Di quel giorno ricordo anche le nuvole e
il colore del cielo. Verso mezzogiorno andai in piazza Verdi per pagare la
quota necessaria a partecipare alla manifestazione nazionale prevista a Roma
per il giorno successivo. C’era un banchetto e una bandiera rossa, si
chiacchierava tra pochi, data l’ora.
Da Porta Zamboni giunsero le detonazioni
tipiche del lancio di candelotti e il primo pensiero che mi colse fu quello di
assistere in diretta ad una vera e propria “invasione di territorio”, dato che
fino a quel momento nessuna iniziativa repressiva aveva riguardato la
cittadella universitaria.
D’istinto mi coprii il volto con un
lembo della bandiera e corsi verso la zona degli scontri, incontro al fumo
denso che si allargava.
Qualcuno mi disse che era inutile
tentare di avvicinarsi da quella parte e si decise di provare a passare per via
Bertoloni.
Mi bastò affacciarmi per capire che non
era aria neppure lì: sul muro, all’altezza dei cavi della corrente elettrica,
vidi distintamente le scintille prodotte da colpi di arma da fuoco. Già questo
fatto costituiva una “prima volta”, un innalzamento del livello di scontro.
Poi non ricordo perché, procedendo verso
gli sbocchi successivi, si decise di non risalire via Centotrecento.
Ci trovammo infine in un piccolo gruppo
– cinque, sei persone – a procedere per via Mascarella.

Correndo, vedevo gli altri procedere
verso via Irnerio. Uno di loro, portatosi in mezzo alla strada, tirò un sasso
verso un gruppetto di carabinieri ma sbagliò clamorosamente la mira scheggiando
il palazzo d’angolo.
Una sciocchezza, se non fosse che, dopo,
quel segno diventò la “prova” che qualcuno aveva sparato anche da via
Mascarella e alimentò l’assurda insinuazione che Francesco poteva essersi
trovato al centro di un tiro incrociato e dunque poteva essere stato colpito
dai suoi stessi compagni. Giunto a poco più di dieci metri dallo sbocco su via
Irnerio vidi, in prossimità dell’incrocio un camion, del tipo di quelli
dell’esercito, ed alcuni carabinieri: tutto sommato pochi, come pochi si era
dalla parte di qua.

Feci retromarcia immediatamente, così
come facevano gli altri, parallelamente a me. Solo che loro portavano, ognuno
per un arto, il peso di un corpo senza energia. Ci ricongiungemmo e ci fermammo
davanti all’uscita posteriore di un cinema.
Francesco morì lì, tra sguardi
sbigottiti, mentre gli rivolgevo parole vane.
Fermammo una macchina per tentare di
raggiungere l’ospedale più vicino. Nel frattempo giunse un’ambulanza e caricò
il corpo di Francesco, ma le facce degli infermieri non lasciavano speranze.
Andai comunque al S. Orsola per sentirmi
dire quello che ormai era già tragicamente palese.
Seppi subito dopo che contro i
carabinieri era stata lanciata una molotov, che Francesco aveva avuto il tempo
di dire “mi hanno beccato” e di fare con le sue gambe circa dieci metri, fino
al punto in cui cadde, dove poi fu posta la lapide.
Seppi anche che ad originare tutto era
stato un diverbio e una scaramuccia tra qualche decina di compagni ed esponenti
di Comunione e Liberazione riuniti in assemblea. Roba che in altri tempi si
sarebbe risolta con due parolacce, qualche spintone e poco più.
Da quel momento fu chiaro ad ognuno che
tutto sarebbe stato diverso.
Già nel primo pomeriggio, Piazza Verdi
era piena di gente, ma il tono delle voci era sommesso. Si fece una rapida
assemblea tra l’odore pungente della benzina: si decise di dirigere il corteo
verso la sede della Democrazia Cristiana, l’Ufficio di rappresentanza del Resto
del Carlino e la Stazione. Nessuno parlò di vetrine, nessuno fece niente per
impedire che andassero distrutte. Certo, era inquietante il rumore dei tonfi
dei vetri che andavano in frantumi ai lati del corteo: cascate di ghiaccio
attorno a noi, che portavano nell’animo un gelo ben più grande.
Personalmente trovai offensivo che il
servizio d’ordine del PCI presidiasse il Sacrario dei Caduti della Resistenza e
trovai di gusto discutibile il saccheggio conclusivo del Ristorante “Al
Cantunzein”. Ma erano pensieri silenziosi: io non avevo fame.
Il giorno dopo, dal primo pomeriggio
cominciarono gli scontri all’università. In mattinata venne rifiutata la parola
ad un esponente del Movimento alla manifestazione sindacale: il cerchio di
ferro si chiudeva. Per otto ore si resistette: sulle barricate verso sera
suonava un pianoforte. Poi qualcuno decise e praticò l’esproprio dell’armeria
Grandi: in tutta risposta arrivò una raffica di mitra ad altezza d’uomo. Per me
la misura era colma.
Il giorno dopo ci svegliammo coi
blindati in città e i tiratori speciali sui tetti. Cominciarono gli arresti di
chiunque per strada formasse gruppi superiori a cinque persone e rifiutasse di
disperdersi: così finirono dentro decine di tifosi del Bologna, venuti in
centro in modo organizzato e circa 260 compagni. La detenzione di limoni era
considerata sufficiente a dimostrare una volontà di resistenza. Radio Alice era
chiusa.
Dalla
testimonianza di un compagno presente ai fatti.