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giovedì 2 ottobre 2025

Pro Vietnam Pro Palestina

I giovani di tutto il mondo hanno reagito al genocidio israeliano con lo sgomento di chi non credeva possibile un simile spettacolo di orrore, e con la rabbia di chi non riesce a fermare la mano di un aggressore che ha perduto la ragione, che non capisce il linguaggio umano perché è posseduto dalla ferocia.

Israele ha perduto l’appoggio e la comprensione di una intera generazione; per questa generazione la parola «sionismo» significherà per sempre quel che per la mia generazione ha significato la parola «nazismo».

La faccia democratica, imprenditoriale e tecnologica che Israele ha sempre tentato di accreditare appare oggi devastata per sempre. La democrazia è sempre stata un inganno; nel caso di Israele lo è stato di più dato che si fondava sull’apartheid, sulla discriminazione e sulla sottomissione di una parte della popolazione. Ma l’attrattiva del paese si fondava sulla vitalità economica, imprenditoriale e tecnologica. Dopo il genocidio è difficile che questa vitalità continui. Non tanto perché lo sforzo bellico e l’isolamento hanno colpito l’economia, ma perché è diventato evidente che questo paese potrà sopravvivere soltanto in condizioni di isolamento, di accerchiamento, di pericolo, e perché la società israeliana è sempre più disgregata, e sempre più dominata dai predoni armati da Smotrich, coloni a cui nulla importa della democrazia.

L’ondata di proteste pro-Palestina, soprattutto nei campus americani, ha mostrato forti elementi di analogia con quel che accadde nel ’68, all’epoca della guerra sporca che l’imperialismo americano scatenò contro il popolo vietnamita. 

Ma la cosa più importante non è la somiglianza dei comportamenti studenteschi, bensì la differenza del contesto e le diverse aspettative degli studenti di oggi rispetto a quelle di allora.

Dopo l’inizio della vendetta genocida israeliana la maggioranza dei giovani ha preso la parte delle vittime palestinesi. Dovunque, sulle reti sociali, nelle strade, nelle università, sui muri delle città del mondo intero le parole Free Palestine sono state ripetute un miliardo di volte.

Si è trattato di una risposta etica al razzismo e al colonialismo sionista.

Quando quelli della mia generazione manifestavamo contro la guerra in Vietnam ci attendevamo un rovesciamento di rapporti di forza tra imperialismo e movimento anti-imperialista. L’identificazione con il vietcong implicava un’identificazione con il socialismo, con un’emancipazione possibile.

Era in parte un’illusione, certo, ma il movimento che scese in piazza per il Vietnam si identificava con una possibilità di cambiamento positivo delle relazioni sociali e con la possibilità di sconfiggere l’imperialismo.

Si può dire lo stesso per l’attuale identificazione con la Palestina? Credo di no. Gli studenti che manifestano e occupano contro il genocidio israelo-americano non si identificano certo con Hamas, né si identificano con l’islamismo. Dalla resistenza palestinese non si attende un brillante avvenire radioso, un avvenire socialista, né qualche tipo di emancipazione sociale. L’oscurantismo della cultura che domina i paesi islamici non può in nessuna maniera essere condivisa dai movimenti studenteschi, meno che mai dai movimenti femministi, che pure si sono mobilitati massicciamente contro il genocidio, suscitando scandalo nella stampa occidentale, come se protestare contro un genocidio significasse condividere tutte le ragioni politiche di chi è oggetto dello sterminio.

L’8 marzo del 2024 le manifestazioni femministe, in Francia come altrove, erano punteggiate di bandiere palestinesi.

Questo voleva forse dire che le donne prendevano posizione a favore di gruppi come Hamas, o come Hezbollah, o per l’islamismo in generale? 

Voleva forse dire che la violenza patriarcale dell’islamismo radicale era stata perdonata dalle donne che sfilavano con quelle bandiere palestinesi?

Credo proprio di no.

Credo che quelle bandiere avessero un significato molto semplice: stiamo dalla parte delle donne e dei bambini che soffrono da 75 anni dell’oppressione sistematica dello stato sionista e che in questo momento muoiono a migliaia sotto le bombe dell’aviazione israeliana.

A me pare che gli studenti che protestano si identifichino con la disperazione. La disperazione è il tratto psicologico e culturale che spiega la vasta identificazione con i palestinesi. Chiunque oggi sia motivato eticamente, chiunque abbia mantenuto dei sentimenti umani è disperato. Chiunque non si sia trasformato in una belva è disperato.

Penso che la maggioranza degli studenti di oggi si aspetti, coscientemente o incoscientemente, un deterioramento delle condizioni di vita, un cambiamento climatico irreversibile, un lungo periodo di guerra e un pericolo di precipitazione nucleare dei conflitti in corso. 

È qui a mio parere la differenza principale rispetto al movimento del ’68: nessun rovesciamento dei rapporti di forza è in vista, nessuna emancipazione è immaginabile, nessuna pace duratura è possibile.

La speranza è destituita di ogni fondamento.

La disperazione è il solo sentimento umano.