..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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mercoledì 29 ottobre 2025

La consapevolezza che strappa l’essere al sembrare

 

Il processo rivoluzionario non potrà avere mai più i tratti esclusivi della guerra civile, i tratti della Comune di Parigi o della Mackhnovicina. Ma è sempre più probabile che la produzione «in vitro» della guerra civile, lo spettacolo speciale pirotecnico e sensazionale del terrorismo teleguidato, ottenga un relativo successo, e di conseguenza un relativo coinvolgimento di una parte del proletariato rivoluzionario nella sua pratica alienata. E proprio attraverso l'esperienza vissuta di questa alienazione, apparirà sempre più chiaro il necessario passaggio alla fase ultimativa del processo: la disgregazione attivamente perseguita, la liquidazione «armata (con tutte le anni necessarie) dell'universo concreto in cui il capitale assolutamente dominante realizza la propria valorizzazione. La vera guerra civile si scatena a partire dall'interno di ogni essere: nella maturazione accelerata «di una consapevolezza che strappa l’essere al sembrare, il vero all'apparente, la realtà in processo alla rappresentazione in dissolvimento, una consapevolezza che rifiutando insieme l'essenza selvaggia della guerra e l'essenza mortifera della «civiltà» superi entrambe nell'affermazione «incivile» della propria assoluta estraneità al mondo delle apparenze, e che lo combatte per liquidarlo concretamente una volta per sempre. La lotta sarà armata, perché si seppelliscano per sempre gli strumenti di morte. Distinguere i rivoluzionari armati dai sicari della falsa guerra sembrerà talvolta difficile, ma lo sembrerà soltanto, e non alla dialettica radicale: il corpo proletario della specie si è riconosciuto istantaneamente nei fatti di Detroit, di Danzica, di Stettino, e altrettanto istantaneamente si riconoscerà nei tratti inconfondibili delle insurrezioni vitali. (Cesarano-Collu: Apocalisse e rivoluzione 1973)

domenica 26 ottobre 2025

Ecologia

 

Il termine ecologia è un vocabolo piuttosto recente, coniato in Germania nel 1866 dal naturalista tedesco Ernst Haeckel che definisce l'ecologia come “lo studio delle relazioni degli organismi in un ambiente”. L'ecologia è dunque una disciplina scientifica, branca della biologia, sviluppatasi a fine Ottocento e consolidatasi definitivamente nei primi decenni del XX secolo e incentrata su quello che è stato definito lo studio delle interazioni tra esseri viventi e non viventi negli ambiti terrestri conoscibili. L'ecologismo non è un sinonimo di ecologia e non va confuso con essa. Esso si sviluppa in seguito all'aumento della consapevolezza della crisi ambientale contemporanea più o meno verso la metà degli anni sessanta, come conseguenza di alcuni gravi disastri ambientali. Per l'Italia emblematico è il disastro di Seveso del 10 luglio 1976, con la nube tossica di diossina sprigionatasi dopo un'esplosione al reattore chimico dell'ICMESA, annoverato nella triste classifica degli otto disastri ambientali più gravi causati dall'essere umano – per capirsi nella lista è appena sotto al disastro di Bhopal e di Chernobyl. Negli anni si sviluppano diversi movimenti ecologisti, alcuni dei quali si istituzionalizzeranno e daranno vita – soprattutto in Europa – ai partiti verdi che conosceranno un'ampia affermazione politica negli anni ottanta e che oggi sono spesso in netto declino. Ricordare ciò ci permette di porre in evidenza come l'ecologismo non sia omogeneo né per gli scopi che si prefigge né per le metodologie di contestazione. Per questo motivo un discorso a parte merita il rapporto esistente tra ecologismo e anarchismo. Innanzitutto bisogna dire che gli anarchici hanno spesso contribuito alla realizzazione e alla crescita del movimento ecologista sin dai suoi albori se non prima. Tra i precursori dell'ecologismo in ambito libertario e anarchico è possibile sicuramente ricordare, per fare degli esempi, Henry Thoreau con la sua volontà di ritornare alla natura; Peter Kropotkin che vedeva nella natura le prove della validità del mutuo appoggio e della cooperazione ed Elisée Reclus il quale arrivava a scrivere che “l'uomo è la natura che prende coscienza di sé”, autore inoltre di un saggio sul vegetarianismo. Per quanto riguarda invece nello specifico l'anarchismo verde o ecologismo anarchico, anch'esso – come tutto l'ecologismo – prende piede a partire dagli anni settanta e, sebbene si differenzi in varie tendenze, presenta alcune caratteristiche comuni quali la constatazione della crisi ecologica, il rifiuto del riformismo, l'antiautoritarismo, la critica all'antropocentrismo e l'opposizione al dominio umano sulla natura. Nonostante tali caratteristiche comuni, è evidente che l'arcipelago di gruppi, movimenti e giornali che operano nel campo ecologista anarchico è complesso e vario, ciascuno con metodologie e pratiche diverse. L'ecologismo anarchico si dirama infatti in varie tendenze, sviluppatesi soprattutto nei paesi di lingua anglosassone ma giunte in gran parte anche in Italia, tra cui l'ecologia sociale, la decrescita, il primitivismo e l'anticivilizzazione, l'antispecismo.

