..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

Translate

venerdì 20 luglio 2012

I fatti di Bronte, una indelebile macchia nella storia d’Italia

Rivisitare in chiave esaustiva, pur se critica, determinati periodi della storia contemporanea, specie quelli attinenti l’unificazione dell’Italia sotto l’infausta monarchia sabauda, non può che fare bene alla coscienza del popolo, in generale, e delle giovani generazioni che stanno oggi avviandosi verso una difficile crescita, in particolare.

Fra i tanti avvenimenti che, da un secolo e mezzo circa a questa parte, hanno segnato l’evolversi del quadro politico nazionale e istituzionale, non possono essere dimenticati i tragici “fatti di Bronte”.

La risaputa tragedia accadde nell'agosto del 1860, l'anno in cui la Sicilia, mediante uno strumentale quanto controverso “plebiscito”, fu annessa (21 ottobre 1860) al Regno Sardo Piemontese di Vittorio Emanuele II e di Cavour. Non sarebbe male indagare, almeno in modo virtuale, sul come venne indetta e condotta la citata convocazione popolare che, alla luce dei fatti e in contrasto con ogni principio democratico, rappresentò un vero e proprio imbroglio elettorale. A prescindere dalla validità o meno dell’atto di annessione, sta di fatto che mai e poi mai può essere denominato “plebiscito” quella strana votazione cui furono ammessi solo gli “appartenenti alle classi nobiliari”, i “possessori di un titolo di studio superiore” e gli “agiati borghesi titolari di adeguati censi”, cioè meno del 20% della popolazione isolana di allora. È ampiamente dimostrato, in ogni caso, che, dopo la sceneggiata dell’annessione della Sicilia al nascente Regno d’Italia, i governanti sabaudi ben poco fecero per venire incontro alle necessità della vessata popolazione isolana e per colmare il divario economico, sociale e strutturale esistente nei confronti di parecchie altre regioni del nuovo Stato. Amareggia parecchio, a quest’ultimo proposito, la constatazione che fra la classe dirigente dell’epoca e del periodo immediatamente successivo, vanno annoverati parecchi siciliani, tre dei quali, Francesco Crispi, Vittorio Emanuele Orlando e Antonio Starrabba di Rudinì, ricopersero, in tempi diversi, addirittura l’incarico di “Capo del Governo”.

A parte ogni altra considerazione, i seguaci dell’avventura garibaldina in Sicilia dovrebbero essere collocati in una particolare luce storica che certo non è quella loro attribuita dai libri di testo: “garibaldini erano per chi voleva esaltarli e garibaldesi per chi li vituperava”, ha lasciato scritto Giuseppe Tomasi di Lampedusa nel suo impareggiabile “Il Gattopardo”! Il 14 maggio 1860, Garibaldi emanò il noto “proclama di Salemi”, mediante il quale rese noto, parecchio spavaldamente, di assumere la “Dittatura” dell’Isola in nome di Vittorio Emanuele II, fornendo così la dimostrazione che non era venuto in Sicilia per liberarla dai Borboni (che, alla fine, risulteranno addirittura meno dannosi e vessatori dei proconsoli di Casa Savoia) bensì per portare a compimento il prestabilito progetto di “annessione” del sud Italia alla monarchia piemontese, secondo i piani elaborati da Cavour. Quest’ultimo, peraltro, aveva candidamente dichiarato “…non solo di aver fino allora creduto che in Sicilia si parlasse arabo ma che di quest’isola ben poco conosceva, essendogli invece più familiare la storia dell’Inghilterra…”. Come dire che, “ignorando” la millenaria storia della Sicilia, non era affatto in grado di comprendere la realtà isolana e non poteva avere contezza di quali indispensabili interventi sociali fossero necessari e urgenti per lenire le sofferenze di un popolo oppresso e maltrattato. Anzi, nel predisporre gli atti per l’estensione delle normative giuridiche e amministrative piemontesi ai nuovi territori annessi, impartì drastiche disposizioni e frattanto avallò l’operato dei vari “despoti” militari e civili che erano subentrati al potere borbonico. Fu un susseguirsi di soprusi, di imposizione di nuove gravose tasse (destinate a risanare le finanze dello Stato sabaudo), di sfruttamento delle risorse isolane.

Tutto ciò, come già detto, è impossibile leggerlo nei testi scolastici o nelle tante “rinomate” enciclopedie, così come è del tutto improbabile trovare un qualsivoglia preciso riferimento ai lati oscuri dell’avventura garibaldina in Sicilia. È ben facile trovare, viceversa, esaltanti descrizioni della cosiddetta “spedizione dei Mille”, descrizioni che spudoratamente assegnano a Garibaldi la gloria (“l’Eroe dei due Mondi”), il coraggio combattivo (“qui si fa l’Italia o si muore”), lo spirito patriottico (“Maestà, consegno a Voi il Sud liberato” - incontro di Teano –).

