..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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venerdì 17 ottobre 2025

E cos'è l'anarchia se non la vera libertà

"Anarchia è disordine, gerarchia è ordine sono per i più concetti che si equivalgono. Noi però differenziamo l'ordine naturale dall'ordine artificiale. L'attuale ordine di catene, nel quale una infinità di gerarchie grava con l'immane peso sulla collettività, plasmandone a suo posto, con i mezzi giganteschi che possiede, il pensiero, il sentimento, i costumi, il carattere; opponendosi con la autorità religiosa, politica, economica, giudiziaria, militare, scientifica, artistica allo svolgimento libero ed integrale dell'individualità umane; l'attuale ordine ci appare ed è realmente un tremendo disordine nell'ordine naturale. Di codesto ordine che è quiete, che è privilegio, che è servitù, non vogliamo saperne. Via le gerarchie che dall'alto di cento Sinai dettano leggi all'umanità intiera. Sparisca ogni autorità, perché in condizioni normali non ha ragione d'essere. Che le volontà individuali si manifestino liberamente nella collettività, armonizzino tra loro per la forza stessa dei bisogni comuni, si formulino nel seno della collettività, e da lei insieme trasmesse ai centri ed uffici esecutivi. Questo, che noi vogliamo applicato in ogni atto del vivere civile, è il vero ordine naturale, ed è ciò che noi, a significare negazione di governo, di autorità, di tutela, chiamiamo anarchia ... Prima ancora che la fisiologia ci dimostrasse l'essenza del pensiero, i fatti ci avevano insegnato essere la libertà l'atmo­sfera più favorevole all'umano intelletto. E cos'è l'anarchia se non la vera libertà, la libertà intera, completa, la quintessenza della libertà applicata non solo agli ordinamenti politici, ma altresì ad ogni atto della vita pubblica a privata? È tempo finalmente che gli uomini onesti prendano l'abitudine dell'anarchia, esercitando la tolleranza ed il rispetto verso l'altrui libertà. Sparisca dunque, il sacro orrore per l'anarchia, sinonimo di disordini, e cada l'accusa ingiustificabile - vero qui pro quo - che noi sacrifichiamo l'individualità umana allo Stato, perché questo - lo Stato come ente legislativo - non vorremmo; quella che vogliamo completamente libera ed associata anarchicamente".

Questo il significato di anarchia secondo Giovanni "Cardias" Rossi, parole scritte nel prologo intitolato "Sragionamenti" de Una comune socialista (con prefazione di Andrea Costa. Tipografia Sociale Operaia. Brescia, quarta edizione 1884). Con questi ideali nel 1890 si imbarcò, con altri compagni, alla volta del Brasile dove fondarono la Colonia Cecilia, la colonia durò quattro anni, attraversando varie difficoltà fino allo scioglimento. Rossi dichiarò in seguito che l'esperimento era riuscito: avevano vissuto in comune senza leggi, senza capi, senza governo, nella vera libertà. Era stata un esperimento nuovo nella storia perché "vi potesse essere messa alla prova l'idea organica dell'anarchia".


martedì 14 ottobre 2025

Gli anarchici e la lotta contro la galera. Motivi di una seria riflessione (parte 4)

 

Tuttavia per valutare al meglio le due possibilità bisogna che si tenga pur conto del fatto che se non si coinvolge nell’un caso e nell’altro il “mondo carcerario” – cioè i detenuti, le loro famiglie ed i loro amici – raggiungere qualsiasi obbiettivo sarà veramente fuori delle possibilità. Anche se la mobilitazione si allarga sul piano internazionale, come di già si sta concretizzando.

Non resta che valutare se le due possibilità possono viaggiare assieme, non escludersi a vicenda bensì integrarsi l’una nell’altra. Ed io credo che solo così si ha possibilità concreta di vincere la battaglia e salvare la vita al nostro compagno. Per cui:

·         agire fin da subito per tentare di coinvolgere nell’immediato i detenuti nel loro complesso, i loro familiari e amici in una campagna contro la galera in quanto ISTITUZIONE;

·         iniziare la campagna contro i disumani trattamenti nelle carceri, le sue torture ed i suoi ricatti a tutti i reclusi;

·         palesare la barzelletta del carcere come cura degli “errori fatti” e del reinserimento dei prigionieri entro un sociale che li genera quotidianamente a decine di migliaia;

·         mobilitarsi in ogni territorio ove vi sono penitenziari per sensibilizzare le persone che vi si recano a colloquio in modo tale che arrivino all’interno le notizie sulla mobilitazione ecc.

·         chiarire che l’anarchismo lotta per la distruzione della galera e del sociale che la genera, ma al contempo chiarire anche che è entro il sociale medesimo che si creano le condizioni per risolvere le brutture, le imposizioni e le prepotenze ai danni di persone ed individui che non vogliono sottostare ai voleri altrui.

Gli anarchici l’istituzione galera non la vogliono per nessuno, né per gli autori di stragi, né per i responsabili delle guerre e della miseria diffusa, né per i fautori delle più indicibili atrocità, mafiosi, politici, industriali, finanzieri ed altro che siano: con tutti loro, i conti si fanno in altro modo!

Se non siamo in grado di portare avanti il NOSTRO discorso, con i NOSTRI fondamenti, la battaglia è di già persa prima di iniziarla.

(Un precedente significativo di lotta simile è senza dubbio quella iniziata nel 1999-2000 e perdurata qualche anno contro il regime penitenziario FIES, entro i domini dello Stato spagnolo; dalla documentazione, esistente in maniera massiccia, potranno emergere le positività ma anche le carenze manifestate dal movimento nostro e della sua debolezza di fondo, frutto di una eredità ancorata a strutture organizzative superate dal corso degli eventi, ed incapace di parlare e di relazionarsi con le masse subalternizzate odierne.

In questa prospettiva viene superato anche il nodo dovuto al fatto che non si potrebbe impostare la mobilitazione direttamente contro il 41bis, in quanto ciò significherebbe allontanare dalla lotta coloro che “inorridiscono” al pensare che anche i mafiosi, “che meritano il regime carcerario” più duro per gli orrendi crimini che hanno commesso, ne beneficerebbero.