giovedì 23 ottobre 2025

Il tempo è denaro

 

Nell’esatto momento in cui la rivoluzione industriale ha richiesto una maggiore sincronizzazione del lavoro, nasce l’esigenza dell’orologio. Il piccolo congegno che regola i nuovi ritmi della vita industriale rappresenta allo stesso tempo uno dei bisogni più urgenti tra quelli indotti dal capitalismo per stimolare il proprio progresso. Così scopriamo, il senso del tempo nel suo condizionamento tecnologico e con il calcolo del tempo, il mezzo di sfruttamento del lavoro. Con la divisione del lavoro, la sorveglianza della manodopera, le multe, le campane e gli orologi, gli incentivi in denaro, le prediche e l’istruzione, la soppressione delle feste e degli svaghi, vengono plasmate le nuove abitudini di lavoro e viene imposta la nuova disciplina del tempo. E allorché viene imposta la nuova “disciplina del tempo”, gli operai iniziano a combattere non contro il tempo, ma intorno ad esso. La prima generazione di operai di fabbrica viene istruita dai padroni sul valore del tempo; la seconda generazione forma le commissioni per la riduzione d’orario nell’ambito del movimento delle dieci ore; la terza generazione sciopera per lo straordinario come tempo retribuito in modo maggiorato del 50 per cento. Gli operai hanno accettato le categorie dei propri padroni e hanno imparato a lottare all’interno di esse. Hanno appreso la lezione: “il tempo è denaro”.

lunedì 20 ottobre 2025

Il Manifesto del Melbourne Anarchist Club (1886)

 

Ai popoli dell’Australasia

Il Melbourne Anarchists’ Club rivolge il proprio saluto ai cittadini amanti della libertà di queste giovani colonie e si appella a loro per dare assistenza ai propri membri impegnati a rimuovere quel pubblico sentire e quelle pubbliche istituzioni che sono state trapiantate qui dall’emisfero settentrionale e che ritardano il progresso e il benessere sociali, e a mettere al loro posto i principi di Libertà, Uguaglianza e Fraternità!

Le finalità del Melbourne Anarchists’ Club sono:

1. Sostenere il pubblico interesse nelle grandi questioni sociali del momento, promuovendo in ogni modo possibile la ricerca; promuovere una libera discussione pubblica di tutte le questioni sociali; fa circolare e stampare testi che facciano luce sui mali presenti e sui metodi necessari per eliminarli.

2. Sostenere ed estendere i principi della fiducia in se stessi, dell’iniziativa e dello spirito di Indipendenza tra la gente,

3. Difendere e mantenere i principi di Libertà, Uguaglianza e Fraternità. Per Libertà noi intendiamo ‘la pari libertà di ciascuno, limitata solo dalla pari libertà di tutti’. Per Uguaglianza intendiamo ‘la pari opportunità di ciascun individuo. E per Fraternità intendiamo ‘il principio che nega le distinzioni di nascita e di classe, afferma la Fratellanza tra gli Uomini e dichiara “il mondo è il mio paese”.

4. Auspicare e cercare di raggiungere l’abolizione di tutti i monopoli e di tutti i dispotismi che distruggono la Libertà dell’Individuo che in tal modo bloccano il progresso sociale e la prosperità.

5. Esporre e opporsi a quella colossale truffa che è il Governo, e sostenere l’Astensione dal Voto, la Resistenza alle Imposte, la Cooperazione Privata e l’Azione individuale.

6. Favorire la Fiducia reciproca e la Fraternità tra lavoratori di ogni categoria e rivolgere la loro attenzione ai comuni nemici: i Preti e i Politici, e ai loro coadiutori, attaccando i principi più che gli individui.

7. Invitare alla cooperazione di tutti coloro che hanno compreso il male innato delle istituzioni di governo, e auspicare la loro rapida dissoluzione per il beneficio generale dell’Umanità.

