Sono passati quarantasei anni dalla
morte di Franco Serantini e da allora, in Italia e nel mondo, sono accaduti
infiniti fatti. Qual è l’amaro bilancio di una vicenda non soltanto giudiziaria
che non ha fatto giustizia e non ha punito gli assassini in uniforme?
L’accumularsi dei fascicoli, i conflitti tra uomini delle istituzioni, le
ossessive avocazioni, sono serviti soltanto a dare credito al dogma che lo
Stato è intoccabile, incapace di processare se stesso come uno Stato limpido e
forte non dovrebbe aver timore di fare.
Franco Serantini nasce a Cagliari il 16
luglio 1951. Abbandonato al brefotrofio, vi rimane due anni. Poi viene dato in
affidamento a due coniugi siciliani. Lui è una guardia di pubblica sicurezza,
la moglie possiede qualche tumulo di terra a Campobello di Licata, in provincia
di Agrigento, in collina, nella fascia sudorientale della Sicilia, a una
ventina di chilometri dal mare, un paese bruciato, di vita grama. La coppia
vive felicemente a Cagliari per due anni con il bambino, poi la moglie si
ammala in modo grave e tutti e tre partono per la Sicilia. La donna muore nel
1955. Franco viene affidato allora alla famiglia della moglie della guardia,
diventato brigadiere di PS. Ma la famiglia si sfascia – malattie, emigrazioni,
bisogni materiali – e chiede che Franco venga ricoverato in qualche istituto di
assistenza in Sicilia per poterlo andare a trovare. L’amministrazione
provinciale di Cagliari, responsabile del destino del ragazzo, nell’aprile 1960
ordina che Franco sia invece affidato all’Istituto del Buon Pastore di
Cagliari. L’Istituto è alla periferia di Cagliari in un quartiere chiamato “Il
Giorgino”.
Un ghetto sottoproletario, allora, con
una desolata aria di abbandono, in un paesaggio nord-africano dove le stagioni
sono segnate, dall’estate alla primavera successiva, dall’arrivo dei
fenicotteri, una lunga striscia di uccelli bianchi, rosa e rossi che prendono
dimora nello stagno di Santa Gilla. Franco non ha ancora compiuto dieci anni,
finisce le elementari. Poi le suore del collegio lo iscrivono alla scuola media
“Giuseppe Manno” di Cagliari. È un bambino e poi un ragazzo chiuso, taciturno,
infelice. Di carattere duro, difficile, bisognoso d’affetto e d’attenzione,
matura nella solitudine i suoi pensieri attorcigliati e contorti. Non è un
bravo scolaro e neppure un bravo studente. Ha ormai quindici anni, i suoi
rapporti con le suore non sono buoni, il conflitto non ha tregua. A quell’età,
negli istituti di assistenza, avviene quasi sempre la rottura con i ricoverati
perché le amministrazioni provinciali smettono di pagare le rette.
Agli inizi del 1968 le suore del Buon
Pastore si rivolgono al giudice del Tribunale dei minorenni, esprimono
l’impossibilità di continuare a ospitare Franco nell’Istituto, motivano le
ragioni del conflitto con l’umore del ragazzo, il cattivo carattere, la
maleducazione, l’aggressività. Il Tribunale decide allora in questo modo, un
capolavoro di umanità e di razionalità: «Siccome la personalità del giovane
appare gravemente disturbata per assoluta carenza affettiva e lunga
istituzionalizzazione, la personalità del soggetto deve essere bene aiutata con
un trattamento affettuosamente comprensivo e sostenitore». Il dispositivo della
sentenza conclude che Serantini «per rimediare alla lunga
istituzionalizzazione» deve essere rinchiuso in un riformatorio. Lo permette
una legge fascista, un regio decreto del 1939 allora in vigore. Davvero il
rimedio più appropriato per aiutare un giovane incensurato che ha avuto una
difficile vita. Il sistema più adatto a trasformare onesti ragazzi in
criminali.
