..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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domenica 30 giugno 2013

La responsabilità della rivolta

“E quando gli uomini della nostra generazione sussultavano davanti all’ingiustizia, li si convinceva che si trattava di un sussulto passeggero. Così, per gradi, si è diffusa la morale della condiscendenza e della disillusione”
(Albert Camus)

In mezzo mondo divampa la rivolta. I mezzi d’informazione mediano questa verità fatta di mille sollevazioni, cercando di farcele apparire come inconsulte, estremiste, incivili e senza sbocco politico. I commentatori più colti giungono a definirle antistoriche e irrazionali, frutto della disperazione e dell’immaturità delle cosiddette masse. Si evocano altresì gli spettri del nichilismo e dell’anarchia. Dentro questo incendio generalizzato, le piazze d’Italia sembrano quelle dipinte da De Chirico, immote e deserte, sospese in un’attesa irreale, anche se dietro i muri del presente premono contraddizioni tutt’altro che metafisiche. Chi governa ne è del tutto consapevole e tiene pronti reggimenti di uniformi per fronteggiare l’ondata che tutti si aspettano, ma per il momento funzionano altre armi preventive, più sottili ma non meno efficaci.
La rivolta non dilaga, ancora, per un malinteso senso di responsabilità. Dietro ogni discorso governativo c’è infatti questo messaggio ricattatorio: non è tempo di ribellioni che risulterebbero dannose per tutti e soprattutto per i più deboli. In un momento così delicato, è necessario non incrinare la coesione nazionale: agitarsi è controproducente e anche il solo alzare la voce può aggravare la crisi e l’assetto precario della nave incagliata su cui siamo imbarcati.
In parlamento si afferma così il partito unico dei Responsabili mentre, nel tentativo di incanalare risentimenti e disinnescare proteste, a sinistra si annunciano barricate figurate e si auspicano rivolte democratiche, rispettose della legalità e della proprietà privata, non-violente e dialoganti con le istituzioni, disponibili alla delega politica e a farsi rappresentare dai sindacati concertativi, senza riferimenti ideologici o di classe, nonché scevre da malsane utopie rivoluzionarie. In altre parole, si promuove la rivolta… purché non sia una rivolta. Tutt’al più è consentita e adulata la messinscena della rivolta con relativi copioni e ruoli prestabiliti: guardie e ladri, buoni e cattivi, delinquenti e sognatori. Dovendo respirare ogni giorno questa intossicazione dell’intelligenza e della volontà, un buon ed utile antidoto è la riflessione di Albert Camus, proprio attorno alla necessità vitale della rivolta, che rovescia tanti punti di vista nutriti dalla falsa coscienza e dai luoghi comuni del potere. Dall’opera – vastissima e articolata – di Camus vale la pena cogliere qualche allusione.
“Non è certo la prima volta che gli uomini si trovano davanti a un avvenire materialmente bloccato. Ma di solito avevano la meglio grazie alla parola, o al grido. Facevano appello ad altri valori che fossero per loro una ragione di speranza. Oggi nessuno parla più (tranne quelli che si ripetono), perché il mondo ci appare sospinto da forze cieche e sorde che non intenderanno le grida di avvertimento, i consigli, le suppliche”. Sono parole scritte nel 1946, nella società del dopoguerra scossa e timorosa al punto da arrendersi ad una “immensa cospirazione del silenzio”, preferendo negare i propri desideri e le proprie verità, piuttosto che affrontare la paura delle conseguenze sul vivere e su un futuro che peraltro intimamente si sapeva già non migliore del presente.
Poco è mutato in oltre mezzo secolo, soprattutto guardando la prevalente rinuncia a rischiare qualcosa per provare a sottrarsi alla dominazione che pesa su ogni nostro respiro, pensiero, gesto: “la vera generosità verso l’avvenire consiste nel dare tutto al presente. La rivolta, con questo, prova di essere il moto stesso della vita, e non la si può negare senza rinunciare a vivere”.
Il meccanismo della paura continua funzionare, senza inceppamenti, rinnovando esiti tragici. Basti pensare al terrore che paralizzò quasi sempre i prigionieri dei campi di sterminio, impedendo loro di unirsi in un’evasione o ribellione collettiva pur sapendo che la loro sorte era segnata.
In alcuni casi la resistenza esplose pure nei lager, ma generalmente bastava un pugno di aguzzini per controllare decine di migliaia di deportati in uno spazio limitato. In tanti si chiedono tutt’ora come fu possibile, ma una risposta non può partire che dalla spersonalizzazione e dalla perdita di dignità individuale che il sistema concentrazionario perseguiva, facendo prevalere la paura della morte fisica immediata anche su moltitudini di morti-viventi. Attraverso la singola privazione della dignità umana veniva quindi impedito il costituirsi di un’identità e quindi di una forza collettiva, solidale, tra oppressi.
In qualche modo, ancora oggi, milioni di esseri umani (poco importa sapere se siamo il 99%) sono costretti a vivere in una dimensione in cui si saldano la coercizione violenta e la servitù volontaria, magari ammantate di democrazia, pubblico interesse e osservanza delle leggi, quando invece quello che manca è un’assunzione, individuale e collettiva, di responsabilità nel determinare il proprio agire che, per il suo valore etico, non può essere ristretto all’ambito angusto definito dalle leggi, scritte per mantenere l’ordine vigente e non certo per assicurare la giustizia sociale.
Chi abbraccia la rivolta e la diserzione, esaurita la pazienza verso sé stesso e la sottomissione allo stato delle cose, afferma al contrario l’esistenza di un limite invalicabile e la consapevolezza che non si può, umanamente e decentemente, transigere oltre.
Un limite ormai da tempo superato ma che la maggioranza ancora non sa e non vuole vedere, in modo del tutto irresponsabile e senza amore: “Se abbiamo coscienza del nulla e del nonsenso, se troviamo che il mondo è assurdo e la condizione umana è insopportabile, ciò non significa che non c’è niente da fare e che possiamo rassegnarci”. L’alternativa possibile, infatti, esiste e passa dalla rivolta che senza pretendere di risolvere tutto, può almeno fronteggiare l’alienazione, ossia l’espropriazione dell’essenza umana.
“Da quell’istante, il meriggio zampilla e scorre sul movimento stesso della storia”.