Sacko Soumayla, ventinovenne
maliano, è morto ucciso a fucilate ieri notte nelle campagne di San Calogero,
tra Rosarno e Calimera, nel vibonese. Qualcuno ha sparato da lunga distanza.
Altri due uomini, Madiheri Drame, 30 anni, e Madoufoune Fofana, 27 anni, sono
stati feriti. Si trovavano all’entrata dell'ex Fornace, una fabbrica
abbandonata, alla ricerca di vecchie lamiere e altro materiale utile per
costruire un riparo di fortuna dove riposarsi dal lavoro nei campi.
Era uno dei tanti braccianti che
si spaccano la schiena nelle campagne per pochi euro, per raccogliere le arance
che troviamo a caro prezzo nei supermercati. Era attivo nelle lotte sindacali,
lì in quelle campagne, nella piana di Gioia Tauro. Una morte che non fa
notizia, non troppa. Perché? Perché è un’esecuzione. Una morte non ordinata da
questa società ma appartenente al suo ordine normale di società razzista, dove
i rapporti di classe sono anche rapporti di segregazione razziale e la vita di
quelli come Sacko, esattamente come il suo lavoro, vale meno.
La normalità. C’è chi si
sorprende, si rammarica e poi dimentica. C’è chi la conosce e serra ancora i
pugni dalla rabbia. Una volta di più. Fa schifo. È la stessa storia di
Macerata, quella di Idy Diene a Firenze, quella del giovane senegalese preso a
sprangate perché non riusciva a pagare l’affitto una settimana fa a
Castelfranco di Sotto, vicino Pisa, o quella del giovane rumeno investito da un
treno solo due giorni fa mentre si recava nei campi tra Acerra e San Felice a
Cancello. Poi il mare, dove si affonda. 35 morti al largo della Tunisia. Ma
oltre l’orizzonte nessuno guarda mai.
Questa è la trave nell’occhio che
non vede chi cerca le pagliuzze negli occhi di chi soffre in questo paese: i
neri, gli stranieri muoiono perché neri e stranieri. La minaccia della loro
vita avara e spietata sfiora porzioni di proleteriato bianco e nativo ma ora a
morire sono i neri. La politica segna bene la linea di demarcazione: loro possono
pure morire, voi almeno, no. I fucili e le pistole poi non lasciano dubbi.
Guardate dove e come muoiono, questi neri, per capire come confinino con noi: muoiono
mentre lavorano, nei campi, negli ultimi posti dimenticati da Dio, ovvero,
dietro le nostre case e nelle nostre strade. Oltre l’orizzonte nessuno riesce a
guardare mai perché la vita piega la schiena.
Salvini continua ad andare
all’attacco. Promette guerra: “la pacchia è finita”. È un uomo piccolo.
Aggiunge solo infamia a un dato già presente: questa guerra contro i lavoratori
migranti c’è già. L’ha usata, l’ha sviluppata in rancore per farne rendita
politica, per farne crociata delle istituzioni. Copre quel senso di impunità
che permette di ammazzare un uomo per placare un po’ di vendetta contro la
miseria di questo mondo o semplicemente per suggellare con la crudeltà il segno
del comando.
Ma non ci sono nemici invincibili
capaci di far calare la notte da un momento all’altro, come se si spegnesse
l’interruttore. Chi è angosciato da questo è esente dalla partita di morte, non
conosce la minaccia quotidiana. Salvini cambia poco o se vogliamo cambierebbe
tanto come pretesto per ribellarsi alla regola dei cecchini in un mondo di
bersagli. Hanno ammazzato uno di noi. Chi sente questo odore di morte sa che
non ci sono scorciatoie: non basta un sistema più giusto, bisogna venir fuori
per non far passare in mezzo a noi quella linea di confine tra storie di vita
senza speranza e storie senza speranza di vita, per contare e non farsi
ammazzare. Basta fare da bersagli mobili, finirà questa pacchia...
A Sacko.