Ciò non vuole di certo significare farci le pipe in salotto con lo stupratore, col politico di turno che cercherà di fungere da mediatore, col mafioso che impone il suo ordine corroborando così quello dello “Stato assente”, ecc.

Dobbiamo tentare di porre in piedi una mobilitazione generale il cui fine è salvaguardare la vita dei nostri compagni e compagne ed al medesimo tempo fare una campagna contro la istituzione galera ed il sistema che la genera, ma in cui le modalità del nostro procedere e comportarci siamo in grado di esplicarle e gestirle in un contesto ove saranno presenti forze strumentalizzatrici di ogni tipo.

sabato 11 ottobre 2025

Gli anarchici e la lotta contro la galera. Motivi di una seria riflessione (parte 3)

 

L’asserzione secondo cui “gli anarchici e le anarchiche” non potrebbero tenere sequestrate (“incarcerate”) delle persone perché ciò sarebbe sconfessare i presupposti dell’anarchismo, se valutata alla luce della realtà sociale effettiva ed alle condizioni in cui tali fatti si svolgono, viene a perdere la sua apoditticità, rivelandosi assolutamente relativa.

Questa che di primo acchito potrà sembrare una divagazione, mi pare invece una introduzione indispensabile per affrontare al meglio la tematica anarchismo-galera, e precisamente per significare in quale maniera e perché gli anarchici vogliono la distruzione di ogni forma di istituzione penitenziaria, non accettando che alcuno vi sia destinato.

È di estrema attualità, infatti, il dibattito e la lotta intrapresa dagli anarchici a seguito dell’applicazione del 41bis del Regolamento carcerario, e conseguente trasferimento al penitenziario di Sassari (Bancali), del compagno Alfredo Cospito, già in galera da una decina d’anni per l’azzoppamento di uno dei corresponsabili italiani dell’industria del nucleare (una delle più floride), e che dal 24 di ottobre ha iniziato lo sciopero della fame fino a lasciarsi morire, contro la stessa esistenza di quell’articolo e dell’ergastolo ostativo.

Infatti, il medesimo 41bis pone compagni e compagne di fronte a non poche problematiche di diverso ordine, che ovviamente si riflettono sulle modalità della lotta in solidarietà ad Alfredo ed ai/alle compagni/e che hanno a loro volta iniziato lo sciopero della fame per rafforzare la sua lotta.

 

GLI ANARCHICI E LA LOTTA CONTRO IL 41bis

Il regime carcerario previsto dall’articolo 41bis del Regolamento Penitenziari (R.P.) prevede tutta una serie di restrizioni che, affiancando l’isolamento in pratica totale del detenuto, mirano al suo annientamento psico-fisico, in poche parole è una tortura per altro inflitta fino al suo ultimo respiro.

Originariamente imposto per i condannati per reati di mafia, viene via via esteso ai detenuti per altri reati, tra cui primeggiano quelli per sequestro di persona e per cosiddetto terrorismo.

Ora, Alfredo Cospito è in sciopero della fame deciso a vincere la battaglia oppure a lasciarsi morire, per cui tutti siamo consapevoli della urgenza di un intervento in grado di mettere su in tempo sufficiente una forza tale da imporsi allo Stato. La vicenda che così ci si impone offre apparentemente due possibilità:

1.    personalizzare in certo qual modo la lotta contro il 41bis, cioè affrontare immediatamente la sfida lanciata dallo Stato con gli strumenti che si hanno, da soli o unitamente a quelle altre forze che si mobilitano anch’esse nell’immediato per sostenere la lotta contro il 41bis imposto già da una decina d’anni anche ad altri/e rivoluzionari/ie in galera – in altri termini puntiamo a tirare fuori nell’immediato i rivoluzionari sottoposti a tale regime carcerario di annientamento;

2.   mobilitarsi fin da subito per una campagna estesa che sia al contempo contro il carcere in generale e la detenzione speciale in particolar modo.

Nel primo caso mi pare velleitario pretendere che si raggiunga in tempi stretti una forza tale da riuscire ad imporre allo Stato di rimangiarsi le sue decisioni; e d’altro canto non si può neppure sperare che nel giro di poco tempo tutte quelle forze “progressiste” che fin dall’inizio non si sentono mobilitate perché non tenute in conto, sostengano sia pure a modo loro la lotta intrapresa.

La seconda possibilità, di primo acchito, pare richiedere più tempo, ed una strategia della mobilitazione che presenta grossi intoppi fin dall’inizio. Proprio perché si tratta anche di contrastare l’applicazione di un articolo del R.P. originato in funzione della punizione “straordinaria” di delitti di mafia, fra cui atti infami e terribili, si fa notare giustamente da diversi compagni e compagne che proprio per questo anche la parte del sociale che potrebbe solidarizzare con la nostra campagna, se ne starebbe ben lontana (non volendo appunto sostenere in alcun modo agevolazioni alla detenzione di chi si è macchiato di così bestiali crimini).

(continua)

mercoledì 8 ottobre 2025

Gli anarchici e la lotta contro la galera. Motivi di una seria riflessione (parte 2)

Si è anche discusso accanitamente in passato, e forse lo si fa ancora oggi in certi ambienti nostri, a proposito del sequestro di persona a scopo di estorsione, ed è emerso secondo alcuni che «gli anarchici e le anarchiche non sequestrano perché non possono, essi stessi, che sono contro ogni forma di carcere, trattenere in cattività contro la loro volontà alcuna persona, perché ciò significherebbe dare vita a qualche forma di prigione; il che sarebbe ben al di fuori dei fondamenti dell’anarchismo medesimo». Forse non è neppure per puro caso che discussioni come quella appena accennata siano emerse entro il contesto di particolare attenzione da parte delle istituzioni vigenti a scapito degli anarchici e delle anarchiche, e qui la si riporta semplicemente per sottolineare al contempo quanto compagni e compagne cerchino di approfondire alcune tematiche, ma anche quante volte ci si fermi spesso a metà strada, non pervenendo fino in fondo alle discussioni che si affrontano ed alle conseguenti pratiche.