Come anche da ciò si evince, la storia è fatta dai popoli ma sono i governanti e i vincitori delle battaglie che la raccontano (e per questo si dipingono come i buoni, mentre i cattivi sono sempre i perdenti che essendo tali non possono raccontare la loro versione dei fatti). Non sarebbe male, una volta per tutte, trovare il coraggio di fare emergere la verità storica evitando che si continui ancora ad insegnare alle nuove generazioni tante falsità, tante distorte nozioni, tante errate valutazioni degli avvenimenti e tante non veritiere informazioni su taluni controversi personaggi dell’epoca “risorgimentale”.

Concludendo questo breve antefatto è opportuno evidenziare che Garibaldi fu parecchio agevolato nella sua fortunosa “spedizione” dalle congrue assegnazioni finanziarie predisposte da Cavour (circa 8/milioni, in ducati d’oro e titoli bancari) che in parte servirono per “corrompere” i più diretti responsabili militari borbonici, fra cui il Gen.le Landi (comandante del settore occidentale della Sicilia) e il Gen.le Lanza, Luogotenente del Re, poi processato e condannato per il reato di alto tradimento. Non è da dimenticare, inoltre, l’appoggio che Garibaldi ricevette dall’Inghilterra mediante il sistematico schieramento delle sue navi da guerra a Marsala (durante lo sbarco), a Palermo (nei giorni dell’ignominiosa resa borbonica), a Milazzo (durante la strenua difesa di quella piazzaforte), a Messina (nel corso del traghettamento in Calabria), con l’evidente scopo di tenere a bada le unità della flotta napoletana che avrebbero potuto contrastare i movimenti delle camicie rosse garibaldine.

Quando l'11 maggio del 1860 il generale Giuseppe Garibaldi sbarcò con i Mille nel porto di Marsala, sapeva benissimo che, per chiudere con successo la sua impresa, gli sarebbe stato assolutamente necessario l'appoggio e la partecipazione attiva dei siciliani. Questo sarebbe avvenuto solo se fosse stato accolto non solo come il liberatore dalla tirannide borbonica, ma anche come colui che poteva dare le possibilità di nascere ad una nuova società, libera dalla miseria e dalle ingiustizie. Con questo intento, il 2 giugno, aveva emesso un decreto dove prometteva soccorso ai bisognosi e la tanto attesa divisione delle terre. Grazie a quel decreto come previsto molti “picciotti” siciliani si illusero e aderirono con entusiasmo alla spedizione spinti dal loro spirito rivoluzionario, per la voglia di libertà e di uguaglianza sociale, e dalla speranza di una equa distribuzione delle terre,

E che dire, infine, della sistematica e forzosa appropriazione (all’uopo presentata come “confisca”) delle risorse in denaro e titoli dei vari comuni “liberati” e delle disponibilità liquide di parecchi istituti di credito, fra cui il Banco di Sicilia di Palermo?

Per riprendere il discorso sui “fatti di Bronte”, va subito evidenziato che Garibaldi, con il decreto precedentemente citato del 2 giugno 1860, aveva promesso la “libertà” e aveva fatto intravedere ai contadini la certezza di spartire i vasti possedimenti terrieri del demanio locale e statale. Di tale insincera promessa si trova ampia conferma anche nei successivi “proclami”.

L’annoso problema riguardava, in particolare, la zona di Bronte, nell'entroterra siciliano sulle pendici dell'Etna dove si erano  accese molte speranze di riscatto sociale da parte soprattutto della media borghesia e delle classi meno abbienti, nel cui territorio ricadevano diversi grandi feudi e la contrapposizione era forte fra la nobiltà latifondista rappresentata dalla britannica Ducea di Nelson, proprietà terriera, e la società civile. Trascorsa la cruenta stagione del fallito tentativo insurrezionale del 1848-49, sorsero in Bronte due schieramenti che, nel tempo, si batterono con tenacia fra loro determinando profonde discordie fra gli abitanti. L’uno (i cosiddetti “comunisti” o “comunili”) difendeva i diritti del Comune, l’altro (i “ducali”) perorava, invece, gli interessi del pingue casato dei Nelson.