L’Istituto di osservazione per i minori
di Firenze destina Franco Serantini all’Istituto di rieducazione maschile
Pietro Thouar di Pisa in regime di semilibertà. L’équipe formata da uno psichiatra,
da uno psicologo, da un assistente sociale, dopo un lungo esame, ritiene
intelligente il ragazzo sardo. Il suo quoziente intellettuale è di 1,02, il
quoziente medio è in genere di 0,70.
Pisa, per Franco Serantini, rappresenta
la scoperta della vita. La città lo affascina. È il diverso modo di vivere che
lo affascina. In Toscana esiste da sempre una pietosa attenzione popolare per
gli orfani. Anche l’essere uno del San Silvestro, l’istituto Thouar che lo
ospita, non gli pesa, non gli importa molto dire che è uno del riformatorio. È
relativamente libero, può uscire anche la sera, fino alle 9 e mezzo. Certo, non
ha mutato di colpo il carattere, è soggetto a sbalzi d’umore, spesso insonne,
ribelle per amore e per mancanza di affetti. Ma diventa rapidamente un altro in
quel ’68, nell’esplosione collettiva di protesta, di manifestazioni, di marce,
di parole spesso incomprensibili. È orgoglioso, con un profondo senso della
solidarietà, come hanno testimoniato quanti l’hanno conosciuto e gli sono stati
vicini. La passione per la politica prende anche lui.
Ha solo quattro anni di vita, Franco
Serantini. Spende bene quelle sue ultime stagioni. La sua vicenda, ricordata
anche con patimento tanti decenni dopo, vale in assoluto, simbolo di tutta una
generazione, inadeguata forse, utopica, presuntuosa, che dopo ha spesso tradito
se stessa, incapace di pesare la consistenza dei rapporti di forza che è poi la
politica, ma piena di passione, di voglia di fare.
Pisa è in quegli anni, con Trento e
Torino, la capitale della contestazione studentesca. Franco Serantini si trova
subito a suo agio in quel gran trambusto. Si è come risvegliato. Va a scuola
volentieri, prende la licenza media, si iscrive all’Istituto professionale di
Stato per il commercio che fa conseguire diplomi di contabili, segretari
d’azienda, addetti agli uffici turistici. È attento a tutto e a tutti, come se
volesse recuperare un tempo perduto. Studia, legge quel che trova,
confusamente, acerbamente, con difficoltà, privo com’è di ogni base di saperi.
Frequenta la Federazione giovanile comunista, poi la federazione giovanile
socialista. Non possiede idee generali, neppure a livello elementare, cerca di
supplire con la volontà di capire. Spesso non comprende i linguaggi che devono
tener conto delle tattiche partitiche. È una lastra levigata. Rifiuta le
prudenze, le contraddizioni, gli opportunismi.
La strage di piazza Fontana è un evento
essenziale per comprendere quegli anni infuocati. Una cesura. Serantini si
appassiona di quel che è accaduto a Milano, vuol sempre parlare di Valpreda, di
Pinelli, della strage di Stato. Comincia a farsi vedere nella sede di Lotta
Continua, è individualista, non accetta neppure le regole più normali del
gruppo. Si dà da fare, il ragazzo sardo. Donatore di sangue, cameriere d’estate
a Viareggio, operaio stagionale in una fabbrica di piastrelle. Se non si
racconta con minuzia la povera, ma orgogliosa vita di Franco Serantini, non si
può comprendere appieno la ferocia della sua morte. L’esperienza del mercato
rosso al Cep, nato da un’idea di Lotta Continua, lo coinvolge come tutto quello
di cui si occupa.