Vi è di certo un fondo di verità in tale ragionamento-posizione, ma è allo stesso tempo vero che esso si erge al di sopra della realtà fattuale, che solo nell’astrazione a-storica risulta sempre uguale. Tant’è che nella realtà, anarchici/che hanno effettuato sequestri di persone non solo per rivendicazioni esplicitamente “politiche”, bensì anche a scopo estorsivo, ovvero per avere denaro in cambio della liberazione dell’ostaggio.

Che cosa vi è di diverso fra il sequestro per estorsione effettuato da anarchici e sequestro effettuato da proletari? Nulla, se si guarda al fatto che entrambi mirano alla “riscossione” del ricatto (che potrà essere, oltre alla somma in denaro, finanche la richiesta di liberazione di propri compagni imprigionati, oppure l’annullamento di sentenze di morte). Nulla di diverso vi è anche se guardiamo alla detenzione temporale del sequestrato, concernente in entrambi i casi il tempo strettamente necessario per garantirsi l’incolumità, oltre a quello atto a far sì che la trattativa ed il riscatto vadano in porto.

(Si badi bene, io non sto affatto dicendo che il sequestro di persona sia la modalità migliore per far sì che compagni e compagne, o anche semplici proletari/ie, si riapproprino di parte almeno di quanto loro sottratto dal sistema imperante di sfruttamento, oppressione, miseria, o di quanto necessitano per energie indispensabili nella lotta quotidiana contro tale sistema. Ciò sta ai singoli deciderlo).

Tuttavia sottolineo una sostanziale e decisiva differenza fra quelle che sono le “prigioni” dei sequestrati a scopo politico o di estorsione di danaro, e la galera di cui si serve lo Stato-capitale per mantenere ed imporre il suo ordine. Nel primo caso non si può affatto parlare di Istituzioni, bensì occasioni del tutto estemporanee valutate come atte a risolvere qualche necessità per altro imposta dallo stato vigente delle cose. Il penitenziario, la galera dello Stato-capitale è invece una Istituzione fra le altre che, nel loro insieme, costituiscono e monopolizzano l’esercizio del potere d’imperio, la cui funzione è stabile nel tempo e il cui scopo è privare della libertà tutti (meglio, quasi tutti) coloro che hanno infranto l’ordine imposto da quanti detengono in esclusiva la facoltà del comando.

(continua)

 

domenica 5 ottobre 2025

Gli anarchici e la lotta contro la galera. Motivi di una seria riflessione (parte 1)

Gli anarchici, proprio in quanto tali, non possono che essere CONTRO LA GALERA, contro ogni tipo di prigione istituzionalizzata. Detto in altri termini, l’istituzionalizzazione di un luogo interno al sociale ma al contempo separato dallo stesso, è l’opposto dei fondamenti medesimi dell’anarchismo, essendo l’anarchismo la negazione di ogni autorità d’imperio dell’uomo sui suoi simili.

Tuttavia l’anarchismo non è affatto garanzia che in ogni luogo ed in ogni tempo non vi siano attriti fra individui o gruppi di individui, attriti di diversa natura e origine, che scatenano anche momenti di conflitto che sfociano pure in guerre di supremazia fra le fazioni, e che possono determinare fasi violente che varcano i limiti della sfera interna ai contendenti, spaziando nell’intero corpo sociale fino a coinvolgere questo in una instabilità tale da lacerarlo così tanto da decretarne la scomparsa per autodistruzione.

Ciò non è ipotesi fantasiosa, tanto è vero che pure ipotizzando il rivoluzionamento dell’esistente secondo la tensione anarchica, e cioè ipotizzando la distruzione rivoluzionaria del presente storico e l’avveramento di una società senza potere centralizzato, tenendo nel dovuto conto le migliaia di anni in cui il dominio dello Stato ha conformato le menti alla sua necessità di eternarsi – amalgamando le genti ai suoi meccanismi di produzione e riproduzione – non è affatto impossibile che come risposta a “sentite” o reali offese, o a pretese di imposizione di volontà ed interessi alteri, ecc. si faccia ricorso anche nell’immediato domani, da parte di individui o gruppi di individui, a mezzi, metodi e strumenti che si ritengono utili ad evitare o risanare le offese, e ad evitare di essere sopraffatti dalla volontà altrui. Escludere a priori il verificarsi di tale realtà è semplicemente assurdo, almeno da parte degli anarchici e delle anarchiche.

E per stare in tale possibile quadro, è anche doveroso riflettere su ogni altra occasione in cui emerge, pure dalla ipotesi di un sociale deprivato di potere centralizzato e di “norme universali”, la prepotenza, l’istinto più bestiale di uomini lacerati da millenni di servitù e coartazione, la brutalità di individui su altri individui: la violenza sui bambini, le atrocità sulle donne, la brutalità su indifesi o minorati, e così via.

In tutti questi casi, non possiamo eludere il problema accantonandolo semplicemente, o facendo ricorso alla presunta spontanea emersione dell’animo buono e sostanzialmente sociale delle persone.

Certo, a ben valutare le cose, non è che con l’avvento della società “anarchica”, priva di potere centralizzato e pertanto di istituzioni di qualsiasi tipo, il “compito” – mi si passi il termine – degli anarchici e delle anarchiche scompare come per incanto. L’anarchia, l’autodeterminazione dei singoli e della comunità non è una conquista definitiva, data una volta per sempre dalla distruzione dello Stato imperante (e del capitalismo nelle sue varie sfaccettature, col quale costituisce il sistema vigente); è bensì un primo passo, pur fondamentale, ma ciò non può concludere affatto la tensione anarchica, perenne, di rivalutazione quotidiana dei rapporti sociali e delle dinamiche che attraversano il corpo collettivo, affinché si soffochi nell’immediato ogni momento che si manifesta in funzione del nuovo emergere di poteri d’imperio.

