Il 19 luglio del 2012 le regioni
del Rojava, il Kurdistan siriano, proclamarono l’autonomia, sancendo
formalmente un processo rivoluzionario di segno chiaramente libertario.
Una rivoluzione democratica
radicale, che è divenuta l’unico baluardo contro lo Stato Islamico, le
formazioni quaediste, il regime del Baas, il partito della dinastia Assad.
La resistenza all’assedio di
Kobane e la liberazione della città tra il settembre del 2014 e il gennaio del
2015 ha acceso i riflettori su quest’angolo di Siria.
La Turchia dell’islamista
Erdogan, ha sostenuto – sia pure non ufficialmente – l’ISIS in Siria ed ha poi
scatenato una vera guerra civile in ampie zone del Bakur, il Kurdistan turco.
Città bombardate, rase al suolo,
centinaia di morti, profughi, senza casa.
Il fallito colpo di stato animato
dai seguaci del ex alleato islamista Fethullah Gulen lo scorso luglio ha dato
mano libera al governo turco contro ogni forma di opposizione sociale. Sono
decine di migliaia le persone imprigionate, licenziate, torturate; sono decine
le sedi politiche e i giornali chiusi.
A fine agosto il governo turco,
dopo aver ripreso le relazioni con la Russia e il governo siriano, ha deciso di
intervenire direttamente in Siria. I suoi tank e aerei si sono scagliati contro
le milizie di autodifesa popolare del Rojava.
L’esperienza del Rojava è oggi
sotto attacco mortale dell’esercito turco. Il ministro degli esteri turco
Mevlut Cavusoglu, dopo un incontro con il suo omologo saudita, ha annunciato la
soluzione finale per l’autogoverno del Rojava.
L’Unione Europea ha già, di
fatto, dato il via libera al massacro dei curdi stanziando, il giorno stesso
della dichiarazione di guerra, 348 milioni di euro a favore della Turchia che
si aggiungono ai 6 miliardi già decisi per i “profughi”.
La tregua annunciata dai ministri
degli esteri russo e statunitense potrebbe avere come prezzo l’annullamento o
il sostanziale ridimensionamento dell’esperienza curda, con le truppe del
sultano di Istanbul stanziate nel nord ed il resto del paese diviso tra zone
sotto il controllo di Assad e zone lasciate a formazioni islamiste vicine ai
sauditi.
La posta in gioco in quest’area
del pianeta è molto alta. Lo sanno bene gli uomini e le donne in armi che
difendono la propria autonomia dalle truppe dell’ISIS, da quelle turche, di Al
Nusra e dell’esercito siriano.
Presto il silenzio, che certa
stampa rompe solo per fare folclore sulle donne in armi, potrebbe calare sulla
storia di gente che si organizza dal basso in comuni e comitati per decidere da
sé come amministrarsi.
Negli ultimi anni, in varie zone
del pianeta, si sono sviluppati movimenti di lotta che sia nelle modalità
organizzative, sia negli obiettivi hanno modi libertari. Partecipazione
diretta, costruzione di reti solidali su base locale, mutazione culturale
profonda che investe le relazioni di dominio nel corpo sociale ne sono il segno
distintivo, oltre alla durezza dello scontro con le istituzioni statali e
religiose che controllano i vari territori.
La caratteristica importante di
questi movimenti è il radicarsi in aree del pianeta dove negli ultimi quindici
anni si sono sviluppati movimenti di stampo religioso reattivi
all’occidentalizzazione forzata.
Si va dalla Kabilia, la regione
berbera dell’Algeria, al Messico all’India, sino al Rojava.
Qui, dal 2012, profittando del
“vuoto” lasciato dal governo di Damasco per la guerra civile che sta ancora
insanguinando il paese, uomini e donne stanno sperimentando il confederalismo democratico.
Ispirato alle teorie del municipalismo libertario dell’anarchico statunitense
Murray Bookchin, l’autogoverno in Rojava rappresenta un tentativo laico,
femminista e libertario di praticare un’alternativa ai regimi autoritari che si
contendono la Siria.
In Rojava si stanno sperimentando
modalità di partecipazione diretta di segno marcatamente libertario.
Non solo. Per la prima volta tra
la gente di un popolo senza stato, diviso da frontiere coloniali, c’è chi
dichiara esplicitamente di non volere un nuovo Stato, di rifiutare ogni
frontiera, di lottare perché la gente si autogoverni su base territoriale,
senza più frontiere. Se non ci sono frontiere non possono esserci nemmeno
stati. Un’attitudine rivoluzionaria che inquieta tutti i governi in ogni dove.
Per la prima volta l’illusione
che lotta di classe e indipendentismo siano ingredienti di una stessa minestra
rivoluzionaria, capaci di catalizzare una trasformazione sociale profonda,
tipica della sinistra autoritaria, si scioglie come neve al sole, aprendo la
possibilità di un percorso libertario.
L’integralismo religioso e le
satrapie mediorientali non sono un destino.
La solidarietà con il Rojava ci
riguarda tutti, perché la storia che hanno cominciato a costruire apre uno
spazio di libertà e uguaglianza importante per tutti. In ogni dove.
Federazione Anarchica Torinese