La gelosia è uno degli strumenti con cui
si costruisce la prigione.
La gelosia nasce soprattutto
dall’umiliazione che ciascuno di noi ha subito nei primi anni della propria
vita quando è stato messo in ginocchio, piangente, di fronte a una qualsiasi
immagine dell’autorità. Questa stessa immagine-fantasma è l’antagonista occulto
che ci accompagna, angelo custode all’aspetto di Frankestein, pronto a
rinnovare la sua impresa spezzandoci nuovamente nell’umiliazione; ed ha come
alleato la parte di noi che, per avere già acconsentito, sa di poter cedere
nuovamente. In questo senso la vera paura celata dalla gelosia è quella del
tradimento di noi stessi, non già di quello altrui. Ancora, essa nasce
dall’immagine culturale, patriarcale e cristiana in particolare, della donna
come proprietà da difendere e della sua (per il tutto una parte) vulva come
ricettacolo passivo. In questa logica noi raffiguriamo noi stessi come i soli
autorizzati allo stupro: dagli altri temiamo lo stesso stupro che noi immaginiamo
di poter compiere legalmente.
Così ancora una
volta si umiliano il corpo e l’amore, e si rinnega prima di tutto in sé e poi
negli altri il fuoco che accende di vita il corpo e gli dona tutta la grazia
della divinità.
Nella visione
pornografica cristiana dello stupro e del sesso, inteso come peccato e cosa
immonda, sta la chiave della nostra avarizia prima di tutto nei nostri
confronti e poi in quelli degli altri.
Insomma, la
gelosia umilia chi è geloso doppiamente: prima di tutto perché lo inginocchia
di fronte ad un fantasma del passato, ripetendo così una esperienza traumatica
infantile; e poi perché avvilisce l’oggetto d’amore così che, tradito l’amore,
si trasformerà in oggetto di disprezzo.