L’anarchismo come tensione permanente, quindi, che vigila oggi come domani affinché non emergano e non si cristallizzino in istituti (comportamentali più o meno diffusi) e ancor meno in Istituzioni atteggiamenti e dinamiche che coartano, impediscono, impongono volontà Altere a singoli o gruppi di persone.

Nel caso di cui stiamo parlando, istituzioni coattive, manicomi, carceri et similia, quindi, sono estranei all’anarchismo sia oggi, ove dominano essendo parti integranti e pertanto irrinunciabili dello Stato-capitale, sia in ogni possibile futuro.

(continua)

giovedì 2 ottobre 2025

Pro Vietnam Pro Palestina

I giovani di tutto il mondo hanno reagito al genocidio israeliano con lo sgomento di chi non credeva possibile un simile spettacolo di orrore, e con la rabbia di chi non riesce a fermare la mano di un aggressore che ha perduto la ragione, che non capisce il linguaggio umano perché è posseduto dalla ferocia.

Israele ha perduto l’appoggio e la comprensione di una intera generazione; per questa generazione la parola «sionismo» significherà per sempre quel che per la mia generazione ha significato la parola «nazismo».

La faccia democratica, imprenditoriale e tecnologica che Israele ha sempre tentato di accreditare appare oggi devastata per sempre. La democrazia è sempre stata un inganno; nel caso di Israele lo è stato di più dato che si fondava sull’apartheid, sulla discriminazione e sulla sottomissione di una parte della popolazione. Ma l’attrattiva del paese si fondava sulla vitalità economica, imprenditoriale e tecnologica. Dopo il genocidio è difficile che questa vitalità continui. Non tanto perché lo sforzo bellico e l’isolamento hanno colpito l’economia, ma perché è diventato evidente che questo paese potrà sopravvivere soltanto in condizioni di isolamento, di accerchiamento, di pericolo, e perché la società israeliana è sempre più disgregata, e sempre più dominata dai predoni armati da Smotrich, coloni a cui nulla importa della democrazia.

L’ondata di proteste pro-Palestina, soprattutto nei campus americani, ha mostrato forti elementi di analogia con quel che accadde nel ’68, all’epoca della guerra sporca che l’imperialismo americano scatenò contro il popolo vietnamita. 

Ma la cosa più importante non è la somiglianza dei comportamenti studenteschi, bensì la differenza del contesto e le diverse aspettative degli studenti di oggi rispetto a quelle di allora.

Dopo l’inizio della vendetta genocida israeliana la maggioranza dei giovani ha preso la parte delle vittime palestinesi. Dovunque, sulle reti sociali, nelle strade, nelle università, sui muri delle città del mondo intero le parole Free Palestine sono state ripetute un miliardo di volte.

Si è trattato di una risposta etica al razzismo e al colonialismo sionista.

Quando quelli della mia generazione manifestavamo contro la guerra in Vietnam ci attendevamo un rovesciamento di rapporti di forza tra imperialismo e movimento anti-imperialista. L’identificazione con il vietcong implicava un’identificazione con il socialismo, con un’emancipazione possibile.

Era in parte un’illusione, certo, ma il movimento che scese in piazza per il Vietnam si identificava con una possibilità di cambiamento positivo delle relazioni sociali e con la possibilità di sconfiggere l’imperialismo.

Si può dire lo stesso per l’attuale identificazione con la Palestina? Credo di no. Gli studenti che manifestano e occupano contro il genocidio israelo-americano non si identificano certo con Hamas, né si identificano con l’islamismo. Dalla resistenza palestinese non si attende un brillante avvenire radioso, un avvenire socialista, né qualche tipo di emancipazione sociale. L’oscurantismo della cultura che domina i paesi islamici non può in nessuna maniera essere condivisa dai movimenti studenteschi, meno che mai dai movimenti femministi, che pure si sono mobilitati massicciamente contro il genocidio, suscitando scandalo nella stampa occidentale, come se protestare contro un genocidio significasse condividere tutte le ragioni politiche di chi è oggetto dello sterminio.

L’8 marzo del 2024 le manifestazioni femministe, in Francia come altrove, erano punteggiate di bandiere palestinesi.

Questo voleva forse dire che le donne prendevano posizione a favore di gruppi come Hamas, o come Hezbollah, o per l’islamismo in generale? 

Voleva forse dire che la violenza patriarcale dell’islamismo radicale era stata perdonata dalle donne che sfilavano con quelle bandiere palestinesi?

Credo proprio di no.

Credo che quelle bandiere avessero un significato molto semplice: stiamo dalla parte delle donne e dei bambini che soffrono da 75 anni dell’oppressione sistematica dello stato sionista e che in questo momento muoiono a migliaia sotto le bombe dell’aviazione israeliana.

A me pare che gli studenti che protestano si identifichino con la disperazione. La disperazione è il tratto psicologico e culturale che spiega la vasta identificazione con i palestinesi. Chiunque oggi sia motivato eticamente, chiunque abbia mantenuto dei sentimenti umani è disperato. Chiunque non si sia trasformato in una belva è disperato.

Penso che la maggioranza degli studenti di oggi si aspetti, coscientemente o incoscientemente, un deterioramento delle condizioni di vita, un cambiamento climatico irreversibile, un lungo periodo di guerra e un pericolo di precipitazione nucleare dei conflitti in corso. 

È qui a mio parere la differenza principale rispetto al movimento del ’68: nessun rovesciamento dei rapporti di forza è in vista, nessuna emancipazione è immaginabile, nessuna pace duratura è possibile.

La speranza è destituita di ogni fondamento.

La disperazione è il solo sentimento umano.

mercoledì 1 ottobre 2025

Dimenticare può portare alla pace? (parte 2)

Dopo la Seconda guerra mondiale, dopo la Shoah, assistemmo alla nascita di un paese che, in nome della memoria, rivendicava il suo diritto a tornare in una terra da cui ritiene di essere stato cacciato duemila anni fa, e rivendicava il diritto a esercitare violenza contro la popolazione arabo-palestinese.

Venne formulato allora il principio «una terra senza un popolo per un popolo senza terra».

