Gli
individualisti sanno che gli accumulatori di capitali e gli intermediari non si
preoccupano affatto dei bisogni reali del consumo. Essi hanno come unico motore
la speculazione, ossia il desiderio di far rendere il più possibile l’interesse
sui fondi che impegnano nelle aziende che dirigono o di cui si occupano. Gli
accumulatori di capitali e gli intermediari attivano o riducono la produzione
non secondo l’aumento o la diminuzione del movimento del consumo, bensì solo se
vi intravvedono un’occasione di acquisire profitti più o meno considerevoli. La
qualità della produzione dipende interamente dal potere di acquisto dei
consumatori e non dai loro bisogni: a consumatore agiato, prodotti di qualità
superiore; a consumatore povero, prodotti di qualità inferiore.
Gli
individualisti non ignorano che il lavoro attuale si compie senza metodo,
caoticamente e sono al corrente della lotta accanita cui si abbandonano, gli
uni contro gli altri, i grandi detentori dei mezzi di produzione, così mentre
una massa di diseredati manca degli oggetti di consumo più necessari, i
magazzini rigurgitano di prodotti manifatturieri!
Gli
individualisti non ignorano nemmeno che la maggior parte degli operai, dei
lavoratori delle fabbriche, delle officine, dei campi, degli impiegati di
commercio, d’ufficio, dell’amministrazione, accettano il loro stato e non fanno
nessuno sforzo reale per liberarsi, soddisfatti dei pregiudizi correnti sulla
fortuna, sul rispetto che merita ogni arrivista, imbevuti di concetti
retrogradi sull’accaparramento, il padronato, i monopoli, ecc. Sono schiavi di
pregiudizi morali e intellettuali che mirano al mantenimento di cose stabilite
e che costituiscono la base dell’insegnamento di Stato. Impauriti dalla
minaccia di un licenziamento o della disoccupazione, gli infelici producono,
non avendo altro scopo nella vita che passare inavvertiti, fortunati quando lo
stress o il disgusto non li portano all’alcolismo o a un’altra forma di
«degradazione».
L’individualista
è dunque, di principio, l’avversario di ogni sistema societario in cui il
lavoro sarà obbligatorio, imposto, costretto, in cui, rispetto all’ambiente
sociale, il lavoratore si troverà in una dipendenza grande quanto quella in cui
si trova attualmente nei confronti del capitalismo.
Perché il lavoro
diventi piacere, deve perdere tutto ciò che lo fa assomigliare a una pena, a
una condanna, a una espiazione, a una legge, a un’oppressione, a una
soggezione, persino una sublimazione o una esaltazione mistica della fatica. Aspettando
che si affermi la mentalità generale indispensabile per fare del lavoro una
gioia positiva e liberatrice, all’individualista come noi lo intendiamo – solo
o associato – non resta che darsi da fare per risolvere la «sua» questione
economica. Al di sopra dell’interesse economico, l’individualista metterà la
soddisfazione etica, il
perseguimento
della serenità interiore, il godimento del piacere dei sensi. Nessuna
soddisfazione varrà per lui quanto quella di sentirsi il più possibile liberato
dall’assoggettamento produzione-consumo. La questione non è di sapere se
l’impiego di un macchinismo sempre più perfezionato, il lavoro intruppato, la
pratica del comunismo imposto o del solidarismo obbligatorio gli procureranno
più vantaggi materiali – ma piuttosto cosa diventerà in quanto unità
individuale, cosciente, insubordinata, pensante tramite e per se stessa.
L’individualista
vuole vivere, certo, ma «liberamente».
Il lavoro,
d’accordo, ma come generatore di libertà individuale, non come fattore di
schiacciamento dell’uno sotto il laminatoio societario.