Un gruppo di ragazzi compra negli orti
frutta e verdura e la vende agli abitanti di quel quartiere popolare a prezzi
molto inferiori ai negozi. Un’economia primitiva alla Robinson Crusoe. I
commercianti della zona protestano, il clima di tensione si fa caldo, la
polizia interviene, picchia i ragazzi, fa degli arresti. Franco se la cava a
malapena durante una retata. Il ragazzo sardo continua a leggere, vuol colmare
i suoi vuoti, si appassiona a tutti i libri che gli capitano in mano. Compra,
chissà come, chissà perché, Magnati e popolani a Firenze dal 1280 al 1295 di
Gaetano Salvemini. La cultura come vita, strumento essenziale per capire il
mondo. Costruita dal nulla sulla cera vergine.
Ha un carattere più aperto, meno difeso,
fa la conoscenza di tre giovani coppie della borghesia colta. Lo invitano nelle
loro case accoglienti. Sono spiritosi, affettuosi, cercano di dare anche un
ordine al suo povero bagaglio culturale. Acquista un quaderno dalla copertina
nera, ci scrive sopra tutto quel che gli viene in mente, Valpreda, Pinelli, i
fatti della Bussola del ’68, il ferimento di Soriano Ceccanti, la
contestazione, l’autunno caldo. Frequenta un corso di contabilità d’azienda, fa
lavori precari in un ufficio di perforazione schede appaltato dall’Ibm. Con i
suoi guadagni ha messo da parte qualche soldo e ha comprato un Ciao usato color
blu. Su e giù per le strade della città, una festa. La vita e la morte di
Franco Serantini, un puntino nella storia del mondo, possono fare da specchio a
quel che accade nell’intero mondo.
Il ragazzo sardo abbandona Lotta
Continua, detesta i piccoli capi imperiosi, le volontà egemoniche, le
gerarchie, le burocrazie. Alla fine del 1971 si avvicina con naturalezza agli
anarchici. Ha letto nel frattempo, con i libri sul fascismo, sull’antifascismo
e la Resistenza che lo appassionano, i testi classici dell’anarchia, Bakunin,
Malatesta, Cafiero, Kropotkin. Non è un estremista della violenza, è
esuberante, desideroso di agire. Lavora come un dannato a scrivere volantini,
li tira al ciclostile, va a distribuirli dove e come può. I vecchi anarchici
che passano le loro giornate immobili nel camerone di via San Martino, vicino
alla Confraternita della Misericordia, sono colpiti e qualche volta anche
disturbati dall’attivismo dei giovani del Gruppo anarchico Pinelli di cui
Serantini è l’anima.
Ha pochi anni di vita, Franco Serantini.
Un breve conto alla rovescia con la morte, il suo. Il 1972 arriva in fretta, il
ragazzo sardo non ha ancora compiuto 21 anni. Il nuovo governo Andreotti non
ottiene la fiducia del Senato e si dimette. Il presidente della Repubblica
Leone scioglie il Parlamento e indice le elezioni per il 7 e l’8 maggio. A Pisa
la campagna elettorale è aspra, il clima politico è avvelenato, si temono
incidenti per la giornata di chiusura della campagna elettorale, venerdì 5
maggio. La città sembra in stato d’assedio. Da Roma è arrivato il I
Raggruppamento celere, sono di servizio anche i carabinieri paracadutisti.
Chiudono come in una tenaglia il posto del comizio, il Largo Ciro Menotti, una
piccola piazza del centro crocevia di piccole strade ideale per la guerriglia
urbana. Sono in programma un comizio fascista al quale si oppone con durezza
Lotta Continua e un comizio della sinistra. Il sindaco, l’amministrazione è di
sinistra, cerca di opporsi, inascoltato, all’uso di quel posto pericoloso. Il
conflitto esplode subito violento. Sembra che gli agenti di polizia abbiano
perso i lumi, loro e chi li comanda. Sparano centinaia di lacrimogeni in ogni
direzione, si sentono anche colpi di pistola. I giovani di Lotta Continua hanno
costruito barricate, lanciano pietre e bottiglie molotov. Tre ore di aspra
guerriglia.