Ma si trattava di un principio falso, perché in quella terra un popolo c'era. Tant'è vero che la nascita dello stato di Israele coincide con un massacro di decine di migliaia di persone e con l’inizio di un processo di persecuzione e deportazione che continua ancora oggi, 75 anni più tardi.

Fin dall'inizio lo stato di Israele contiene un principio genocidario. Proprio perché si fonda sul presupposto falso che la terra promessa da un dio altamente ipotetico fosse una terra senza popolo, da quel momento in poi occorreva eliminare qualsiasi prova del fatto che quel popolo esisteva.

Occorreva sterminare quel popolo che mostrava la falsità dell'assunto prioritario della nascita dello stato di Israele.

Oggi, due o tre generazioni più tardi, i sionisti sono diventati il reparto avanzato del razzismo nel mondo.

Intellettuali come Bernard Henry Levy o come Giuliano Ferrara sbandierano il loro ebraismo come se questo desse loro diritto a qualsiasi prepotenza. Eppure non sono affatto vittime, ma nipoti o pronipoti delle vittime.

Del resto è risaputo che le vittime di solito preferiscono non ricordare, mentre i pronipoti delle vittime ricordano continuamente a sé stessi e a tutti gli altri che loro sono vittime e quindi sono assolti per principio da qualsiasi crimine possano commettere.

Questi eredi delle vittime non vogliono la pace, vogliono solo diventare carnefici a loro volta, come se questo ristabilisse un equilibrio, una giustizia. Sono incapaci di dimenticare perché questo non gli conviene: perderebbero il loro privilegio.

L’identificazione con il carnefice è un processo psichico che si conosce bene: ogni bambino maltrattato, abusato, tende a riprodurre i comportamenti che lo hanno ferito, perché si sono inscritti indelebilmente nella sua mente in formazione.

Allo stesso modo chi ha subito una violenza traumatica può essere condotto (solo in alcuni casi, sia ben chiaro) a identificarsi con l’autore della violenza, può desiderare quella forza, quel predominio.

Il sionismo non è soltanto la politica di autodifesa feroce di un corpo collettivo che solo così ha saputo elaborare il trauma dell’Olocausto, ma è anche la politica perversa di uno stato colonialista, di una popolazione di coloni che approfittano della sofferenza subita nel passato dai loro antenati per farne ragione di un privilegio e per finalmente godere del dolore infinito a chi non può difendersi.

Gli eredi delle vittime portano via la terra ai proprietari palestinesi, con violenza li espropriano dei loro scarsi averi. Cacciano dalle loro case intere famiglie, coi loro scarponi abbattono le porte, coi calci dei loro fucili colpiscono i contadini che difendono gli olivi che i coloni vogliono estirpare.

Dopo Gaza è tempo di riconoscere che il tentativo di umanizzazione della storia è fallito. È tempo di riconoscere che l’esperimento chiamato civiltà è fallito.

Quel “mai più era provvisorio”, perché non si sono create le condizioni per espellere la ferocia della sfera della civiltà umana.

La tragedia di Gaza ha un carattere definitivo e irrimediabile, la vittoria militare dell’esercito e la complicità del popolo israeliano con il genocidio scatenato dal governo Netanyahu segnano in maniera irreversibile la regressione verso la cancellazione di ogni speranza di un futuro “umano”.

La lezione che Israele ci ha dato è questa: nella sfera storica le vittime non sanno né possono chiedere pace né riparazione, ma soltanto cercare vendetta. Ciò vuol dire che le vittime di oggi non potranno mai essere altro che vittime, a meno che non riescano a trasformarsi in carnefici.

Dopo il genocidio israeliano, il diritto, l’universalismo e la democrazia appaiono come illusioni che i predatori hanno usato per mantenere il loro potere sulle prede. Ma ora queste illusioni si sono dissolte e appare la faccia feroce del colonialismo di cui Israele è l’ultima manifestazione.


martedì 30 settembre 2025

Dimenticare può portare alla pace? (parte 1)

 Il trauma della violenza subita negli anni della Shoah non poteva che lasciare effetti devastanti.

L’effetto più devastante è la nascita dello stato sionista colonialista iperarmato, dimostrazione del fatto che l’universalismo non ha verità nella storia, e che il nazionalismo è la sola maniera di proteggere la propria esistenza.

Lo stato sionista si presenta come prevenzione contro la possibilità del ripetersi di un’aggressione antisemita, ma è anche l’elaborazione vendicativa del trauma, e le due cose non si possono distruggere, non si possono separare.

Se il solo modo di evitare il ripetersi del genocidio è costruire uno stato destinato a perpetrare a sua volta il genocidio, significa che la ferocia, nella storia, ha preso il posto della ragione.

Per questo la shoah ha lasciato una traccia definitiva nella storia d’Europa e del mondo: la ragione deve chinare la testa davanti alla ferocia. E che solo la ferocia può proteggere dalla ferocia.

I sionisti pensarono: se la ragione universale non ci ha protetti dal nazismo e dallo sterminio, non resta che dotarci di strumenti che ci permettano di non essere più prede, anche se questo comporta che dobbiamo trasformarci in predatori. La riterritorializzazione israeliana ha dimostrato che non c’è possibilità di elaborare i traumi della storia, perché il solo modo di emanciparsi dall’oppressione subita è la vendetta. E il solo modo per evitare lo sterminio è sterminare.

Nel caso specifico di Israele, la vendetta ha carattere asimmetrico: non è stata compiuta infatti contro i tedeschi o contro gli europei, responsabili dello sterminio degli anni Quaranta. Si è compiuta invece contro popolazioni che non potevano difendersi e che non avevano nulla a che fare con la colpa antiebraica. Nella storia talvolta capita anche questo: coloro che hanno dovuto subire violenza perché non avevano forza sufficiente per ribellarsi esercitano la loro vendetta contro qualcuno che è più debole di loro.

Per i sionisti il solo modo per salvarsi dalla spietatezza è essere spietati. Gli israeliani, eredi di coloro che hanno subito il trauma, hanno capito fin da principio che il solo modo di proteggersi dal nazismo era adottare le sue tecniche, acquisire la sua spietatezza.

