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venerdì 4 novembre 2016

Niente pace per chi fa guerra!

Il 4 novembre è la festa delle forze armate. Viene celebrata nel giorno della “vittoria” nella prima guerra mondiale, un immane massacro per spostare un confine.
Il 4 novembre è la festa degli assassini. La divisa e la ragion di stato trasformano chi uccide, occupa, bombarda, in eroe.
Cent’anni fa, a rischio della vita, disertarono a migliaia la guerra, consapevoli che le frontiere tra gli Stati demarcano il territorio di chi governa, ma non hanno nessun significato per chi abita uno o l’altro versante di una montagna, l’una o l’altra riva di un fiume, dove nuotano gli stessi pesci, dove crescono le stesse piante, dove vivono uomini e donne che si riconoscono uguali di fronte ai padroni che si fanno ricchi sul loro lavoro.
Cent’anni dopo, quelle trincee impastate di sangue, sudore, fango e rabbia la retorica patriottica, il garrire di bandiere e le parate militari nascondono i massacri, i pescecani che si arricchivano, le “decimazioni”, gli stupri di massa.
In questi anni lungo i confini d’Italia si sta combattendo una guerra feroce contro la gente in viaggio, contro chi fugge conflitti dove le truppe italiane sono in prima fila.
In Iraq battaglioni d’élite dell’esercito tricolore partecipano all’assedio di Mosul, per cacciare i jihadisti dello Stato Islamico.
Sono in Iraq da mesi per difendere gli interessi della Trevi, la ditta italiana che si è aggiudicata i lavori alla diga di Mosul, uno snodo strategico per chi intende fare buoni affari nel paese.
I governi alleati dell’Italia hanno finanziato e protetto i soldati della jihad prima in Afganistan, poi in Siria. A Mosul si sta consumando in nostro nome un altro immane massacro di uomini, donne e bambini, pedine di un gioco feroce di potenza.
Ad Aleppo si muore da anni nel silenzio fragoroso dei più. Le lacrime ipocrite per i bimbi morti non hanno fermato le bombe.
In Rojava, dove dal 2012 la popolazione ha deciso di attuare un percorso di autonomia politica, di solidarietà e di mutuo appoggio, nella cornice del confederalismo democratico, il governo turco bombarda le città nel silenzio fragoroso di chi, proprio sulle milizie maschili e femminili della regione a maggioranza curda della Siria, ha fatto leva per fermare l’avanzata dell’Isis. La rivoluzione democratica in Rojava apre una crepa nelle logiche di potere che caratterizzano le grandi potenze che si contendono il controllo del Mediterraneo all’Eufrate.
Sei conflitti armati muoiono più civili che militari. I soldati sono professionisti super addestrati, strumenti costosi e preziosi da preservare, mentre le persone senza divisa diventano obiettivi bellici di primaria importanza per suscitare il terrore, per piegare la resistenza delle popolazioni da sottomettere, per realizzare i propri obiettivi di dominio. La propaganda di guerra all’Isis marchia come terroristi i militari della jihad, ma usa gli stessi mezzi. Solo la narrazione è diversa. Torture, rapimenti extragiudiziali, detenzioni senza processo, sono normali ovunque. L’Isis ama di più lo spettacolo e lo usa per dimostrare la propria forza e attrarre a se nuovi adepti.
Al riparo delle loro basi, a dieci minuti di auto dalle loro case, i piloti dei droni, osservano in uno schermo le possibili vittime, le puntano e le colpiscono come in un videogioco. La guerra virtuale diventa reale, ma accresce la distante onnipotenza di chi dispensa morte da una base lontana migliaia di chilometri dal sangue, dalle feci, dagli arti straziati, dall’inenarrabile dolore di chi vede morire i propri figli, amici, genitori.
Questi giocattoli letali costano molto meno di un bombardiere. Un Predator armato costa 4 milioni di dollari contro i 137 di un F35.
L’Italia è in guerra da decenni ma la chiama pace.
È una guerra su più fronti, che si coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma parla il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della repressione.
La guerra diventa filantropia planetaria, le bombe mezzi di soccorso.
