
È una guerra su più fronti, che si
coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma parla
il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della repressione.
Gli stessi militari delle guerre in
Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia,
sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa.
Guerra esterna e guerra interna sono due
facce delle stessa medaglia. L’armamentario propagandistico è lo stesso. Le
questioni sociali vengono narrate nel lessico dell’ordine pubblico.
Hanno applicato nel nostro paese teorie
e tattiche sperimentate dalla Somalia all’Afganistan.
La separazione tra guerra e ordine
pubblico, tra esercito e polizia è sempre più impalpabile. L’alibi della difesa
dei civili è una menzogna mal mascherata di fronte all’evidenza che le
principali vittime ed obiettivi delle guerre moderne sono proprio i civili.
Civili bombardati, affamati, controllati, inquisiti, stuprati, derubati. Poi
arriva la “ricostruzione”, la creazione di uno stato democratico fantoccio
delle truppe occupanti, l’organizzazione di esercito, polizia, magistratura
leali ai nuovi padroni. È la prosecuzione con altri mezzi della guerra. Se non
funziona, come in Afganistan, in Libia, Somalia, Iraq e in Siria, gli Stati
Uniti e i loro alleati si ritrovano recalcitranti e far guerra al mostro che
hanno partorito, nutrito, fatto crescere.
La guerra diventa filantropia
planetaria, le bombe, l’occupazione militare, i rastrellamenti ne sono lo
strumento. Il militare diventa poliziotto ed entrambi sono anche operatori
umanitari.
Nel centesimo anniversario della prima
guerra mondiale, un massacro da 16 milioni di morti, si spreca la retorica.
Garrire di tricolori e militari nelle scuole al posto degli insegnanti di storia
per reclutare nuovi mercenari per le guerre dell’Italia.
Non una parola sulle esecuzioni
sommarie, le decimazioni dei soldati, gli stupri di massa, le migliaia di
disertori.
Oggi, chi mette in discussione la
sacralità di confini che segnano il limite degli stati, chi irride il
militarismo, chi brucia il tricolore, finisce in tribunale. Si concluderà il 19
dicembre il processo a 17 antimilitaristi accusati di vilipendio alle forze
armate e al tricolore.
Chi uccide in divisa, chi massacra è
considerato un eroe, chi diserta le guerre, chi si fa beffe dei militari, delle
frontiere e delle bandiere è, a ragione, trattato da sovversivo.
La testimonianza, la rivolta morale non
basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.
Negli ultimi anni l’opposizione alla
guerra qualche volta è riuscita a saldarsi con l’opposizione al militarismo: il
movimento No F35 a Novara, i No Tav che contrastano l’occupazione militare in
Val Susa, i no Muos che si battono contro le antenne assassine a Niscemi. Anche
nelle strade delle città, dove controllo militare e repressione delle
insorgenze sociali sono la ricetta universale, c’é chi non accetta di vivere da
schiavo.
Le radici di tutte le guerre sono nelle
industrie che sorgono a pochi passi dalle nostre case. Chi si oppone alla
guerra senza opporsi alle produzioni di morte, fa testimonianza ma non
impedisce i massacri.
Nella nostra regione ci sono tante
fabbriche di morte. La più importante è l’Alenia, uno dei gioielli di
Finmeccanica. Alenia costruisce gli Eurofighter Thypoon, i cacciabombardieri
made in Europe, e gli AMX. Le ali degli F35, della statunitense Loockeed
Martin, sono costruite ed assemblate dall’Alenia. Un business milionario. Un
business di morte.
Per fermare la guerra non basta un no.
Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in
cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi,
uomini armati che pattugliano le strade.
Mettiamo sabbia nel motore del
militarismo!
Spezziamo la retorica di guerra! Nelle
nostre piazze ci sono statue di bronzo e pietra che celebrano assassini in
divisa, uomini la cui virtù era ammazzare.
Costruiamo insieme un monumento ai disertori di tutte le guerre!
Boicottiamo il 4 novembre