La decisione di costruire uno stato nei territori della Palestina espose fin dall'inizio gli israeliani al dilemma; subire la violenza armata di chi (prevedibilmente) non voleva che uno stato sionista si costituisse sul territorio degli arabi palestinesi, oppure disporre di una forza sufficiente per schiacciare il nazionalismo arabo e per ridurre in soggezione la popolazione palestinese, togliendole per sempre ogni possibilità di autodeterminazione.

Il sionismo non poteva che scegliere la strada della forza.

Senza il supporto dei paesi occidentali i sionisti non avrebbero mai potuto diventare la potenza militare che sono diventati, ma questa preponderanza militare dello stato di Israele ha spinto i palestinesi alla pratica del terrorismo.

lunedì 29 settembre 2025

A Gaza vige la legge del più forte

Quanto sta accadendo a Gaza e in Cisgiordania non si può spiegare in termini politici, ma solo come effetto di una psicosi che non abbiamo saputo curare.

Quello che accade adesso in Medio Oriente non è che l’ultimo anello di una catena che inizia con la Prima guerra mondiale, la sconfitta dei tedeschi, e la punizione inflitta al popolo tedesco dai francesi e dagli inglesi al Congresso di Versailles del 1919. L’oppressione e l’umiliazione spinsero il popolo tedesco a cercare vendetta: quel desiderio di vendetta si incarnò in Adolf Hitler. Gli ebrei furono la vittima prescelta, accusati senza ragione di avere provocato la sconfitta del 1918.

La Seconda guerra mondiale fu un’immensa tragedia, ma non cancellò la possibilità di credere in un futuro migliore, anzi la liberazione dai nazifascisti suscitò un’energia innovativa che coinvolse enormi masse di popolazione.

Il motto «mai più» era credibile perché nonostante tutto quello che era successo negli anni precedenti, si pensava fosse possibile costruire un futuro di uguaglianza, di solidarietà, di “democrazia”.

Iniziò allora un movimento che per i trent’anni successivi permise a una popolazione prevalentemente giovane di partecipare a un progetto che non appariva utopico, fondato sull’uguaglianza e sulla pace.

Ma oggi nulla rimane di quel mondo di aspettative e nulla rimane di quell’energia. Una popolazione invecchiata sia dal punto di vista demografico sia dal punto di vista intellettuale si ritira spaventata di fronte all’enormità delle minacce: la guerra è tornata, la minaccia nucleare è sempre più spesso e sempre più realisticamente impugnata nello scontro tra l’Occidente e i suoi innumerevoli nemici.

Nulla rimane di quelle aspettative: l’uguaglianza è stata cancellata, criminalizzata, derisa come un disvalore, come un pericolo per le sorti della competizione economica. La solidarietà è stata resa impossibile dalla cultura della competizione e dalla precarietà lavorativa. La pace è stata trasformata in utopia dal prevalere del cancro politico del nazionalismo.

La persecuzione e lo sterminio degli ebrei negli anni della Seconda guerra provocò una sofferenza immensa e duratura che cercò sollievo nella creazione di uno stato criminale che come prima azione scatenò la vendetta contro un popolo che non aveva nulla a che fare con l'Olocausto, ma che era sufficientemente debole per diventare la vittima della vittima.

L’umiliazione subita per mano dei nazisti esigeva una compensazione psichica, e questa compensazione è la persecuzione e lo sterminio del popolo palestinese. L’esperienza che il popolo palestinese sta subendo mostra che la catena della vendetta non può essere interrotta. Se due secoli di razionalismo universalista non l'hanno interrotta, forse dobbiamo concluderne che la ferocia non può essere domata dalla ragione.

Nazionalismo politico e fanatismo fondamentalista sono le ragioni d’essere della comunità politica israeliana. La legge che Israele vuole imporre è quella del più forte, la legge della razza superiore. La legge del dio che si proclama signore degli eserciti. Un dio razzista di cui il suprematismo bianco ha tratto origine.

domenica 28 settembre 2025

La geografia politica in Elisée Reclus

 

La Terra e l’Umanità sono due soggetti necessariamente interconnessi, ma con una differenza di potenziale e con caratteristiche proprie. Sia l’una che l’altra sono in continuo movimento e questo concetto reclusiano è molto simile alla concezione dinamica dell’universo propria del Taoismo. Per quanto riguarda la Terra, Reclus rileva la forza dell’influenza delle condizioni geografiche e climatiche sulle vicende umane, senza esser determinista. Piuttosto per ricordare che l’umanità, pur essendo la natura che prende coscienza di sé stessa, deve rispettare le “regole del gioco” naturali e cioè non forzare, ma rispettare la natura. L’umanità non può vivere senza natura, ma essa può vivere senza l’umanità, che non può pretendere di dominarla. Nelle dinamiche umane Reclus rileva e sottolinea la centralità di lingua, storia e genere di vita che sostengono la naturale socialità umana nel legame, sempre dinamico e mai statico, con un territorio specifico. Le tre costanti della storia dei gruppi umani indicate da Reclus sottolineano l’ineludibilità del continuo movimento, corollario obbligato della soggettività individuale umana quando vuole bilanciare la tendenza delle strutture (di tutti i generi) ad irrigidirsi. Proprio come nel rapporto iconografia circolazione di Jean Gottman, ma applicato al confronto sfruttati/sfruttatori. Oggi il suo approccio verrebbe definito di tipo antropologico e/o culturale, senza un metodo di analisi rigido, ma capace di cogliere le dinamiche di lunga durata e di accettare concettualmente i salti di qualità e le accelerazioni della storia. Il suo è un approccio intellettuale attivo, nel senso che proponendo il criterio interpretativo del movimento continuo, che non forzi la natura, favorisce l’intreccio delle culture e invita chi vuol essere politico e rivoluzionario a imparare la lezione e a riorganizzare lo spazio senza la presenza dell’autorità e della gerarchia. Applicare il suo approccio interpretativo alle dinamiche geopolitiche attuali consente una migliore e più precisa comprensione di ciò che avviene, da cui deriva o dovrebbe derivare una più articolata e ricca capacità di individuare/suggerire pratiche cooperative di progresso.

sabato 27 settembre 2025

Born in Gaza

Il documentario Born in Gaza di Hernán Zin racconta la storia di dieci bambini tra i sei e i quattordici anni durante la guerra del 2014, una delle tante guerre che Israele ha condotto contro i palestinesi, e che i palestinesi hanno condotto contro Israele. Questi bambini parlano dei bombardamenti, delle ferite che hanno ricevuto, del terrore che vivono quotidianamente, della fame che soffrono. Dicono che la loro non è vita, che sarebbe meglio morire. 