Ma il vero problema sociale di Bronte era costituito dalla numerosissima “sotto classe” dei braccianti agricoli (uomini, donne e ragazzi in età adolescenziale) che pur destinati a vivere nella più squallida miseria non erano tuttavia esentati dal versare gravosi e iniqui balzelli (fra cui le famose “decime”) all’amministrazione pubblica, ai feudatari e ai loro scagnozzi. Essi, solo apparentemente erano da considerare normali esseri umani, visto che erano costretti a vivere cibandosi di pane nero e raffermo, di acqua di cisterna, di bacche, radici e verdure. Le loro insalubri abitazioni erano parecchio simili agli antri dell’uomo delle caverne e per il loro lavoro dovevano accontentarsi di misere ricompense “in natura”, in “anticipi” o di poche decine di “monete di rame”. Le “giornate lavorative” (“..a iurnata”, da dove il detto “i iurnataru”) che davano diritto a tale compenso erano peraltro discontinue rispetto allo scorrere dell’anno e a mala pena raggiungevano i cento giorni effettivi.

Le magniloquenti e ambigue promesse del “dittatore” Garibaldi non si erano per nulla avverate e contadini e braccianti seguitavano a vivere in maniera del tutto grama e stentata. Nel periodo della semina (ottobre – novembre) e durante i periodi di zappatura (febbraio – marzo) lavoravano duramente in mezzo alle intemperie stagionali e nel freddo mentre poi, nel momento cruciale della mietitura (giugno –luglio), dovevano portare avanti la loro massacrante fatica sotto il sol leone. Era più che spiegabile il fatto che, alla fine, fossero oltremodo esasperati. Fu così che il 2 di agosto il malcontento raggiunse il culmine e si manifestarono le prime ribellioni ad opera dei “comunili” d’ispirazione socialista che avevano come personaggio locale di riferimento l’Avv. Nicolò Lombardo. Si verificarono i primi violenti tafferugli nel corso dei quali vennero incendiati parecchi edifici pubblici fra cui il Teatro e l’archivio comunale. A seguito dei cruenti scontri si ebbero a registrare sedici vittime fra civili, militari e notabili del luogo. Solo a tarda sera la folla accennò a placarsi ma lo spirito di rivolta non si spense e la forte tensione permase anche nei giorni successivi. La sommossa popolare di Bronte faceva peraltro eco ai tumulti antigaribaldini che tra giugno e luglio del 1860 avevano fortemente interessato le zone di Nicosia, Mistretta, Cerami, Regalbuto, Biancavilla, Centuripe, Randazzo, Maletto e in atri piccoli centri del centro Sicilia e del circondario dell’Etna. Era la naturale e istintiva protesta del “popolo dei reietti”, delusi dai suggestivi ma falsi proclami garibaldini. In cambio della libertà e della promessa assegnazione delle terre, la misera e tartassata “plebe” del diffuso bracciantato contadino, dei piccoli artigiani di paese, dei molti derelitti addetti ai lavori più infimi, avevano visto accentuarsi la miseria, determinata anche dalla imposizione di ulteriori sacrifici e tasse, a parte le sofferenze e i lutti per le imperversanti malattie. La misura era colma, la delusione e l’amarezza traboccavano dai loro animi, nessuno più osava avanzare speranze riguardo ai nuovi “invasori” mentre la rabbia montava a fronte dei patimenti e della fame. Ovunque si innalzava alta la protesta al grido di: “abbassu li cappeddi!”, “vulimu li terri!” –“abbasso i cappelli (nomignolo dato ai galantuomini brontesi) ”, “vogliamo le terre”-.

Il presunto “eroe dei due Mondi”, Garibaldi, dopo la forzata sosta in quel di Milazzo (ove aveva subito l’accanita reazione difensiva della guarnigione di quella piazzaforte, comandata dal Col. Beneventano del Bosco), era da pochi giorni giunto a Messina quando gli pervenne notizia di ciò che stava accadendo a Bronte. Ad informarlo era stato il ligio console inglese di Palermo il quale, parecchio preoccupato per le possibili azioni rivoltose che avrebbero potuto investire anche un loro possedimento denominato “Ducea di Nelson”, invitava Garibaldi a provvedere urgentemente all’invio di una forza militare sufficiente a difenderla, arrestando e condannando i “facinorosi”, quasi pretendendo per la “Ducea” un vero e proprio diritto di “extraterritorialità”. Tale pretesa era del resto chiaramente convalidata dal fatto che in essa (in pieno territorio siciliano) sventolava, da sempre e liberamente, la bandiera inglese. Analoga forte sollecitazione giunse reiteratamente e con alterigia anche dal collega console di Catania. Garibaldi, ovviamente, scelse la più facile fra le possibili soluzioni, quella legata all’uso della forza bruta. In funzione di tale avventata decisione ordinò a Bixio, in quel momento di stanza a Giardini, di partire alla volta di Bronte e di agire con durezza nei confronti dei rivoltosi. Garibaldi, per assecondare le mire di stampo colonialista di una frangia di quella stirpe inglese risaputamente avvezza alle usurpazioni, alle malversazioni, agli eccidi, oltre che alla tacita legittimazione della pirateria, aveva deciso, alla stregua di un servile giustiziere, di punire il popolo in rivolta che, tutto sommato, non chiedeva altro che di uscire dal tunnel della fame, della miseria e delle privazioni.

