L'inferno
Dopo questo, a togliere definitivamente ogni illusione, vennero i
trenta giorni di mare, sulla nave-galera che lo portava al bagno della Guyana.
Suoi compagni di sventura erano ladri, assassini, bruti senz'anima figli
dell'abiezione, della miseria, dell'ignoranza: Lebou, condannato a vita per
avere bruciato sua madre; Faure, che per questioni di interesse squartò il
fratello e lo diede in pasto ai maiali; Menetier, che aveva ucciso due vecchie
per violentarne i cadaveri; ed altri tutti degni prodotti della società che li
aveva generati. Questa umanità spaventosa veniva schierata tutte le mattine sul
ponte per l'ispezione, fra il ludibrio, le volgarità, i commenti idioti della
ciurma, dei secondini, dei passeggeri civili. Duval non era uomo da sopportare
tale trattamento. Alla prima occasione si ribellò, rispondendo per le rime alle
provocazioni, ed ebbe così un altro assaggio della sorte che lo attendeva al
penitenziario: nudo come un verme, fu sbattuto per due giorni, in una cella
piena d'acqua, in cui non poteva star ritto perché troppo bassa, né si poteva
allungare perché troppo stretta. La repressione nella repressione. La Guyana
era veramente un inferno, un abisso immondo di violenza e depravazione, reso
ancora più intollerabile dal clima tropicale umido e caldissimo. Laggiù, l'idea
ipocrita che la galera possa servire all'espiazione e al ravvedimento, trovava
a quei tempi la più tragica delle smentite. La Guyana era sinonimo di lavoro
forzato, di ferri alle caviglie, di cibo putrescente, di celle di punizione, di
insetti brulicanti, di scorbuto, amebiasi, dissenteria. Redenzione? Al bagno,
gli uomini perdevano la salute, la dignità, morivano di stenti e di malattie,
marci nel corpo e nel cuore, avviliti, spezzati, violentati, ridotti loro
malgrado allo stato di animali. I delinquenti più feroci ottenevano qualche
squallido privilegio con la prepotenza, a spese dei propri stessi compagni. I
più cinici barattavano la simpatia dei guardiani con il servilismo, la
delazione. I più deboli subivano. Il penitenziario era l'immagine, peggiorata e
pervertita, di tutti i vizi, di tutte le miserie, di tutte le sopraffazioni
proprie della società che l'aveva prodotto. Proprio per quello, quelli che non
erano piegati prima, quand'erano in libertà, non accettarono di piegarsi adesso
che si trovavano in una società più feroce, ma non dissimile dall'altra. Duval
(e in genere tutti gli anarchici che finirono al bagno) non fece eccezione. La
storia della sua permanenza nell'isola maledetta è la storia della sua
fierezza, della sua irriducibile volontà di lotta, del tentativo costante di
non perdere la sua misura d'uomo, di non precipitare anche lui nel baratro di
turpitudine che aveva di fronte. E ci riuscì. Si opponeva ai taglieggiamenti
dei guardiani, insorgeva contro le ingiustizie, aiutava i compagni più
sfortunati, smascherava le spie e i provocatori. I secondi più crudeli, i
direttori inebetiti dall'assenzio, le canaglie, gli assassini, i bruti
senz'anima che popolavano il penitenziario, impararono a tributargli una sorta
di rispetto, certo degno di un ambiente migliore, in cui l'ammirazione per la
rettitudine si mescolava al timore per la durezza della sua scorza. Un rispetto
meritato, se si pensa al prezzo che dovette pagare per ottenerlo.
