Renzi ha calato le sue carte. Carte
pesanti che incideranno nel profondo nella carne viva di chi, per vivere, deve
lavorare.
Il vertice sul lavoro convocato proprio
a Torino – dove i numeri dei disoccupati, dei precari, dei senza casa, dei
senza futuro – non sono statistica ma innervano il tessuto sociale,
attraversando le vite dei più, è uno schiaffo a mano aperta a tanta parte della
nostra città.
Le reti familiari, smagliate e
indebolite, non ce la fanno più a reggere il peso della solidarietà sociale,
sempre forte, nonostante l’appeal degli slogan del Presidente del consiglio.
Il suo gioco è volgare ma abile. Dopo
decenni di erosione di libertà, quei pochi che ancora ne godono possono essere
dipinti come “vecchi” privilegiati. Chi è nato precario, chi a trent’anni ha
una laurea e risponde al telefono, chi a 29 si ritrova ad essere un apprendista
licenziato per sempre, non ha mai conosciuto le tutele dell’articolo 18.
Dopo aver demolito un sistema di
garanzie costruito in decenni di lotte – quando l’ammortizzazione del conflitto
era l’unico modo per contenere la lotta di classe – oggi il PD targato Renzi,
sta chiudendo gli ultimi conti, cercando di contrapporre i figli disoccupati ai
padri costretti a lavorare sino alla tomba.
E’ la fine di ogni finzione
socialdemocratica. I figli della crisi stanno imparando ad attraversarla,
agendo forme di conflitto che provano a di ri-definire un terreno di lotta che
getti la questione sociale nel tessuto vivo delle nostre città. Una strada
ancora in salita in cui la violenza della polizia si intreccia con la
rassegnazione di tanti. Ancora troppi.
Il movimento di lotta per la casa, i
facchini che bloccano i gangli della circolazione delle merci, ultimo nodo
materiale, nella smaterializzazione e parcellizzazione delle produzioni e dei
contratti, sono i segni – per ora ancora troppo deboli – di un agire che si
emancipa dal piano meramente rivendicativo e scende sul terreno della
riappropriazione diretta.
La crisi e la macelleria sociale che ci
è stata imposta ci offrono possibilità inesperite da lungo tempo, seppellite
nelle pieghe della memoria della lotta di classe, dello scontro con la
struttura gerarchica della società e della politica.
La perdita irreversibile di un ampio
sistema di garanzie e tutele, la fine dello scambio socialdemocratico tra
sicurezza e conflitto, potrebbe offrirci nuove possibilità.
La retorica dell’antipolitica, il
populismo più becero, la paura del grande complotto, alibi per le destre di
ogni dove, comunque si coniughino nella geografia dei giochi parlamentari,
seducono sempre meno, mostrando una trama già logora
Il sindacalismo di Stato, la CGIL, la
CISL e la UIL, sono nel mirino del rottamantore: quando la repressione prende
il posto della concertazione, il grande corpo flaccido del sindacato
statalizzato deve rassegnarsi ad una secca perdita di status, pena la fine dei
lucrosi spazi di cogestione che gli sono stati regalati negli ultimi vent’anni.
Camusso che minaccia lo sciopero generale ma organizza una passeggiata romana,
è come il pastore che grida al lupo quando le pecore sono già morte tutte.
Sempre meno lavoratori si rassegnano al
recinto del sindacalismo di Stato, saltando lo steccato.
Gli scioperi tardivi della Fiom non
devono farci dimenticare che il precariato e il caporalato legale, sono stati
sdoganati con gli accordi del 31 luglio 1993 e del 3 luglio 1994. I vent’anni
di tabula rasa di diritti e tutele che sono seguiti li hanno sempre visti in
prima fila.
Negli ultimi anni abbiamo assistito al
moltiplicarsi di reti territoriali, che intrecciano legami solidali nella
pratica quotidiana, nella relazione diretta, nella costruzione di percorsi di
esodo conflittuale dall’istituito.
La scommessa è costruire nel conflitto,
fare dell’esodo, della fuoriuscita dalla morsa delle regole del capitalismo e
dello Stato, il punto di forza per l’estendersi delle lotte.
Uno spazio pubblico strappato alla
delega democratica, che in alcune occasioni si è creato nelle lotte per la
difesa del territorio, è stato laboratorio di idee e proposte radicali.
Aumentano coloro che riconoscono l’incompatibilità tra capitalismo e salute, tra
capitalismo e futuro, offrendo spazi all’emergere di un immaginario, che mette
all’ordine del giorno, come necessità di sopravvivenza, la rottura dell’ordine
della merce.
Le lotte contro gli sfratti e per
l’occupazione di spazi vuoti spesso non si limitano a cercare di sottrarre
alcuni beni al controllo del mercato, ma negano legittimità alla nozione stessa
di proprietà privata.
La fine delle tutele apre uno spazio –
simbolico e materiale – per riprenderci le nostre vite, sperimentando i modi
per garantir(ci) salute, energia, cura degli anziani e dei bambini fuori e
contro il recinto statuale. La scommessa è tentare percorsi di autonomia che ci
sottraggano al ricatto del “peggio”, ai processi di servitù volontaria (leggi,
ad esempio, lavori/tirocini/stage non pagati etc.), alla continua evocazione
dell’apocalisse che abbatte chi non segue i diktat della politica nell’epoca
del liberismo trionfante, della finanza anomica, della logica del fare per il
fare, perché chi fa mette in moto l’economia, fa girare i soldi, “crea”
ricchezza.
Sappiamo che questa logica “crea” solo
macerie.
Lasciamo che Renzi e i suoi le spalino,
noi abbiamo un mondo nuovo nei nostri cuori, nelle nostre teste, nelle nostre
braccia.
(Questo
il testo della Fai torinese distribuito in piazza il 18 ottobre, nell’ultimo
giorno del vertice dei ministri del lavoro del Consiglio d’Europa. In una
Torino ancora militarizzata, nonostante il summit al Regio si fosse concluso da
qualche ora, hanno sfilato circa 500 persone. La manifestazione, partita dal
palazzo delle facoltà umanistiche, è arrivata a piazza Castello per concludersi
al Balon, nel piazzale della mongolfiera.)