Per riportare l'ordine Nino Bixio giunse a Bronte alla testa di un battaglione di camicie rosse. È ormai assodato, attraverso l’approfondito esame della documentazione dell’epoca, che Garibaldi non inviò Bixio a Bronte solo per ripristinare una certa qual forma di ordine pubblico, ma fu mosso, al di fuori di ogni altra razionale considerazione, dalla esigenza di proteggere gli interessi dell’Inghilterra verso la quale si sentiva fortemente obbligato per avere favorito l’occupazione dell’Isola, oltre che con le già citate navi da guerra pronte a sparare sui borbonici, anche con il generoso sostegno finanziario elargito in moneta sonante e in oro. Come si chiama chi per denaro si presta a scopi che poco hanno in comune con la dignità e la morale?

Sarebbe prolisso, in questa sede, affrontare la dettagliata ricostruzione di ciò che avvenne in Bronte quando Bixio adottò le clamorose “ordinanze” che portarono all’arresto di centinaia di persone fra cui, oltre a parecchi dei presunti capi della sommossa, molti inermi e incolpevoli servi della gleba come, ad esempio, il povero demente tamburino Ciraldo Fraiunco. Il tribunale (impropriamente definito “di guerra”) celebrò il processo in poche ore ed emise, nella serata del 9 agosto, l’inappellabile sentenza che condannava a morte, pur in assenza di provate colpevolezze, Nicolò Lombardo, Spitaleri Nunzio Nunno, Samperi Nunzio fu Spiridione, Longhitano Nunzio Longi, Nunzio Ciraldo Fraiunco. Il fatto più ignobile fu quello che la delittuosa sentenza di morte fu emessa “in nome di Vittorio Emanuele II re d’Italia”. Va sottolineato, altresì, che, senza alcun rispetto per la dignità e la personalità dell’imputato, l'avvocato Nicolò Lombardo era stato accusato (personalmente da Bixio, nel suo ufficio installato presso il “Collegio Capizzi”) di essere il “presidente della canaglia di Bronte”.

Oggi, commemorando annualmente le vittime delle Fosse Ardeatine, tutti ritengono doveroso fare risaltare lo sdegno e la condanna per i colpevoli dell’inumana strage, ma chi mai dei governanti dell’Italia monarchica e post monarchica ha mai pensato di additare al medesimo sdegno i colpevoli dell’eccidio di Bronte ? Solo pochi sanno e ricordano che esso fu perpetrato, per ordine del “dittatore nizzardo”, da un improvvisato generale succube della follia omicida che contraddistingue le persone prive di umanità oltre che dei freni inibitori della coscienza.

Furono condannati dei civili che ancora non erano sudditi di quel Re piemontese che per pura ambizione dinastica aspirava a divenire Re di un’Italia unificata ma che, di contro, non riusciva ad impedire che si ammazzassero in suo nome, in un territorio che ancora non faceva parte del suo regno, uomini inermi e indifesi. L’indomani all’alba, senza neppure consentire ai parenti di avvicinare le incolpevoli vittime predestinate, la sentenza venne brutalmente eseguita in contrada “Piano San Vito” mediante fucilazione mentre Bixio, in sella al suo cavallo, assisteva impassibile alla scena. Mediante l’uso spregiudicato della violenza e assecondato dalle indiscriminate condanne a morte, sentenziate da un improvvisato e asservito “tribunale di guerra” che non aveva tenuto in nessun conto le arringhe della difesa, riteneva di avere vinto la sua battaglia ma non immaginava che, a sua volta, sarebbe stato inappellabilmente condannato dal mondo civile e dal tribunale della storia.

In tutta la sciagurata vicenda dei “fatti di Bronte”, il garibaldino Bixio, pur se a suo nome sono tuttora intitolate piazze e strade (di cui una proprio a Bronte), agì da vero sicario e dimostrò di essere incapace di provare qualsivoglia senso di pietà per i condannati. Ancora una volta manifestò tale sua perversa tendenza quando ordinò al comandante del plotone di esecuzione di sparare a bruciapelo al povero matto Nunzio Ciraldo Fraiunco che era miracolosamente sfuggito alle pallottole della prima scarica. Il poveretto aveva implorato “…grazia, grazia, la Madonna mi ha fatto la grazia, fatemela voi, grazia, grazia”, ma Bixio, insensibile a quel grido di dolore, fu inflessibile e, mediante un colpo alla nuca, la morte colse quell’infelice che aveva solo la colpa di avere portato in giro per Bronte un tamburo di latta, gridando Viva la libertà.

 

Filmografia: di Florestano Vancini,   Bronte - Cronaca di un massacro che i libri di storia non hanno raccontato (1972)