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mercoledì 11 giugno 2014

7 giugno 1914: la settimana rossa di Ancona

La Settimana Rossa è stata un moto insurrezionale durato una settimana (7-14 giugno 1914), durante la quale l’Italia parve avviarsi verso la rivoluzione sociale.
Nella penisola si era consolidato un blocco sociale formato da contadini, operai e ceto medio, di estrazione per lo più anarchica, socialista, sindacalista e repubblicana. Questa alleanza ideologica era tenuta assieme da un comune senso antimilitarista, dalla contrarietà all'impresa coloniale in Libia e dalla lotta contro le "Compagnie di Disciplina dell’Esercito" dove molti militanti, riconosciuti come rivoluzionari, venivano inviati a scopo “rieducazionale”.
In particolare due casi colpirono l’opinione pubblica:
  • quello del soldato anarchico Augusto Masetti, rinchiuso in un manicomio perché ferì con uno sparo il colonnello Stroppa mentre questi era intento a fare la morale patriottica ai soldati italiani in partenza verso la guerra colonialista in Libia
  • quello del soldato Antonio Moroni che venne torturato in una di queste Compagnie “rieducazionali” a causa delle sue idee antimilitariste.
Il 7 giugno 1914 si celebrava con una parata per le vie del centro l'anniversario dello Statuto Albertino; come in tutte le città d'Italia, era prevista una manifestazione contraria ai festeggiamenti, alla corona e all'esercito, per richiedere l'abolizione delle compagnie di disciplina, la liberazione di Masetti e Moroni. Lo scopo era quello di impedire la sfilata militare.
Ancona era all'epoca una città che aveva già avuto numerose esperienze di rivolte e sollevamenti popolari: dai moti del pane del 1898 agli scioperi del 1913. In quel periodo inoltre si assisteva alla creazione di un fronte comune di diversi movimenti e sindacati, uniti dall'antimilitarismo. L'opposizione alle politiche di guerra non era una lotta puramente ideologica. La missione in Libia impegnava moltissimi lavoratori, che venivano chiamati alle armi e, dopo aver abbandonato tutto, subivano una formazione militare che significava semplicemente disciplinamento e repressione, in un momento in cui una profonda crisi economica attraversa il paese, costringendo la popolazione ad emigrare.
Le forze di sinistra volevano trasformare quel giorno in "giornata antimilitarista":
Visto il divieto di manifestare, l'appuntamento per l'azione fu fissato a Villa Rossa (sede del partito Repubblicano, di indirizzo mazziniano). Dopo un comizio contro la guerra, e per la liberazione di Moroni e Masetti, comizio in cui parlarono Nenni per i Repubblicani, Palizza per i sindacalisti ed Errico Malatesta per gli anarchici e che infiammarono il pubblico, i manifestanti uscirono da Villa Rossa e subito incontrarono lo spiegamento delle forze dell'ordine, che impedivano l'ingresso alle vie del centro, schierate per difendere la parata militare celebrativa dello Statuto Albertino.
Scoppiarono dei disordini tra lavoratori anconetani (principalmente portuari e ferrovieri appartenenti a sindacati autonomi di indirizzo socialista ed anarchico) e forze dell'ordine, schierate per difendere la parata militare celebrativa dello Statuto Albertino. Al tentativo di forzare il blocco, i carabinieri risposero aprendo il fuoco e uccidendo Nello Budini di 24 anni, Attilio Giambrignani di 22 e Antonio Casaccia di 17.