Gli stessi militari delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia, sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa, sono nel Mediterraneo e sulle frontiere fatte di nulla, che imprigionano uomini, donne e bambini.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia. Le sostiene la stessa propaganda: le questioni sociali, coniugate in termini di ordine pubblico, sono il perno su cui fa leva la narrazione militarista.
Torino è uno dei principali centri dell’industria aerospaziale bellica.
Sono cinque le aziende piemontesi, leader nel settore: Alenia Aermacchi, Thales Alenia Space, Avio Aero, Selex Es, Microtecnica Actuation Systems / UTC. 280 SMEs.
L’industria di guerra è un buon business, che non va mai in crisi. L’industria bellica italiana fa affari con chiunque. I soldi non puzzano di sangue e il made in Italy va alla grande.
L’Europa ha pagato miliardi il governo turco perché trattenesse i profughi che lo scorso anno premevano alle frontiere chiuse. La verità cruda ma banale è che in Siria, in Iraq, in Afganistan, in Libia si combatte con armi che spesso sono costruite a due passi dalle nostre case.
A Torino e Caselle c’è l’Alenia, la sua “missione” è fare aerei militari. Nello stabilimento di Caselle Torinese hanno costruito gli Eurofighter Thypoon, i cacciabombardieri made in Europe, e gli AMX. Le ali degli F35, della statunitense Loockeed Martin, sono costruite ed assemblati dall’Alenia.
Un business milionario. Un business di morte.
Lo Stato italiano investe ogni ora due milioni e mezzo di euro in spese militari, di cui mezzo milione solo per comprare nuove bombe e missili, cacciabombardieri, navi da guerra e carri armati. Gli altri servono per le missioni militari all’estero, per il mantenimento del militari e delle strutture. Si tratta, per il 2016, di 48 milioni di euro al giorno. Il governo nei prossimi anni ha deciso di spenderne ancora di più. Alla faccia di chi si ammala e muore perché non riesce ad accedere a esami specialistici e cure mediche.
Nel nuovo Documento programmatico pluriennale della Difesa – 2016-2018 – sono previsti: 13,36 miliardi di spese nel 2016 (carabinieri esclusi), l’1,3 per cento in più rispetto all’anno scorso. Cifra che sale a 17,7 miliardi (contro i 17,5 del 2015) se si considerano i finanziamenti del ministero dell’Economia e delle Finanze alle missioni militari (1,27 miliardi, contro gli 1,25 miliardi dell’anno precedente) e quelli del ministero per lo Sviluppo Economico ai programmi di riarmo (2,54 miliardi, nel 2015 erano 2,50).
Finanziamenti, quelli del Mise, che anche quest’anno garantiscono alla Difesa una continuità di budget per l’acquisto di nuovi armamenti per un totale di 4,6 miliardi di euro (contro i 4,7 del 2015). Le spese maggiori per quest’anno riguardano i cacciabombardieri Eurofighter (677 milioni), gli F-35 (630 milioni), la nuova portaerei Trieste e le nuove fregate Ppa (472 milioni), le fregate Fremm (389 milioni), gli elicotteri Nh-90 (289 milioni), il programma di digitalizzazione dell’Esercito Forza Nec (203 milioni), i nuovi carri Freccia (170 milioni), i nuovi elicotteri Ch-47f (155 milioni), i caccia M-346 (125 milioni), i sommergibili U-212 (113 milioni).
La vocazione umanitaria delle forze armate italiane ha fame di nuovi costosissimi giocattoli.
In tutto il paese ci sono aeroporti militari, poligoni, centri di controllo satellitare, postazioni di lancio dei droni.
Le prove generali dei conflitti di questi anni vengono fatte nelle basi sparse per l’Italia.
La rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.
Negli ultimi anni sono maturate esperienze che provano a saldare il rifiuto della guerra con l’opposizione al militarismo: il movimento No F35 a Novara, i no Muos che si battono contro le antenne assassine a Niscemi, gli antimilitaristi sardi che lottano contro poligoni ed esercitazioni. Anche nelle strade delle nostre città, dove controllo militare e repressione delle insorgenze sociali sono ricette universali, c’è chi non accetta di vivere da schiavo, c’è chi si oppone alla militarizzazione delle periferie, ai rastrellamenti, alle deportazioni.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.
Contro tutti gli eserciti, contro tutte le guerre!