La rivolta

La notte fra il 21 e il 22 ottobre 1895 scoppiò una rivolta
sull'isola, organizzata dal gruppo, abbastanza numeroso, di anarchici che si
trovavano allora al bagno. Fu una impresa senza speranze, compiuta più per
vendicarsi delle continue vessazioni cui erano sottoposti i compagni, che per
le vere possibilità di successo che presentava. Duval partecipò attivamente
alla sua preparazione, che fu lunga, controversa e laboriosa, ma al dunque
dovette rinunciare a dare il suo apporto attivo perché mandato in un altro
luogo per punizione. Fu, tutto sommato, una fortuna. Infatti, l'Amministrazione
penitenziaria messa sull'avviso dalle delazioni di un paio di traditori, aveva
deciso di cogliere l'occasione per sterminare l'intera colonia anarchica, fonte
continua di preoccupazioni per il carattere indocile dei suoi componenti. E
così fu. Appena i rivoltosi uscirono dalle camerate, trovarono ad attenderli i
fucili delle guardie. "Sangue freddo e senza quartiere" aveva raccomandato
il comandante Bonafai, capo del servizio di Sicurezza Interno, ai suoi uomini,
che per l'occasione erano stati ubriacati come maiali. Con un massacro
allucinante, gli anarchici Garnier, Simon, Leauthier, Lebault, Masservin,
Dervaux, Chevenet, Boesie, Mesueis, Kesvau, Marpeaux, furono sorpresi,
inseguiti, uccisi uno per uno senza pietà. L'indomani, i loro corpi crivellati
di colpi vennero gettati in mare, in pasto ai pescicani, mentre la Commissione
d'inchiesta, subito nominata, continuava la repressione, arrestando e mettendo
ai ferri tutti quelli su cui aleggiava anche il semplice sospetto di aver
aiutato i ribelli. Duval restò alla Guyana 14 anni. In questo tempo, tentò
l'evasione più di venti volte, cogliendo ogni occasione, con ogni mezzo: su
zattere di fortuna, su barche rubate o pazientemente costruite, clandestino
sulle navi in transito. Ogni volta qualcosa andava per traverso. Veniva preso,
scontava l'inevitabile punizione, e ricominciava. Se avesse rinunciato, dopo i
primi fallimenti, sarebbe morto in galera come tanti altri, roso dalla febbre o
ucciso da un guardiano. Invece, per la sua incapacità a rassegnarsi, si salvò.
Tenta e ritenta, un insuccesso dopo l'altro, finalmente venne la volta in cui
la fortuna girò per il verso giusto.
L'evasione
Il 13 aprile 1901, Duval, con otto compagni di pena, metteva in mare
un fragile canotto e si dirigeva silenziosamente verso il mare aperto. Era
notte fonda, e nessuna guardia si accorse dell'evasione fino al giorno dopo. I
deportati ebbero modo, così, remando di buona lena, di allontanarsi
indisturbati. Al mattino, issata la vela, fecero rotta verso nord-est, per
uscire dalla giurisdizione francese. Una nave da guerra li incrociò, senza
mostrare il minimo interessamento, continuando per la sua strada. Un buon inizio.
Veleggiarono tranquilli per tutto il giorno sospinti da una brezza leggera. Al
timone stava un mozzo, ottimo marinaio, la cui esperienza nautica contribuiva a
tenere alto il morale degli evasi. Ma alla sera, il tempo si guastò. La brezza
divenne ben presto un uragano capace di sollevare ondate gigantesche, che
riempivano di acqua la barchetta, costringendo gli uomini ad un continuo
angoscioso lavoro di svuotamento. Per di più, il mozzo a causa della mancanza
di vitamine (retaggio del regime alimentare del penitenziario), di notte
perdeva completamente la vista e la sua abilità diventava ben poca cosa senza
l'aiuto degli occhi. Fu una notte d'inferno, in cui più volte corsero il
rischio di finire ai pescecani. Il mattino dopo, le condizioni atmosferiche migliorarono,
quelle del mozzo anche, e in breve tempo Duval e i suoi compagni giunsero in
vista della terra. Era la zona di Paramaraibo, nella Guyana Olandese. Cioè
fuori dalle grinfie dell'Amministrazione penitenziaria. Il più era fatto. Anche
così, però, gli evasi erano in pericolo. Come galeotti fuggitivi, potevano
essere incarcerati dalla polizia olandese. Se la Francia l'avesse saputo,
potevano venire estradati e internati nuovamente nell'isola maledetta.
L'Odissea non era ancora finita. Sarebbe durata due anni. Sempre sotto falso
nome, sempre allerta per non venire scoperto, sempre in lotta con la fame e con
le autorità, costretto ai lavori più umili e miserabili, Duval passò nella
Guyana inglese, poi, da lì nella Martinica, giungendo infine a Porto Rico. Qui
si fermò un poco, rimettendo in sesto la salute malandata e ricostruendosi un
embrione di vita normale. Il 16 giugno 1903 si imbarcò per gli Stati Uniti, con
la prospettiva di un'esistenza perlomeno libera. La deportazione era ormai solo
un ricordo, anche se incancellabile.
(Fine)