha posto fine alla
sua straordinaria esistenza all'età di 74 anni. Certo, ormai da tanto tempo le
sue parole non erano i proiettili lanciati nelle sue grandi battaglie, sul ring
e per i diritti civili, ma l’intensità dello sguardo era rimasta sempre la
stessa nonostante quel velo calato impietoso. Alì ha battuto anche la malattia,
usando le sue idee di libertà e giustizia per danzare come una farfalla e
pungere come un'ape.
Quel morbo maledetto irriso già ad Atlanta nel
1996 quando, tutto tremante, accese la torcia olimpica facendo piangere di
commozione un intero stadio. Non combatteva da 15 anni, ma forse quella sera fu
il round più bello della vita: Parkinson messo alle corde da quel coraggio di
mostrarsi malato, dalla fragilità avvolta in un commovente tremolio per un uomo
che aveva avuto il mondo in pugno.
In una nazione americana sensibilmente razzista,
da subito il piccolo Cassius Marcellus Clay capì che avrebbe dovuto lottare per
far valere i propri diritti, il carattere era già combattivo ma il pugilato
ancora lontano.
Tutto iniziò con una bicicletta rubata e molte
cose per cui valeva la pena fare a pugni nella vita. Agitava le braccia per la
strada urlando contro il ladro come avrebbe fatto anni dopo sul ring sbraitando
contro una montagna di muscoli finita al tappeto alla settima ripresa :”Alzati vigliacco, alzati, combatti”
urlava l’allora Cassius Clay il pugile ragazzino che rea dato 1 a 7 contro Sonny
Lyston, ubriacone, avanzo di galera controllato dalla mafia e campione dei pesi
massimi da due anni.
Fu un poliziotto, tale Joe Martin, che ne intuì le
possibilità, o quanto meno ne indirizzò l’esuberanza caratteriale portandolo in
una palestra. Fu l’inizio della leggenda.
Cassius Clay, sul ring, in quel piccolo, grande
mondo racchiuso tra le dodici corde, trovò la sua dimensione, il talento
sbocciò, dando anche modo di esprimere attraverso esso la sua protesta, di far
sentire la sua voce. Il fisico lo portò a combattere nei pesi medio massimi
prima e massimi dopo ma, nonostante la categoria «pesante», egli impostò il suo
pugilato sull’agilità e la leggiadria dei movimenti. “Vola come una farfalla, pungi come un’ape” fu il mantra coniato da
un suo secondo, Drew Brown, che accompagnò la prima parte della sua carriera
che lo portò fino alla nazionale olimpica statunitense che partecipò ai Giochi
di Roma del 1960, vincendo l’oro e facendosi conoscere al mondo. Sembrò una
vittoria che potesse schiudergli le porte di una vita sportiva “normale”, in
realtà il colore della sua pelle continuava ad essere fonte di discriminazione,
tanto da indurlo, in un moto di rabbia dopo che un cameriere bianco si era
rifiutato di servirlo, a gettare nel fiume Ohio la sua medaglia olimpica,
ritenendo inutile vincere per quel paese che ancora non gli riconosceva equi
diritti.

Diventò seguace di Malcolm X, e come lui si
convertì all'Islam, come lui dichiarò che il suo nome era un nome da schiavo e
da allora si fece chiamare Mohammed Alì e predicò la superiorità della razza
nera in università e college, attirando su di sé gli sguardi straniti e ostili
dell’America.
In un periodo in cui ai neri afro-americani veniva
concesso qualcosa nel mondo dello spettacolo e nello sport a condizione che si
adattassero alle condizioni dei bianchi tenendo la bocca chiusa, Alì la sua non la
chiuse mai; la usò sempre per accusare il potere e le ingiustizie sociali,
specialmente quelle contro gli afro-americani. Mai una banalità, ma un continuo
bersagliare il perbenismo di una certa America, conservatrice. Diceva “Io sono l’America, quella parte di voi che
non conoscete: nero e impertinente.”
La sua protesta continuò, clamorosa, quando fu
renitente alla leva, rifiutando di andare a combattere in Vietnam; “Sei pronto ad andare in guerra?” gli
chiese un giornalista; “A nessuna condizione
andrò in guerra. Non ho niente contro i Viet Cong, nessuno di loro mi ha mai
chiamato negro...” fu la sua risposta. Non una frase ad effetto, ma una
coraggiosa scelta di coscienza che gli costò il ritiro della licenza di boxeur (che
poi gli verrà restituita nel 1970), la perdita del titolo negli anni sessanta e
una condanna a 5 anni di reclusione (diventati poi 3 per un errore nel
processo), ma guadagnando il sostegno di tutti i movimenti contro la guerra.
Scontati quegli anni, nessun’arena volle farlo
combattere, anche perché Muhammad Alì aveva cominciato a prendere a pugni l’America
razzista, come fecero Martin Luther King e Malcom X.
Quando finalmente ritornò sul ring risorse come un’araba
fenice diventando quel campione che tutti conosciamo.

Nel 1981 su ritirò e tre anni dopo dopo scoprì d’avere
il morbo di Parkinson, la malattia che col passar degli anni gli tappò le sue
ali e gli spezzò il suo pungiglione. All’inizio aveva cominciato a combatterla
con la stessa forza e con la stessa passione con cui aveva lottato per oltre
venti anni sul ring, dedicando la sua vita alla solidarietà ed alle iniziative
umanitarie, schierandosi sempre in prima linea per la difesa dei diritti civili.
Muhammad Alì era stato a Bagdad da Saddam per
scongiurare una guerra che Bush stava già preparando, e poi in Sud Africa per
festeggiare un altro che aveva preso a pugni i pregiudizi e le ingiustizie: il
suo amico Nelson Mandela.
Era leggero come una farfalla, pungente come
un’ape, Muhammad Alì nato Cassius Clay, combattente sul ring e nella vita.