8. Promuovere la formazione di istituzioni volontarie simili al Melbourne Anarchist Club in tutta la colonia di Victoria e in quelle confinanti e, con il loro consenso, alla fine unirsi a loro per formare l’Australasian Association of Anarchists.

venerdì 17 ottobre 2025

E cos'è l'anarchia se non la vera libertà

"Anarchia è disordine, gerarchia è ordine sono per i più concetti che si equivalgono. Noi però differenziamo l'ordine naturale dall'ordine artificiale. L'attuale ordine di catene, nel quale una infinità di gerarchie grava con l'immane peso sulla collettività, plasmandone a suo posto, con i mezzi giganteschi che possiede, il pensiero, il sentimento, i costumi, il carattere; opponendosi con la autorità religiosa, politica, economica, giudiziaria, militare, scientifica, artistica allo svolgimento libero ed integrale dell'individualità umane; l'attuale ordine ci appare ed è realmente un tremendo disordine nell'ordine naturale. Di codesto ordine che è quiete, che è privilegio, che è servitù, non vogliamo saperne. Via le gerarchie che dall'alto di cento Sinai dettano leggi all'umanità intiera. Sparisca ogni autorità, perché in condizioni normali non ha ragione d'essere. Che le volontà individuali si manifestino liberamente nella collettività, armonizzino tra loro per la forza stessa dei bisogni comuni, si formulino nel seno della collettività, e da lei insieme trasmesse ai centri ed uffici esecutivi. Questo, che noi vogliamo applicato in ogni atto del vivere civile, è il vero ordine naturale, ed è ciò che noi, a significare negazione di governo, di autorità, di tutela, chiamiamo anarchia ... Prima ancora che la fisiologia ci dimostrasse l'essenza del pensiero, i fatti ci avevano insegnato essere la libertà l'atmo­sfera più favorevole all'umano intelletto. E cos'è l'anarchia se non la vera libertà, la libertà intera, completa, la quintessenza della libertà applicata non solo agli ordinamenti politici, ma altresì ad ogni atto della vita pubblica a privata? È tempo finalmente che gli uomini onesti prendano l'abitudine dell'anarchia, esercitando la tolleranza ed il rispetto verso l'altrui libertà. Sparisca dunque, il sacro orrore per l'anarchia, sinonimo di disordini, e cada l'accusa ingiustificabile - vero qui pro quo - che noi sacrifichiamo l'individualità umana allo Stato, perché questo - lo Stato come ente legislativo - non vorremmo; quella che vogliamo completamente libera ed associata anarchicamente".

Questo il significato di anarchia secondo Giovanni "Cardias" Rossi, parole scritte nel prologo intitolato "Sragionamenti" de Una comune socialista (con prefazione di Andrea Costa. Tipografia Sociale Operaia. Brescia, quarta edizione 1884). Con questi ideali nel 1890 si imbarcò, con altri compagni, alla volta del Brasile dove fondarono la Colonia Cecilia, la colonia durò quattro anni, attraversando varie difficoltà fino allo scioglimento. Rossi dichiarò in seguito che l'esperimento era riuscito: avevano vissuto in comune senza leggi, senza capi, senza governo, nella vera libertà. Era stata un esperimento nuovo nella storia perché "vi potesse essere messa alla prova l'idea organica dell'anarchia".


martedì 14 ottobre 2025

Gli anarchici e la lotta contro la galera. Motivi di una seria riflessione (parte 4)

 

Tuttavia per valutare al meglio le due possibilità bisogna che si tenga pur conto del fatto che se non si coinvolge nell’un caso e nell’altro il “mondo carcerario” – cioè i detenuti, le loro famiglie ed i loro amici – raggiungere qualsiasi obbiettivo sarà veramente fuori delle possibilità. Anche se la mobilitazione si allarga sul piano internazionale, come di già si sta concretizzando.

Non resta che valutare se le due possibilità possono viaggiare assieme, non escludersi a vicenda bensì integrarsi l’una nell’altra. Ed io credo che solo così si ha possibilità concreta di vincere la battaglia e salvare la vita al nostro compagno. Per cui:

·         agire fin da subito per tentare di coinvolgere nell’immediato i detenuti nel loro complesso, i loro familiari e amici in una campagna contro la galera in quanto ISTITUZIONE;

·         iniziare la campagna contro i disumani trattamenti nelle carceri, le sue torture ed i suoi ricatti a tutti i reclusi;

·         palesare la barzelletta del carcere come cura degli “errori fatti” e del reinserimento dei prigionieri entro un sociale che li genera quotidianamente a decine di migliaia;

·         mobilitarsi in ogni territorio ove vi sono penitenziari per sensibilizzare le persone che vi si recano a colloquio in modo tale che arrivino all’interno le notizie sulla mobilitazione ecc.

·         chiarire che l’anarchismo lotta per la distruzione della galera e del sociale che la genera, ma al contempo chiarire anche che è entro il sociale medesimo che si creano le condizioni per risolvere le brutture, le imposizioni e le prepotenze ai danni di persone ed individui che non vogliono sottostare ai voleri altrui.