Franco Serantini è immobile, solo – un
segno del destino – all’angolo tra il Lungarno Gambacorti e via Mazzini.
Avrebbe potuto facilmente fuggire, salvarsi. Gli saltano addosso almeno in
dieci poliziotti, lo tempestano di colpi, coi calci dei fucili, i manganelli, i
piedi, i pugni, con ferocia, con crudeltà. Manifestano su quel povero ragazzo
inerme tutta la loro rabbia, la loro furia, la loro frustrazione. Il suo corpo
viene massacrato, al capo, al torace, sulle braccia, sulle spalle.
Anche nella morte Franco Serantini
soffre della stessa sfortuna che gli è toccata in vita. Viene arrestato, poco
dopo le 8 della sera di quel venerdì 5 maggio. Il commissario di PS annota sul
suo verbale quel che gli viene contestato: «Manifestazione sediziosa,
vilipendio delle forze dell’ordine». Non ha mosso un dito. Gridava insulti,
nient’altro. Viene portato in una caserma. Non riesce a restar ritto, dicono i
testimoni. All’una di notte è rinchiuso nel carcere Don Bosco. Sta visibilmente
male, è bianco come un cencio, ha il corpo spezzato. Dopo il mezzogiorno del
sabato è interrogato in carcere dal sostituto procuratore della Repubblica
Giovanni Sellaroli: non si rende conto che Franco sta morendo. Sta male, non
riesce neppure a tener su la testa, risponde alle domande del magistrato con il
capo appoggiato al tavolo. Viene chiuso in una cella di isolamento.

Franco Serantini non viene ricoverato,
non gli viene fatta una radiografia, viene semplicemente rimandato in cella da
dove era venuto. Ma entro sera avrà la borsa di ghiaccio da mettere sul capo
prescritta dal medico. Muore alle 9,45 del 7 maggio 1972. Il certificato di
morte parla di emorragia cerebrale. Tutto qui. La sorte, se così si può dire,
seguita a infierire su Franco Serantini. Si tenta di seppellirlo in fretta, di
nascosto. Manca il nulla osta del procuratore della Repubblica, non sono
neppure passate le 24 ore prescritte dal regolamento. L’impiegato dello Stato
civile del Comune fa quel che deve, rifiuta di firmare l’autorizzazione e il
tentativo va a monte. Non è finita per Serantini. Il 25 ottobre di quell’anno,
quando viene depositata la perizia medico-legale, subisce un altro affronto.
Quasi a dire che Franco se l’è voluta la sua morte, visto che anche fisicamente
non era uguale agli altri. È scritto nella perizia, firmata da illustri
luminari, che Serantini Franco era «portatore di una voluminosa milza», da
bambino, infatti, aveva avuto la malaria e le ossa della sua testa – scrivono i
periti – erano più sottili del normale: la diploe – lo strato di tessuto
situato tra le ossa del cranio – di Franco Serantini era di 0,30 centimetri di
spessore invece di 0,40, 0,45 e quindi aveva una minore resistenza ai colpi.
A Franco Serantini è toccata una doppia
morte. La morte selvaggia a opera della polizia e la morte decretata dalle
istituzioni che non hanno fatto giustizia, tra conflitti giudiziari,
avocazioni, tentati trasferimenti di magistrati, reticenze, bugie. Se almeno
fosse servita a evitare morti atroci venute dopo, a impedire violazioni della
legge e della Costituzione della Repubblica, la somma Carta che si fa di tutto
in questi anni per cancellare! Non è accaduto. Uomini dello Stato, il cui
compito è quello di garantire la sicurezza dei cittadini, sono risultati
responsabili di gravi illegalità. Il più delle volte non hanno pagato alcuno
scotto, quando non ne hanno tratto vantaggi di carriera. Dalla vita, Franco
Serantini ha avuto soltanto un dono, il funerale.