Malatesta allora incitò gli anconetani alla rivolta (la città fu occupata per 7 giorni) che, partendo dalle Marche e dalla Romagna, si estese in quasi tutta Italia provocando numerosi scontri violenti con le forze dell’ordine.
Gli insorti allora fecero pressione sul "Sindacato dei Ferrovieri" affinché proclamasse lo sciopero generale, che effettivamente fu annunciato il 9 giugno (anche se in alcune regioni iniziò il 10).
Iniziò quindi uno sciopero selvaggio ad oltranza, continuarono gli scontri con le forze dell'ordine. Vennero assaltate le armerie, i lavoratori portuali e ferroviari bloccarono porto e stazione, rallentando l'arrivo di ulteriori militari chiamati come rinforzo, i palazzi pubblici vennero presi dai manifestanti: gli scontri si trasformarono in battaglia.
Ebbe inizio quella che passerà alla storia come la settimana rossa di Ancona.
Nei giorni successivi lo sciopero si espanse a macchia d'olio in tutta Italia, si ebbero violentissimi scontri nella Romagna, a Milano, Torino, Bologna, Firenze, Napoli, Palermo e Roma.
Intere zone della penisola sfuggirono al controllo dello stato, i comitati rivoluzionari cercarono di riorganizzare la vita nelle città in loro possesso. L'impronta fortemente antimonarchica e antimilitarista delle rivolte sembrarono mettere il paese sull'orlo della guerra civile. L'intervento dell'esercito arrivò, però, con una forza dirompente: il 10 i militari riuscirono a sbarcare ad Ancona.
Il 10 giugno la segreteria nazionale della "Confederazione Generale del Lavoro" (C.G.L), che pure aveva aderito allo sciopero generale, “ordinò” alle camere del lavoro la cessazione della mobilitazione.
Malatesta però incitò ancora alla prosecuzione dell'insurrezione e ad ignorare gli ordini della C.G.L:
«Si è fatto correr la voce che la Confederazione Generale del Lavoro ha ordinato la cessazione dello sciopero. La notizia manca di ogni prova, ed è probabile sia stata inventata e propagata dal governo [...] Ma fosse anche vera, essa non servirebbe che a marchiare d’infamia coloro che avrebbero tentato il tradimento. La Confederazione Generale del Lavoro non sarebbe ubbidita [...] E poi, ancora una volta, ora non si tratta più di sciopero, ma di RIVOLUZIONE. Il movimento incomincia adesso, e ci vengono a dire di cessarlo! Abbasso gli addormentatori! Abbasso i traditori! Evviva la rivoluzione!»
Alla fine però la C.G.L ebbe la meglio e di fatto fu la fine della rivolta, che però si protrarrà sino al 14 giugno. (La C.G.L sarà protagonista dello stesso “tradimento” dei lavoratori durante le occupazioni delle fabbriche del 1919-20).
Il 14 giugno, dopo ben 16 morti tra i rivoltosi, la situazione tornò definitivamente sotto il controllo dell'esercito. La settimana rossa resterà però un'esperienza rivoluzionaria importante, che fungerà da base per il biennio rosso e storicamente utile per avere uno spaccato di una Italia infuocata dal conflitto sociale, prossima alla prima Guerra Mondiale.
Durante questa settimana molti simboli delle autorità e della Chiesa furono attaccati: incendio al municipio di Alfonsine (Ravenna), distruzione della Chiesa di Villanova di Bagnacavallo, ecc.
«Cosa sono mai le violenze che tanto vi spaventano e che tanto orrore vi destano, di fronte alla somma di violenze che voi, tutto il giorno, tutto l'anno, perpetrate sulla pelle della povera gente, che uccidete o fate uccidere, o che depredate colle vostre leggi?»
(«Il Lamone», settimanale repubblicano, Faenza, 21 giugno 1914)