È probabile che costoro, che erano bambini nel 2014, siano oggi militanti di Hamas, e che abbiano partecipato all'orgia di terrore del 7 ottobre. Come non capirlo? Se io fossi al posto loro, invece di essere io, cioè un vecchio pensionato bianco che sta scrivendo comodamente seduto nella sua casa in una città italiana dove per il momento non ci sono bombardamenti, se io fossi uno di questi che erano bambini sotto le bombe del 2014, oggi sarei un terrorista che aspira solo a uccidere un israeliano. Mi farei orrore?

Certo, mi farei orrore. Ma il mio pacato pacifismo è solo un privilegio, un privilegio di cui posso godere perché non ho vissuto la mia infanzia a Gaza, o in uno dei tanti posti come Gaza.

Perciò Israele ha un solo modo per sradicare Hamas: uccidere tutti i palestinesi che vivono a Gaza, nei territori occupati ma neanche altrove: tutti, tutti, tutti, soprattutto i bambini.

D’altronde è quello che stanno facendo, no? Si chiama genocidio, ma è del tutto razionale. Infatti i razionalismi governanti europei appoggiano il genocidio.

Scholz ha detto che, avendo la Germania commesso un genocidio nel passato, ora è suo dovere appoggiare chi sta compiendo un genocidio oggi sembra che sia il solo modo per farsi perdonare.

È solo il modo per sradicare il terrorismo, no?

Forse ci sarebbe un altro modo per sradicarlo: la pace senza condizioni, la rinuncia a vincere, l’amicizia, la diserzione, l’alleanza tra le vittima – vittime di Hitler e le vittime di Netanyahu.

Ma questo è un proposito da anima bella, un proposito fondato su sentimenti che si possono nutrire solo quando ci si trova in una condizione di privilegio. Nella realtà sembra che ci siano solo vittime che aspirano a diventare carnefici. E spesso ci riescono.

Dunque la spirale non si fermerà, e non possiamo prevedere quale vortice andrà ad alimentare.

martedì 23 settembre 2025

Albert Camus - L'uomo in rivolta

 

Che cos'è un uomo in rivolta? Un uomo che dice di no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi.

In questa costante e perenne oscillazione fra il no e il sì, l'uomo in rivolta di Camus si differenzia profondamente dal pensiero rivoluzionario ed ancor più dal concetto di rivoluzione. Se le rivoluzioni moderne non hanno fatto altro che instaurare degli stati e legittimare il potere del terrore, per l'autore dell'Uomo in rivolta è impossibile avere dubbi: o si accettano le conseguenze della rivoluzione, e quindi la paura, il sangue, lo Stato; oppure inevitabilmente vi si è contrari, non rinunciandovi ma riaffermando la possibilità della rivolta. Ma qual è, in pratica, la differenza tra rivoluzione e rivolta? Sulle prime sembrerebbe che Camus scelga il concetto di rivolta, dandone un'interpretazione positiva rispetto alla negatività della rivoluzione, poiché l'uomo che dice no è l'eroe titanico che, affrontando il tiranno, il Potere, con il solo e unico gesto di rivolta si autorealizza emancipandosi. Per Camus la chiave interpretativa, e metodica sta nella possibile (possibile, non "vera") differenza; rivoluzione è intesa come totale negazione del reale, come un movimento che, superando lo status quo, lo nega in tutti i suoi aspetti perché li riconosce estranei; la rivolta, al contrario, è un moto che, pur superando le condizioni presenti, le accetta perché sono le uniche passibili di mutamento.

Se la rivolta potesse fondare una filosofia, questa sarebbe al contrario una filosofia dei limiti, dell'ignoranza calcolata e del rischio. Chi non può sapere tutto, non può tutto uccidere.

Camus è un convinto assertore di questa filosofia, contrapponendosi duramente ed aspramente ad ogni concezione e interpretazione del mondo che assolutizzando qualsiasi concetto metafisico, come materialista, lo ponga e si ponga al di sopra del reale, perché, come già detto, la realtà non è né ragionevole né irragionevole, ma ciò che si può dire ed ancor più ciò che si può cambiare. Camus individua un minimo comune multiplo: il nichilismo, qui inteso come degradazione, asservimento della realtà presente a favore di un immaginato futuro di verità cui poter donare la propria sofferenza in questa vita alienata. Grande ammiratore di Nietzsche - il quale paradossalmente è l'unico ad essere salvato dall'accusa di nichilista - non può che far risalire la negazione della natura e del corpo alla nascita del cristianesimo: con l'avvento del cristianesimo, nel pensiero occidentale si insinua il concetto di peccato e di espiazione, che successivamente inquinerà perfino il pensiero laico e rivoluzionario di Karl Marx. La storia del pensiero occidentale è la storia della sconfitta della natura e dell'umiliazione del corpo per la vittoria dell'ideologia e della teologia, entrambe false coscienze che, in nome del futuro, hanno negato, condannato il presente. La domanda camusiana è dunque la seguente: quale motivo spinge l'uomo ad uccidere per dei valori astratti, delle ideologie? E ancora: perché, in nome della giustizia e della libertà, possono essere commesse le ingiustizie più atroci ed avvalorate le misure più repressive, totalitarie ed autoritarie?