Gli anarchici l’istituzione galera non la vogliono per nessuno, né per gli autori di stragi, né per i responsabili delle guerre e della miseria diffusa, né per i fautori delle più indicibili atrocità, mafiosi, politici, industriali, finanzieri ed altro che siano: con tutti loro, i conti si fanno in altro modo!

Se non siamo in grado di portare avanti il NOSTRO discorso, con i NOSTRI fondamenti, la battaglia è di già persa prima di iniziarla.

(Un precedente significativo di lotta simile è senza dubbio quella iniziata nel 1999-2000 e perdurata qualche anno contro il regime penitenziario FIES, entro i domini dello Stato spagnolo; dalla documentazione, esistente in maniera massiccia, potranno emergere le positività ma anche le carenze manifestate dal movimento nostro e della sua debolezza di fondo, frutto di una eredità ancorata a strutture organizzative superate dal corso degli eventi, ed incapace di parlare e di relazionarsi con le masse subalternizzate odierne.

In questa prospettiva viene superato anche il nodo dovuto al fatto che non si potrebbe impostare la mobilitazione direttamente contro il 41bis, in quanto ciò significherebbe allontanare dalla lotta coloro che “inorridiscono” al pensare che anche i mafiosi, “che meritano il regime carcerario” più duro per gli orrendi crimini che hanno commesso, ne beneficerebbero.

Ciò non vuole di certo significare farci le pipe in salotto con lo stupratore, col politico di turno che cercherà di fungere da mediatore, col mafioso che impone il suo ordine corroborando così quello dello “Stato assente”, ecc.

Dobbiamo tentare di porre in piedi una mobilitazione generale il cui fine è salvaguardare la vita dei nostri compagni e compagne ed al medesimo tempo fare una campagna contro la istituzione galera ed il sistema che la genera, ma in cui le modalità del nostro procedere e comportarci siamo in grado di esplicarle e gestirle in un contesto ove saranno presenti forze strumentalizzatrici di ogni tipo.

sabato 11 ottobre 2025

Gli anarchici e la lotta contro la galera. Motivi di una seria riflessione (parte 3)

 

L’asserzione secondo cui “gli anarchici e le anarchiche” non potrebbero tenere sequestrate (“incarcerate”) delle persone perché ciò sarebbe sconfessare i presupposti dell’anarchismo, se valutata alla luce della realtà sociale effettiva ed alle condizioni in cui tali fatti si svolgono, viene a perdere la sua apoditticità, rivelandosi assolutamente relativa.

Questa che di primo acchito potrà sembrare una divagazione, mi pare invece una introduzione indispensabile per affrontare al meglio la tematica anarchismo-galera, e precisamente per significare in quale maniera e perché gli anarchici vogliono la distruzione di ogni forma di istituzione penitenziaria, non accettando che alcuno vi sia destinato.

È di estrema attualità, infatti, il dibattito e la lotta intrapresa dagli anarchici a seguito dell’applicazione del 41bis del Regolamento carcerario, e conseguente trasferimento al penitenziario di Sassari (Bancali), del compagno Alfredo Cospito, già in galera da una decina d’anni per l’azzoppamento di uno dei corresponsabili italiani dell’industria del nucleare (una delle più floride), e che dal 24 di ottobre ha iniziato lo sciopero della fame fino a lasciarsi morire, contro la stessa esistenza di quell’articolo e dell’ergastolo ostativo.

Infatti, il medesimo 41bis pone compagni e compagne di fronte a non poche problematiche di diverso ordine, che ovviamente si riflettono sulle modalità della lotta in solidarietà ad Alfredo ed ai/alle compagni/e che hanno a loro volta iniziato lo sciopero della fame per rafforzare la sua lotta.

 

GLI ANARCHICI E LA LOTTA CONTRO IL 41bis

Il regime carcerario previsto dall’articolo 41bis del Regolamento Penitenziari (R.P.) prevede tutta una serie di restrizioni che, affiancando l’isolamento in pratica totale del detenuto, mirano al suo annientamento psico-fisico, in poche parole è una tortura per altro inflitta fino al suo ultimo respiro.

Originariamente imposto per i condannati per reati di mafia, viene via via esteso ai detenuti per altri reati, tra cui primeggiano quelli per sequestro di persona e per cosiddetto terrorismo.

