
Nel trentesimo giorno dell’assedio di
Kobane era arrivata un piccola buona notizia: la bandiera dell’Isis era stata
strappata dalla collina conquistata dalle truppe del califfo.
Le frontiere con la Turchia sono
serrate. Le truppe di Erdogan chiudono in una morsa il valico di Suruc, per
impedire il passaggio di armi, aiuti, volontari.
Alcune centinaia di profughi, chiusi in
uno stadio, sono stati gasati per aver protestato, ed una sessantina è stata
deportata a Kobane, in zona di guerra.
In piazza Castello tanti sono gli slogan
contro Erdogan e la chiusura delle frontiere. “Erdogan terrorista” è il più
gettonato.
Lo striscione di apertura porta la
scritta “Ovunque Kobane, ovunque resistenza”.
La lotta della piccola città che resiste
è diventata un’urgenza per chiunque abbia a cuore la possibilità che l’esperimento
libertario del Rojava ha aperto.
L’Isis, Daesh come la chiamano i curdi,
non per caso vuole massacrare e ridurre in schiavitù gli abitanti.
Quello che è stato costruito a Kobane e
nel Rojava è la dimostrazione che esiste una possibilità di creare relazioni
politiche e, in parte, anche sociali, laiche, libertarie, solidali. Non è
l’anarchia, ma certo non è poco.
In piazza colpisce la straordinaria
serietà dei bambini che portano un cartello, fanno la V con le dita, salutano.
Alcune bambine e ragazze portano uno striscione in solidarietà con le donne che
combattono a Kobane, le YPJ.
Nei tanti interventi la consapevolezza
che in quell’angolo a cavallo tra tante frontiere sta capitando qualcosa che ci
riguarda tutti.
Il presidio si trasforma in corteo,
attraversando la centralissima via Po per raggiungere la RAI, sostarvi a lungo
e poi tornare in piazza per una danza collettiva, un affermazione di vita
contro le armate feroci del califfo.