Parliamo di
ridefinizione perché siamo preceduti da una definizione della conflittualità
storica, alla quale nel periodo pre-imperiale si rapportava ogni destino: la
lotta di classe. Questa definizione non è più operativa. Essa condanna alla
paralisi, alla malafede e alla chiacchiera. Nel corso di un’altra epoca, non si
può scatenare alcuna guerra, nessuna vita può essere vissuta. Per continuare la
lotta, oggi, occorre liquidare la nozione di classe e, con essa, tutto il corteo
di origini certificate, di sociologismi rassicuranti, di protesi identitarie.
La nozione di classe, oggi, può servire tutt'al più a sciacquettare nel
bagnetto di nevrosi, separazione e accusa continua con il quale, ci si diletta
così morbosamente e da così tanto tempo in tutti gli ambienti della
intellighenzia chic.
La
conflittualità storica non oppone più due ammassi molari, due classi, gli
sfruttati e gli sfruttatori, i dominanti e i dominati, i dirigenti e gli
esecutori, tra i quali è possibile collocare ogni caso individuale. La linea
del fronte, che non passa più nel bel mezzo della società, passa ormai nel bel
mezzo di ciascuno, tra ciò che fa di ognuno un cittadino, i suoi predicati e il
resto. Inoltre, in ogni ambiente si scatena la guerra tra la socializzazione
imperiale e ciò che fin d’ora le sfugge. Un processo rivoluzionario può avere
inizio da qualunque punto del tessuto biopolitico, da qualunque situazione
singolare, accentuando fino alla rottura la linea di fuga che l’attraversa.
Nella misura in cui intervengono tali processi, tali rotture, c’è un piano di
consistenza comune, quello della sovversione anti-imperiale.
Ciò che fa la
generalità della lotta è lo stesso sistema di potere, tutte le forme di
esercizio e di applicazione del potere.
Far parte di un
movimento rivoluzionario significa a grandi linee fissare le forme di vita
nella loro diversità, intensificare, rendere più complesse le relazioni,
elaborare tra noi nel modo più libertario possibile la distruzione di questa
società.