Ora, Alfredo Cospito è in sciopero della fame deciso a vincere la battaglia oppure a lasciarsi morire, per cui tutti siamo consapevoli della urgenza di un intervento in grado di mettere su in tempo sufficiente una forza tale da imporsi allo Stato. La vicenda che così ci si impone offre apparentemente due possibilità:

1.    personalizzare in certo qual modo la lotta contro il 41bis, cioè affrontare immediatamente la sfida lanciata dallo Stato con gli strumenti che si hanno, da soli o unitamente a quelle altre forze che si mobilitano anch’esse nell’immediato per sostenere la lotta contro il 41bis imposto già da una decina d’anni anche ad altri/e rivoluzionari/ie in galera – in altri termini puntiamo a tirare fuori nell’immediato i rivoluzionari sottoposti a tale regime carcerario di annientamento;

2.   mobilitarsi fin da subito per una campagna estesa che sia al contempo contro il carcere in generale e la detenzione speciale in particolar modo.

Nel primo caso mi pare velleitario pretendere che si raggiunga in tempi stretti una forza tale da riuscire ad imporre allo Stato di rimangiarsi le sue decisioni; e d’altro canto non si può neppure sperare che nel giro di poco tempo tutte quelle forze “progressiste” che fin dall’inizio non si sentono mobilitate perché non tenute in conto, sostengano sia pure a modo loro la lotta intrapresa.

La seconda possibilità, di primo acchito, pare richiedere più tempo, ed una strategia della mobilitazione che presenta grossi intoppi fin dall’inizio. Proprio perché si tratta anche di contrastare l’applicazione di un articolo del R.P. originato in funzione della punizione “straordinaria” di delitti di mafia, fra cui atti infami e terribili, si fa notare giustamente da diversi compagni e compagne che proprio per questo anche la parte del sociale che potrebbe solidarizzare con la nostra campagna, se ne starebbe ben lontana (non volendo appunto sostenere in alcun modo agevolazioni alla detenzione di chi si è macchiato di così bestiali crimini).

(continua)

mercoledì 8 ottobre 2025

Gli anarchici e la lotta contro la galera. Motivi di una seria riflessione (parte 2)

Si è anche discusso accanitamente in passato, e forse lo si fa ancora oggi in certi ambienti nostri, a proposito del sequestro di persona a scopo di estorsione, ed è emerso secondo alcuni che «gli anarchici e le anarchiche non sequestrano perché non possono, essi stessi, che sono contro ogni forma di carcere, trattenere in cattività contro la loro volontà alcuna persona, perché ciò significherebbe dare vita a qualche forma di prigione; il che sarebbe ben al di fuori dei fondamenti dell’anarchismo medesimo». Forse non è neppure per puro caso che discussioni come quella appena accennata siano emerse entro il contesto di particolare attenzione da parte delle istituzioni vigenti a scapito degli anarchici e delle anarchiche, e qui la si riporta semplicemente per sottolineare al contempo quanto compagni e compagne cerchino di approfondire alcune tematiche, ma anche quante volte ci si fermi spesso a metà strada, non pervenendo fino in fondo alle discussioni che si affrontano ed alle conseguenti pratiche.

Vi è di certo un fondo di verità in tale ragionamento-posizione, ma è allo stesso tempo vero che esso si erge al di sopra della realtà fattuale, che solo nell’astrazione a-storica risulta sempre uguale. Tant’è che nella realtà, anarchici/che hanno effettuato sequestri di persone non solo per rivendicazioni esplicitamente “politiche”, bensì anche a scopo estorsivo, ovvero per avere denaro in cambio della liberazione dell’ostaggio.

Che cosa vi è di diverso fra il sequestro per estorsione effettuato da anarchici e sequestro effettuato da proletari? Nulla, se si guarda al fatto che entrambi mirano alla “riscossione” del ricatto (che potrà essere, oltre alla somma in denaro, finanche la richiesta di liberazione di propri compagni imprigionati, oppure l’annullamento di sentenze di morte). Nulla di diverso vi è anche se guardiamo alla detenzione temporale del sequestrato, concernente in entrambi i casi il tempo strettamente necessario per garantirsi l’incolumità, oltre a quello atto a far sì che la trattativa ed il riscatto vadano in porto.

(Si badi bene, io non sto affatto dicendo che il sequestro di persona sia la modalità migliore per far sì che compagni e compagne, o anche semplici proletari/ie, si riapproprino di parte almeno di quanto loro sottratto dal sistema imperante di sfruttamento, oppressione, miseria, o di quanto necessitano per energie indispensabili nella lotta quotidiana contro tale sistema. Ciò sta ai singoli deciderlo).

