
Umiliato e
pestato sotto la Camera del Lavoro in via Cernaia, venne legato ed un camion e
trascinato sino al monumento a Vittorio Emanuele. Lì, più morto che vivo, venne
finito dai fascisti.
La strage di
Torino fu l’atto finale di una lunga ritorsione, cominciata dopo l’occupazione
delle fabbriche.
I padroni
avevano avuto paura, paura che gli operai in armi passassero all’insurrezione,
espropriando le fabbriche e continuando a far sa se.
Pietro Ferrero era nato a Grugliasco (Torino) il 12 maggio 1892. Durante
la Prima guerra mondiale era stato attivo nelle lotte operaie culminate prima
nell’insurrezione contro la guerra del 1917 in Barriera di Milano, poi nel
biennio rosso. Fu attivo nella CGL contro l'ala riformista del sindacato, militando
nella corrente rivoluzionaria. Nel 1917, insieme ai compagni anarchici della Barriera
di Milano, partecipò ai moti di Torino contro il padronato e la guerra; nel 1919
venne eletto segretario della sezione torinese della FIOM. Nell'aprile 1920 fu attivo
nello "sciopero delle lancette" contro la decisione unilaterale della
Fiat di spostare l'orario di lavoro dall'ora solare a quella legale e negli eventi
che porteranno all'occupazione delle fabbriche nel settembre 1920, durante il biennio
rosso. Con Garino si opporrà all’abbandono delle fabbriche voluto dalla gran parte della
dirigenza della FIOM.
Sapeva che se
avessero mollato, il prezzo sarebbe stato durissimo. Licenziamenti, reparti
confino, pestaggi, omicidi.

Pochi sanno è
che nel dopoguerra Brandimarte venne reintegrato nell’esercito e seppellito con
gli onori militari.
Nulla di cui
stupirsi. Il comunista Togliatti, ministro della giustizia del primo
dopoguerra, amnistiò i fascisti, che aveano imprigionato, torturato e ucciso
partigiani e antifascisti.
Gli antifascisti
imprigionati per aver combattuto il fascismo fuori dalle date ufficiali della
Resistenza, restarono in carcere per decenni. La Resistenza venne imbalsamata
quando ancora era nell’aria la polvere da sparo, quando viva era la memoria
degli anni di Salò, dei deportati e degli uccisi.
L’Italia
democratica imprigiona i partigiani, libera e onora i fascisti.
Milano, 15
dicembre 1969. L’anarchico Pino Pinelli viene ucciso nei locali della questura
di Milano e gettato dal quarto piano per simulare un suicidio. Tre giorni prima
una strage di Stato, eseguita da fascisti agli ordini del governo, aveva fatto
16 morti nella sede della banca dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano. La
questura e i media puntarono il dito sugli anarchici: Pietro Valpreda farà tre
anni di carcere prima che la pressione delle piazze porti alla sua liberazione.
Questore di
Milano era Marcello Guida, già capo del confino di Ventotene, dove vennero
rinchiusi centinaia di antifascisti, molti dei quali anarchici.
Per quella
strage non ci sono colpevoli, l’omicidio di Pinelli venne archiviato come
“malore attivo”. Lo Stato non processa se stesso.
Il fascismo non
finisce il 25 aprile del 1945. La Repubblica teme che i semi sovversivi
piantati durante la resistenza germoglino: i funzionari, poliziotti e giudici
fascisti restano al loro posto.
Nel 1969 un
vento di libertà scuoteva le fabbriche, le scuole, i quartieri. La strage di
piazza Fontana, preparata dall’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno,
fu la risposta di chi sperava in una clima di terrore, per imporre una svolta
autoritaria.
Non ce la
fecero. Tutti sapevano chi era STATO.
Fascisti vecchi
e nuovi furono la manovalanza di una trama tessuta da chi temeva che i
movimenti di quell’anno potessero prendere una piega sovversiva.
Quando i
movimenti sociali fanno paura, lo Stato reagisce con la violenza.
La democrazia
reale ammette il dissenso, purché resti semplice opinione, mero esercizio di
eloquenza, banale gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa
azione diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la
democrazia reale mette in campo ogni arma per piegare chi ne nega la
legittimità.
Quando vengono
messi in pericolo proprietà privata, gerarchia, tribunali e polizia lo Stato
democratico colpisce a fondo.
A volte bastano
le regole di un gioco truccato alla partenza, a volte servono squadracce e
fascisti con le bombe. A volte basta un carabiniere con una pistola, come a Torino
il 18 dicembre del 1922, a Milano il 15 dicembre del 1969, a Genova il 20
luglio del 2001.