La libertà assoluta coincide con il diritto, per il più forte, di dominare. Essa mantiene dunque i conflitti che avvantaggiano la ingiustizia. La giustizia assoluta passa attraverso la soppressione di ogni contraddizione: essa distrugge la libertà. La rivoluzione per la giustizia mediante la libertà finisce col farle insorgere l'una contro l'altra.

domenica 21 settembre 2025

Il primo sindacalismo rivoluzionario

 

L'anarchismo dell'800 diventò storicamente importante quando entrò nell'Internazionale Operaia. Noi sappiamo che la 1a Internazionale aveva carattere eminentemente sindacale, essendo una sorta di aggregazione di diverse società operaie. Essa per origine, struttura, programma, era interamente anarchica. Il 28 settembre 1864, alla St. Martin's Hall, furono i proudhoniani e Varlin a presentare la risoluzione in cui veniva proposta la fondazione di una associazione mondiale dei lavoratori. E Bakunin, già prima di entrarvi aveva già pensato alla possibilità concreta di costruire una organizzazione del genere. Il principio, il motto fondamentale "l'emancipazione dei lavoratori ad opera dei lavoratori stessi", la struttura federalistica, esprimevano il carattere libertario e proletario di questo grande organismo di massa. I governi ne avevano grande timore, tanto che addebitavano alla Internazionale ogni moto spontaneo di popolo. Un altro fatto ebbe grande importanza: il marxismo venne apertamente denunciato come ideologia reazionaria, e una risoluzione del Congresso di S. Imier, successivo a quello dell'Aja, affermò che "la distruzione di ogni potere politico è il primo compito del proletariato". In questo modo la frangia più cosciente dei lavoratori manuali affermava l'autonomia del proletariato non solo rispetto alla borghesia, come aveva fatto precedentemente, ma anche rispetto agli interessi della piccola borghesia, espressi dalla scuola socialdemocratica tedesca. Queste dichiarazioni di principio fatte a congressi operai mostrano come per gli internazionalisti non esistesse una netta frattura fra politico ed economico. È vero che lo stesso Bakunin e i libertari del tempo tendevano a rifiutare il termine "politica" ma questo perché all'espressione essi davano il significato di "azione tesa verso la conquista del potere politico". Non si intende qui fare una prolungata indagine storica, ma solo mostrare come le sezioni operaie-sindacali dell'A.I.T. non escludevano affatto di andare oltre la lotta cosiddetta economica. Questo per confutare le accuse di "economicismo" mosse agli anarchici. Questo concetto lo ritroveremo nel pensiero di Malatesta, che tra l'altro ebbe ad affermare in "Umanità Nova" del 1921: "i sindacalisti, quantunque in teoria amino dire che il sindacalismo basta a se stesso, debbono poi nella pratica o pensare ad impadronirsi dello stato, e diventano socialisti, o pensare a distruggerlo, e diventano anarchici". Viene espressa così l'intima continuità di pensiero che lega l'anarchismo dell'800 e del '900: il rifiuto di una concezione del sindacalismo come semplice lotta al padrone, senza affrontare il problema dello stato, nel senso della sua distruzione.

venerdì 19 settembre 2025

Parliamo ancora del no copyright

 

La cultura del software libero non ha niente a che fare con le pratiche del sabotaggio, e solo parzialmente con le rivendicazioni sindacali nell’ambito del lavoro. Era stata coltivata e stava iniziando a fiorire, dapprima negli Usa, e di lì a poco in Italia, negli ambienti di un certo marxismo radicale, ma aveva attecchito tra i ragazzini, tra gli impiegati, tra gli hippie e gli amanti del fai da te. Nel suo dna vi era la voglia di liberarsi da una cultura della produzione legata alla proprietà privata, ma non esprimeva il conflitto attraverso l’antagonismo e lo scontro frontale con il modello da cui si voleva differenziare, bensì allontanandosene, separandosene, per dare forma a un nuovo modello basato sul dono e la cooperazione. E parte di un processo di sviluppo delle culture cosiddette dell’underground, ma in particolar modo delle culture del DIY, delle autoproduzioni e della controinformazione che negli anni Sessanta e Settanta hanno avuto una particolare esplosione. Tale cultura, figlia dunque del Sessantotto, ma, in generale, di un percorso comunitario millenario, stava, in senso proprio, facendosi movimento e andava per questo stroncata sul nascere. La narrazione che ha voluto tratteggiare gli hacker come criminali, se non luddisti, ha voluto annullare le pretese di un movimento, in parte, spontaneo, che rischiava di mettere in discussione il paradigma della proprietà privata nella produzione dei saperi. Purtroppo la potenza di fuoco immaginativa dell’apparato mediale statunitense, e dei suoi addentellati nostrani, e in grado di rendere colpa il sentimento di gioia che ti rende prossimo all’altro. Una colpa che richiede regole ferree. Ogni qual volta si doveva invocare una nuova legge che riportasse le nuove tecnologie nei binari della proprietà privata, come per magia, nell’agenda dei media apparivano giovani criminali del computer che avrebbero potuto far crollare la società, la civiltà, se non fosse stato imbrigliato il loro agire all’interno di regole precise che, guarda caso, riguardavano sempre, e in primo luogo, la difesa del copyright, in seconda battuta la privacy. Un diritto privato. Un diritto, privato. Dove privato e un verbo che indica ciò che giornalmente ci viene negato: un diritto; il diritto di essere prossimi l’uno con l’altro, di amarsi e rispettarsi. Questa e la regola del diritto privato nella società moderna. La regola e una legge che priva le persone del loro diritto fondamentale. Purtroppo le questioni retoriche poco interessano a chi perde il lavoro e a chi perde la possibilità di sentirsi rispettato nella società. Nella prima lettera di san Paolo apostolo ai Corinzi (15,54-58) si legge “il pungiglione della morte e il peccato e la forza del peccato e la Legge”. Laddove san Paolo voleva criticare i Farisei che, attraverso le loro leggi avevano dato al peccato la possibilità di esprimersi, la critica che si vuole muovere al capitalismo e quella di avere creato delle leggi, come quella sul copyright, che rendono l’uomo peccatore nel momento in cui cerca di essere umano.