Tuttavia sottolineo una sostanziale e decisiva differenza fra quelle che sono le “prigioni” dei sequestrati a scopo politico o di estorsione di danaro, e la galera di cui si serve lo Stato-capitale per mantenere ed imporre il suo ordine. Nel primo caso non si può affatto parlare di Istituzioni, bensì occasioni del tutto estemporanee valutate come atte a risolvere qualche necessità per altro imposta dallo stato vigente delle cose. Il penitenziario, la galera dello Stato-capitale è invece una Istituzione fra le altre che, nel loro insieme, costituiscono e monopolizzano l’esercizio del potere d’imperio, la cui funzione è stabile nel tempo e il cui scopo è privare della libertà tutti (meglio, quasi tutti) coloro che hanno infranto l’ordine imposto da quanti detengono in esclusiva la facoltà del comando.

(continua)

 

domenica 5 ottobre 2025

Gli anarchici e la lotta contro la galera. Motivi di una seria riflessione (parte 1)

Gli anarchici, proprio in quanto tali, non possono che essere CONTRO LA GALERA, contro ogni tipo di prigione istituzionalizzata. Detto in altri termini, l’istituzionalizzazione di un luogo interno al sociale ma al contempo separato dallo stesso, è l’opposto dei fondamenti medesimi dell’anarchismo, essendo l’anarchismo la negazione di ogni autorità d’imperio dell’uomo sui suoi simili.

Tuttavia l’anarchismo non è affatto garanzia che in ogni luogo ed in ogni tempo non vi siano attriti fra individui o gruppi di individui, attriti di diversa natura e origine, che scatenano anche momenti di conflitto che sfociano pure in guerre di supremazia fra le fazioni, e che possono determinare fasi violente che varcano i limiti della sfera interna ai contendenti, spaziando nell’intero corpo sociale fino a coinvolgere questo in una instabilità tale da lacerarlo così tanto da decretarne la scomparsa per autodistruzione.

Ciò non è ipotesi fantasiosa, tanto è vero che pure ipotizzando il rivoluzionamento dell’esistente secondo la tensione anarchica, e cioè ipotizzando la distruzione rivoluzionaria del presente storico e l’avveramento di una società senza potere centralizzato, tenendo nel dovuto conto le migliaia di anni in cui il dominio dello Stato ha conformato le menti alla sua necessità di eternarsi – amalgamando le genti ai suoi meccanismi di produzione e riproduzione – non è affatto impossibile che come risposta a “sentite” o reali offese, o a pretese di imposizione di volontà ed interessi alteri, ecc. si faccia ricorso anche nell’immediato domani, da parte di individui o gruppi di individui, a mezzi, metodi e strumenti che si ritengono utili ad evitare o risanare le offese, e ad evitare di essere sopraffatti dalla volontà altrui. Escludere a priori il verificarsi di tale realtà è semplicemente assurdo, almeno da parte degli anarchici e delle anarchiche.

E per stare in tale possibile quadro, è anche doveroso riflettere su ogni altra occasione in cui emerge, pure dalla ipotesi di un sociale deprivato di potere centralizzato e di “norme universali”, la prepotenza, l’istinto più bestiale di uomini lacerati da millenni di servitù e coartazione, la brutalità di individui su altri individui: la violenza sui bambini, le atrocità sulle donne, la brutalità su indifesi o minorati, e così via.

In tutti questi casi, non possiamo eludere il problema accantonandolo semplicemente, o facendo ricorso alla presunta spontanea emersione dell’animo buono e sostanzialmente sociale delle persone.

Certo, a ben valutare le cose, non è che con l’avvento della società “anarchica”, priva di potere centralizzato e pertanto di istituzioni di qualsiasi tipo, il “compito” – mi si passi il termine – degli anarchici e delle anarchiche scompare come per incanto. L’anarchia, l’autodeterminazione dei singoli e della comunità non è una conquista definitiva, data una volta per sempre dalla distruzione dello Stato imperante (e del capitalismo nelle sue varie sfaccettature, col quale costituisce il sistema vigente); è bensì un primo passo, pur fondamentale, ma ciò non può concludere affatto la tensione anarchica, perenne, di rivalutazione quotidiana dei rapporti sociali e delle dinamiche che attraversano il corpo collettivo, affinché si soffochi nell’immediato ogni momento che si manifesta in funzione del nuovo emergere di poteri d’imperio.

L’anarchismo come tensione permanente, quindi, che vigila oggi come domani affinché non emergano e non si cristallizzino in istituti (comportamentali più o meno diffusi) e ancor meno in Istituzioni atteggiamenti e dinamiche che coartano, impediscono, impongono volontà Altere a singoli o gruppi di persone.

Nel caso di cui stiamo parlando, istituzioni coattive, manicomi, carceri et similia, quindi, sono estranei all’anarchismo sia oggi, ove dominano essendo parti integranti e pertanto irrinunciabili dello Stato-capitale, sia in ogni possibile futuro.