Scrisse Armando Borghi, a proposito del tradimento della CGL:
«...Ora, decisiva. Soldati e carabinieri non bastano più. La truppa è malsicura e intrasferibile. Ci voleva il soccorso dei socialisti e funzionò per essi la Confederazione Generale del lavoro di infame memoria».
La settimana rossa rafforzò in Malatesta la convinzione della fatale solidarietà e convergenza delle masse, nonostante le variegate posizioni di partito, nell'azione per uno scopo comune. Per lui però lo sciopero generale non era altro che semplicemente un mezzo per iniziare, ma solo per iniziare, la rivoluzione sociale.


Scritti di Malatesta sulla Settimana Rossa


“Non sappiamo ancora se vinceremo, ma è certo che la rivoluzione è scoppiata e va propagandosi. La Romagna è in fiamme, in tutta la regione da Terni ad Ancona il popolo è padrone della situazione. A Roma il governo è costretto a tenersi sulle difese contro gli assalti popolari; il Quirinale è sfuggito, per ora, all’invasione della massa insorta, ma è sempre minacciato.
A Parma, a Milano, a Torino, a Firenze, a Napoli agitazione e conflitti.
E da tutte le parti giungono notizie, incerte, contraddittorie, ma che dimostrano tutte che il movimento è generale e che il governo non può porvi riparo. E dappertutto si vedono agire in bella concordia repubblicani, socialisti, sindacalisti ed anarchici. La monarchia è condannata. Cadrà oggi, o cadrà domani ma cadrà sicuramente e presto. È il momento di mettere in opera tutta la nostra energia, tutta la nostra attività. Qualunque debolezza, qualunque esitazione sarebbe oggi non solo vigliaccheria, ma una sciocchezza. All’opera tutti, con tutte le forze disponibili.
La necessità del momento.
Poichè lo sciopero di protesta si è sviluppato in rivoluzione bisogna provveder alle necessità della rivoluzione. E prima di tutto (dopo l’attacco e la difesa contro le forze governative) bisogna provvedere all’alimentazione della cittadinanza. Bisogna che nessuno manchi di pane che nessun bambino manchi di latte, che gli ospedali siano forniti di tutto l’occorrente. Perciò le Camere del lavoro, le organizzazioni operaie ed i comitati di volontari prendano le misure necessarie perchè il servizio di approvvigionamento e di distribuzione proceda regolarmente e sufficientemente.
Noi non intendiamo, ora, abolire la proprietà individuale. ma pretendiamo che i proprietari, i negozianti, i venditori di tutte le specie non abusino della circostanza per strozzare la popolazione e pretendiamo che si provveda per conto del municipio, per conto della collettività a coloro che sono sprovveduti di ogni mezzo per comprare il necessario.
Il dazio è abolito, per volontà della popolazione, bisogna che quest’abolizione vada a vantaggio di tutti, e non già a profitto dei negozianti. La roba deve essere venduta al prezzo di prima, meno importo del dazio. Provvedano a questo i Cittadini stessi per mezzo della Camera del Lavoro, delle varie associazioni e dei comitati rionali di volontari. Ora non è più il caso di preoccuparsi se un barbiere, per esempio, ha servito o no un cliente, o se un trattore ha aperto o no la sua bottega. Ora non è più sciopero, è rivoluzione; e bisogna prov-vedere alle due prime necessità della rivoluzione: la difesa armata e l’alimentazione del popolo Cia-scuno faccia quello che può, non si sciupi la roba, nè il pane, nè le munizioni.
E si badi di non abusare di bevande alcoliche; perchè è tempo di tenere la testa a posto.
Si è fatto correr la voce che la Confederazione Generale del Lavoro ha ordinato la cessazione dello sciopero. La notizia manca di ogni prova, ed è probabile sia stata inventata e propagata dal governo collo scopo di gettare il dubbio in mezzo ai lavoratori ed arrestarne lo slancio magnifico. Ma fosse anche vera, essa non servirebbe che a marchiare d’infamia coloro che avrebbero tentato il tradimento. La Confederazione Generale del Lavoro non sarebbe ubbidita. Già si annunzia che le Camere del Lavoro di Milano e di Bologna si sono rivoltate agli ordini. La Camera del Lavoro di Ancona è autonoma. L’Unione Sindacale Italiana certamente non mancherà il suo dovere. I ferrovieri hanno quasi completamente arrestato il servizio, e le linee sono state manomesse in modo che non è possi-bile al governo di ripararle nel breve tempo che gli resta di vita. E poi, ancora una volta, ora non si tratta più di sciopero, ma di RIVOLUZIONE.
Il movimento incomincia adesso, e ci vengono a dire di cessarlo! Abbasso gli addormentatori! Abbasso i traditori! Evviva la rivoluzione!”

«Volontà» (17 giugno 1914)