I giovani di tutto il mondo hanno reagito al genocidio israeliano
con lo sgomento di chi non credeva possibile un simile spettacolo di orrore, e
con la rabbia di chi non riesce a fermare la mano di un aggressore che ha
perduto la ragione, che non capisce il linguaggio umano perché è posseduto
dalla ferocia.
Israele ha perduto l’appoggio e la comprensione di una intera
generazione; per questa generazione la parola «sionismo» significherà per
sempre quel che per la mia generazione ha significato la parola «nazismo».
La faccia democratica, imprenditoriale e tecnologica che Israele ha
sempre tentato di accreditare appare oggi devastata per sempre. La democrazia è
sempre stata un inganno; nel caso di Israele lo è stato di più dato che si
fondava sull’apartheid, sulla discriminazione e sulla sottomissione di una
parte della popolazione. Ma l’attrattiva del paese si fondava sulla vitalità
economica, imprenditoriale e tecnologica. Dopo il genocidio è difficile che
questa vitalità continui. Non tanto perché lo sforzo bellico e l’isolamento
hanno colpito l’economia, ma perché è diventato evidente che questo paese potrà
sopravvivere soltanto in condizioni di isolamento, di accerchiamento, di
pericolo, e perché la società israeliana è sempre più disgregata, e sempre più
dominata dai predoni armati da Smotrich, coloni a cui nulla importa della
democrazia.
L’ondata di proteste pro-Palestina, soprattutto nei campus
americani, ha mostrato forti elementi di analogia con quel che accadde nel ’68,
all’epoca della guerra sporca che l’imperialismo americano scatenò contro il
popolo vietnamita.
Ma la cosa più importante non è la somiglianza dei comportamenti
studenteschi, bensì la differenza del contesto e le diverse aspettative degli
studenti di oggi rispetto a quelle di allora.
Dopo l’inizio della vendetta genocida israeliana la maggioranza dei
giovani ha preso la parte delle vittime palestinesi. Dovunque, sulle reti
sociali, nelle strade, nelle università, sui muri delle città del mondo intero
le parole Free Palestine sono state ripetute un miliardo di volte.
Si è trattato di una risposta etica al razzismo e al colonialismo
sionista.
Quando quelli della mia generazione manifestavamo contro la guerra
in Vietnam ci attendevamo un rovesciamento di rapporti di forza tra
imperialismo e movimento anti-imperialista. L’identificazione con il vietcong
implicava un’identificazione con il socialismo, con un’emancipazione possibile.
Era in parte un’illusione, certo, ma il movimento che scese in
piazza per il Vietnam si identificava con una possibilità di cambiamento
positivo delle relazioni sociali e con la possibilità di sconfiggere
l’imperialismo.
Si può dire lo stesso per l’attuale identificazione con la
Palestina? Credo di no. Gli studenti che manifestano e occupano contro il
genocidio israelo-americano non si identificano certo con Hamas, né si
identificano con l’islamismo. Dalla resistenza palestinese non si attende un
brillante avvenire radioso, un avvenire socialista, né qualche tipo di
emancipazione sociale. L’oscurantismo della cultura che domina i paesi islamici
non può in nessuna maniera essere condivisa dai movimenti studenteschi, meno
che mai dai movimenti femministi, che pure si sono mobilitati massicciamente
contro il genocidio, suscitando scandalo nella stampa occidentale, come se
protestare contro un genocidio significasse condividere tutte le ragioni
politiche di chi è oggetto dello sterminio.
L’8 marzo del 2024 le manifestazioni femministe, in Francia come
altrove, erano punteggiate di bandiere palestinesi.
Questo voleva forse dire che le donne prendevano posizione a favore
di gruppi come Hamas, o come Hezbollah, o per l’islamismo in generale?
Voleva forse dire che la violenza patriarcale dell’islamismo
radicale era stata perdonata dalle donne che sfilavano con quelle bandiere
palestinesi?
Credo proprio di no.
Credo che quelle bandiere avessero un significato molto semplice:
stiamo dalla parte delle donne e dei bambini che soffrono da 75 anni
dell’oppressione sistematica dello stato sionista e che in questo momento
muoiono a migliaia sotto le bombe dell’aviazione israeliana.
A me pare che gli studenti che protestano si identifichino con la
disperazione. La disperazione è il tratto psicologico e culturale che spiega la
vasta identificazione con i palestinesi. Chiunque oggi sia motivato eticamente,
chiunque abbia mantenuto dei sentimenti umani è disperato. Chiunque non si sia
trasformato in una belva è disperato.
Penso che la maggioranza degli studenti di oggi si aspetti,
coscientemente o incoscientemente, un deterioramento delle condizioni di vita,
un cambiamento climatico irreversibile, un lungo periodo di guerra e un
pericolo di precipitazione nucleare dei conflitti in corso.
È qui a mio parere la differenza principale rispetto al movimento
del ’68: nessun rovesciamento dei rapporti di forza è in vista, nessuna
emancipazione è immaginabile, nessuna pace duratura è possibile.
La speranza è destituita di ogni fondamento.
La disperazione è il solo sentimento umano.