(continua)

giovedì 2 ottobre 2025

Pro Vietnam Pro Palestina

I giovani di tutto il mondo hanno reagito al genocidio israeliano con lo sgomento di chi non credeva possibile un simile spettacolo di orrore, e con la rabbia di chi non riesce a fermare la mano di un aggressore che ha perduto la ragione, che non capisce il linguaggio umano perché è posseduto dalla ferocia.

Israele ha perduto l’appoggio e la comprensione di una intera generazione; per questa generazione la parola «sionismo» significherà per sempre quel che per la mia generazione ha significato la parola «nazismo».

La faccia democratica, imprenditoriale e tecnologica che Israele ha sempre tentato di accreditare appare oggi devastata per sempre. La democrazia è sempre stata un inganno; nel caso di Israele lo è stato di più dato che si fondava sull’apartheid, sulla discriminazione e sulla sottomissione di una parte della popolazione. Ma l’attrattiva del paese si fondava sulla vitalità economica, imprenditoriale e tecnologica. Dopo il genocidio è difficile che questa vitalità continui. Non tanto perché lo sforzo bellico e l’isolamento hanno colpito l’economia, ma perché è diventato evidente che questo paese potrà sopravvivere soltanto in condizioni di isolamento, di accerchiamento, di pericolo, e perché la società israeliana è sempre più disgregata, e sempre più dominata dai predoni armati da Smotrich, coloni a cui nulla importa della democrazia.

L’ondata di proteste pro-Palestina, soprattutto nei campus americani, ha mostrato forti elementi di analogia con quel che accadde nel ’68, all’epoca della guerra sporca che l’imperialismo americano scatenò contro il popolo vietnamita. 

Ma la cosa più importante non è la somiglianza dei comportamenti studenteschi, bensì la differenza del contesto e le diverse aspettative degli studenti di oggi rispetto a quelle di allora.

Dopo l’inizio della vendetta genocida israeliana la maggioranza dei giovani ha preso la parte delle vittime palestinesi. Dovunque, sulle reti sociali, nelle strade, nelle università, sui muri delle città del mondo intero le parole Free Palestine sono state ripetute un miliardo di volte.

Si è trattato di una risposta etica al razzismo e al colonialismo sionista.

Quando quelli della mia generazione manifestavamo contro la guerra in Vietnam ci attendevamo un rovesciamento di rapporti di forza tra imperialismo e movimento anti-imperialista. L’identificazione con il vietcong implicava un’identificazione con il socialismo, con un’emancipazione possibile.

Era in parte un’illusione, certo, ma il movimento che scese in piazza per il Vietnam si identificava con una possibilità di cambiamento positivo delle relazioni sociali e con la possibilità di sconfiggere l’imperialismo.

Si può dire lo stesso per l’attuale identificazione con la Palestina? Credo di no. Gli studenti che manifestano e occupano contro il genocidio israelo-americano non si identificano certo con Hamas, né si identificano con l’islamismo. Dalla resistenza palestinese non si attende un brillante avvenire radioso, un avvenire socialista, né qualche tipo di emancipazione sociale. L’oscurantismo della cultura che domina i paesi islamici non può in nessuna maniera essere condivisa dai movimenti studenteschi, meno che mai dai movimenti femministi, che pure si sono mobilitati massicciamente contro il genocidio, suscitando scandalo nella stampa occidentale, come se protestare contro un genocidio significasse condividere tutte le ragioni politiche di chi è oggetto dello sterminio.

L’8 marzo del 2024 le manifestazioni femministe, in Francia come altrove, erano punteggiate di bandiere palestinesi.

Questo voleva forse dire che le donne prendevano posizione a favore di gruppi come Hamas, o come Hezbollah, o per l’islamismo in generale? 

Voleva forse dire che la violenza patriarcale dell’islamismo radicale era stata perdonata dalle donne che sfilavano con quelle bandiere palestinesi?

Credo proprio di no.

Credo che quelle bandiere avessero un significato molto semplice: stiamo dalla parte delle donne e dei bambini che soffrono da 75 anni dell’oppressione sistematica dello stato sionista e che in questo momento muoiono a migliaia sotto le bombe dell’aviazione israeliana.

A me pare che gli studenti che protestano si identifichino con la disperazione. La disperazione è il tratto psicologico e culturale che spiega la vasta identificazione con i palestinesi. Chiunque oggi sia motivato eticamente, chiunque abbia mantenuto dei sentimenti umani è disperato. Chiunque non si sia trasformato in una belva è disperato.

Penso che la maggioranza degli studenti di oggi si aspetti, coscientemente o incoscientemente, un deterioramento delle condizioni di vita, un cambiamento climatico irreversibile, un lungo periodo di guerra e un pericolo di precipitazione nucleare dei conflitti in corso. 

