Felicia Bartolotta nasce a Cinisi, in provincia di Palermo, in una famiglia di piccola borghesia con
qualche appezzamento di terreno di proprietà, coltivato ad agrumi e ulivi. Il
padre era impiegato al Municipio, la madre casalinga, come sarà anche Felicia.
Si sposa, nel 1947, con Luigi Impastato, di una famiglia di piccoli
allevatori legati alla mafia del paese: «Io allora non ne capivo niente di
mafia, altrimenti non avrei fatto questo passo» (così racconta nella sua storia
di vita pubblicata nel volume La mafia in casa mia, da cui sono tratte
anche le citazioni successive). In effetti Felicia sceglie di sposarsi con
Luigi per amore, dopo avere preso una decisione non usuale a quei tempi nelle
famiglie come la sua. Era stata fidanzata con un uomo scelto dal padre, mentre
lei avrebbe voluto un giovane di un altro paese che le piaceva di più, ma non
era benvoluto dalla sua famiglia. Ma poco prima del matrimonio, quando già era
tutto pronto, disse al padre che non voleva più sposarsi e che non dovevano
permettersi di prenderla con la forza (cioè, come si usava, non dovevano
rapirla per la tradizionale fuitina).
Il 5 gennaio 1948 nasce Giuseppe; nel 1949 nasce Giovanni che morirà
nel 1952; nel 1953 nasce il terzo figlio, anche lui Giovanni.
Luigi Impastato, durante il periodo fascista, aveva fatto tre anni
di confino a Ustica, assieme ad altri mafiosi della zona, e durante la guerra
aveva fatto il contrabbando di generi alimentari. Dopo non ebbe più problemi
con la giustizia.
Uno dei suoi fratelli, soprannominato “Sputafuoco”, era impiegato
come gabelloto (affittuario) in un feudo. Il cognato di Luigi, Cesare Manzella,
marito della sorella, era il capomafia del paese. Manzella muore nel 1963,
ucciso assieme al suo campiere (guardia campestre) dall’esplosione di un’auto
imbottita di tritolo, durante la guerra di mafia che vide contrapposte la cosca
dei Greco, con cui era alleato, e quella dei La Barbera. La morte dello zio
colpisce profondamente Peppino, che aveva quindici anni e da tempo aveva
cominciato a riflettere su quanto gli dicevano il padre e lo zio. Felicia
ricorda che le diceva: «Veramente delinquenti sono allora».

Per quindici anni, dall’inizio dell’attività di Peppino fino alla
morte di Luigi, avvenuta otto mesi prima dell’assassinio del figlio, la vita di
Felicia è una continua lotta, che però non riesce a piegarla. In quegli anni
non ha più soltanto il problema delle amicizie del marito. Ora c’è da difendere
il figlio che denuncia potenti locali e mafiosi e rompe con il padre,
impegnandosi nell’attività politica in formazioni della sinistra assieme a un
gruppo di giovani che saranno con lui fino all’ultimo giorno.
Felicia difende il figlio contro il marito che lo ha cacciato di
casa, ma cerca anche di difendere Peppino da se stesso. Quando viene a sapere
che Peppino ha scritto sul giornale ciclostilato «L’idea socialista» un
articolo sulla mafia fa di tutto perché non venga pubblicato: «…fece un
giornalino e ci mise che la mafia era merda. Quando l’ho saputo io, salgo sopra
e vedo… E dissi: “E dài, Giuseppe figlio, io ti do qualunque cosa se ti mi
consegni quel giornalino. Tu non lo devi pubblicare quel giornale”…Andavo da
tutti… dicendo di non presentare quel giornalino». E quando l’attività politica
di Peppino entra nel vivo, non ha il coraggio di andare a ascoltare i suoi
comizi, ma intuendo di cosa avrebbe parlato chiede ai suoi compagni di
convincerlo a non parlare di mafia. E a lui: «Lasciali andare, questi
disgraziati».

La mattina del 9 maggio 1978 viene trovato il corpo sbriciolato di
Peppino. Felicia dopo alcuni giorni di smarrimento decide di costituirsi parte
civile (allora era possibile chiederlo anche durante la fase istruttoria). Una
decisione che nelle sue intenzioni doveva servire anche per proteggere
Giovanni, il figlio che le era rimasto e che, al contrario, in questi anni si è
impegnato assieme alla moglie (anche lei Felicia), per avere giustizia per la
morte di Peppino. Felicia ricorda: «Gli dissi: ‘Tu non devi parlare. Fai
parlare me, perché io sono anziana, la madre, insomma non mi possono fare come
possono fare a te’». Per questa decisione ha dovuto fare ancora una volta una
scelta radicale, rompere con i parenti del marito che le consigliavano di non
rivolgersi alla giustizia, di non mettersi con i compagni di Peppino, con i
soci del Centro siciliano di documentazione di Palermo, successivamente
intitolato a Peppino, di non parlare con i giornalisti.
Al contrario, da allora Felicia ha aperto la sua casa a tutti coloro
che volevano conoscere Peppino. Diceva: «Mi piace parlarci, perché la cosa di
mio figlio si allarga, capiscono che cosa significa la mafia. E ne vengono, e
con tanto piacere per quelli che vengono! Loro si immaginano: ‘Questa è
siciliana e tiene la bocca chiusa’. Invece no. Io devo difendere mio figlio,
politicamente, lo devo difendere. Mio figlio non era un terrorista. Lottava per
cose giuste e precise«. Un figlio che: «… glielo diceva in faccia a suo padre:
‘Mi fanno schifo, ribrezzo, non li sopporto… Fanno abusi, si approfittano di
tutti, al Municipio comandano loro’… Si fece ammazzare per non sopportare tutto
questo».

Badalamenti è stato condannato, come pure è stato condannato il suo
vice.
Entrambi sono morti, e Felicia, che aveva sempre detto di non volere
vendetta ma giustizia, a chi le chiedeva se aveva perdonato rispondeva che
delitti così efferati non possono perdonarsi e che Badalamenti non doveva
ritornare a Cinisi neppure da morto. E il giorno in cui i rappresentati della
Commissione parlamentare antimafia le hanno consegnato la Relazione, in cui si
dice a chiare lettere che carabinieri e magistrati avevano depistato le
indagini, esprime la sua soddisfazione: «Avete risuscitato mio figlio».
Felicia ha accolto sempre con il suo sorriso tutti, in quella casa
che soltanto negli ultimi tempi, dopo un film che ha fatto conoscere Peppino al
grande pubblico, si riempiva, quasi ogni giorno, di tanti, giovani e meno
giovani che desideravano incontrarla. Rendendola felice e facendole dimenticare
i tanti anni in cui a trovarla andavamo in pochi e a starle vicino eravamo
pochissimi. E ai giovani diceva: «Tenete alta la testa e la schiena dritta».
“La mafia non si combatte con la pistola ma con la
cultura”
Felicia Impastato
Cinisi (PA), 24 maggio 1916 – Cinisi (PA), 7
dicembre 2004