È qui a mio parere la differenza principale rispetto al movimento del ’68: nessun rovesciamento dei rapporti di forza è in vista, nessuna emancipazione è immaginabile, nessuna pace duratura è possibile.

La speranza è destituita di ogni fondamento.

La disperazione è il solo sentimento umano.

mercoledì 1 ottobre 2025

Dimenticare può portare alla pace? (parte 2)

Dopo la Seconda guerra mondiale, dopo la Shoah, assistemmo alla nascita di un paese che, in nome della memoria, rivendicava il suo diritto a tornare in una terra da cui ritiene di essere stato cacciato duemila anni fa, e rivendicava il diritto a esercitare violenza contro la popolazione arabo-palestinese.

Venne formulato allora il principio «una terra senza un popolo per un popolo senza terra».

Ma si trattava di un principio falso, perché in quella terra un popolo c'era. Tant'è vero che la nascita dello stato di Israele coincide con un massacro di decine di migliaia di persone e con l’inizio di un processo di persecuzione e deportazione che continua ancora oggi, 75 anni più tardi.

Fin dall'inizio lo stato di Israele contiene un principio genocidario. Proprio perché si fonda sul presupposto falso che la terra promessa da un dio altamente ipotetico fosse una terra senza popolo, da quel momento in poi occorreva eliminare qualsiasi prova del fatto che quel popolo esisteva.

Occorreva sterminare quel popolo che mostrava la falsità dell'assunto prioritario della nascita dello stato di Israele.

Oggi, due o tre generazioni più tardi, i sionisti sono diventati il reparto avanzato del razzismo nel mondo.

Intellettuali come Bernard Henry Levy o come Giuliano Ferrara sbandierano il loro ebraismo come se questo desse loro diritto a qualsiasi prepotenza. Eppure non sono affatto vittime, ma nipoti o pronipoti delle vittime.

Del resto è risaputo che le vittime di solito preferiscono non ricordare, mentre i pronipoti delle vittime ricordano continuamente a sé stessi e a tutti gli altri che loro sono vittime e quindi sono assolti per principio da qualsiasi crimine possano commettere.

Questi eredi delle vittime non vogliono la pace, vogliono solo diventare carnefici a loro volta, come se questo ristabilisse un equilibrio, una giustizia. Sono incapaci di dimenticare perché questo non gli conviene: perderebbero il loro privilegio.

L’identificazione con il carnefice è un processo psichico che si conosce bene: ogni bambino maltrattato, abusato, tende a riprodurre i comportamenti che lo hanno ferito, perché si sono inscritti indelebilmente nella sua mente in formazione.

Allo stesso modo chi ha subito una violenza traumatica può essere condotto (solo in alcuni casi, sia ben chiaro) a identificarsi con l’autore della violenza, può desiderare quella forza, quel predominio.

Il sionismo non è soltanto la politica di autodifesa feroce di un corpo collettivo che solo così ha saputo elaborare il trauma dell’Olocausto, ma è anche la politica perversa di uno stato colonialista, di una popolazione di coloni che approfittano della sofferenza subita nel passato dai loro antenati per farne ragione di un privilegio e per finalmente godere del dolore infinito a chi non può difendersi.

Gli eredi delle vittime portano via la terra ai proprietari palestinesi, con violenza li espropriano dei loro scarsi averi. Cacciano dalle loro case intere famiglie, coi loro scarponi abbattono le porte, coi calci dei loro fucili colpiscono i contadini che difendono gli olivi che i coloni vogliono estirpare.

Dopo Gaza è tempo di riconoscere che il tentativo di umanizzazione della storia è fallito. È tempo di riconoscere che l’esperimento chiamato civiltà è fallito.

Quel “mai più era provvisorio”, perché non si sono create le condizioni per espellere la ferocia della sfera della civiltà umana.

La tragedia di Gaza ha un carattere definitivo e irrimediabile, la vittoria militare dell’esercito e la complicità del popolo israeliano con il genocidio scatenato dal governo Netanyahu segnano in maniera irreversibile la regressione verso la cancellazione di ogni speranza di un futuro “umano”.

La lezione che Israele ci ha dato è questa: nella sfera storica le vittime non sanno né possono chiedere pace né riparazione, ma soltanto cercare vendetta. Ciò vuol dire che le vittime di oggi non potranno mai essere altro che vittime, a meno che non riescano a trasformarsi in carnefici.

Dopo il genocidio israeliano, il diritto, l’universalismo e la democrazia appaiono come illusioni che i predatori hanno usato per mantenere il loro potere sulle prede. Ma ora queste illusioni si sono dissolte e appare la faccia feroce del colonialismo di cui Israele è l’ultima manifestazione.