..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

Translate

sabato 7 marzo 2015

Movimento ’77 Tra creatività e “militarismo” Pt 4 Rapporto tra Movimento e Partito Armato

Rimane da affrontare il problema dei rapporti tra il Movimento e il partito armato. Si tratta di una questione spinosa, che ha dato luogo ad aspre polemiche negli anni passati, soprattutto dopo la decisione presa dalle magistrature di Roma e Padova di procedere contro i capi di Aut Op: è il 7 aprile 1979. I giudici, tra i quali spicca il Pm padovano Pietro Calogero (Kalogero per gli autonomi), tra i primi a seguire la pista nera per gli attentati di Piazza Fontana, accusano Pot Op (il cui scioglimento sarebbe stata una finzione) e Aut Op di avere concordato una strategia comune con le Br per abbattere l’ordinamento democratico. Le due organizzazioni dell’estrema sinistra sarebbero dunque “bande armate” e alcuni suoi leader vengono inquisiti per il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. Le prove, per i giudici, stanno tutte nella violenza dimostrata in questi anni dai due gruppi nelle piazze e in quello che hanno scritto sui loro volantini e sulle loro riviste: decine di articoli in cui si incita alla lotta violenta e all’abbattimento dello Stato borghese, pubblicazione di comunicati delle Br e di altri gruppi di fuoco, apprezzamenti per le azioni del partito armato eccetera.
Ma è così scandalosa la posizione degli autonomi sulla violenza? Ed è vero che Aut Op e le Br sono d’accordo sulle forme di lotta?. Per i Collettivi di Roma, per esempio, la lotta armata è “una fase superiore dello scontro tra le classi; una fase che si determina nella misura in cui si radicalizzano le lotte sui bisogni e la coscienza politica del proletariato”. Il proletariato deve lavorare in vista di questo scontro e prepararsi ad affrontarlo. Niente di eccezionale: si resta sempre nell’ambito del pensiero marxista-leninista tradizionale.
Gli autonomi, questo è vero, non condannano con decisione le azioni del partito armato, come invece fanno altre formazioni della sinistra extraparlamentare. Ma quello che per loro è all’ordine del giorno non è tanto “la capacità professionale di un partito di tipo leninista di determinare l’insurrezione armata, di incanalare l’esperienza delle masse, dei soviet dentro un più cosciente schema politico-militare nel momento cruciale della crisi capitalistica”, bensì “la rivoluzione di massa, che veda la maggioranza del proletariato protagonista politico e militare dell’avanzata del processo rivoluzionario”. Dunque, per Aut Op la lotta armata o è di massa o non serve alla rivoluzione.
Ma in che modo bisogna agire affinché quella che gli autonomi chiamano “azione diretta” non leda la causa? L’Assemblea Autonoma della Pirelli di Milano fissa alcuni punti:
“1) l’azione deve suscitare adesione, approvazione, partecipazione e riproduzione in seno alle masse;
2) bisogna agire col senso di giustizia e di proporzione quando si colpiscono gli effettivi responsabili della repressione degli operai (non si rompe un uovo a martellate);
3) le eventuali azioni devono essere coordinate all’azione politica generale”.
Le Br che rapiscono e uccidono Moro, per esempio, contravvengono sicuramente al primo punto, dato che la stessa Autonomia si adopera per la liberazione dello statista democristiano, e, almeno in parte - se si pensa all’eccidio di via Fani - anche al secondo: non si rompe un uovo a martellate. Contravviene sicuramente a entrambi i punti l’assassinio dell’operaio comunista Guido Rossa nel 1979.
Il terzo punto è senza dubbio quello più controverso: occorre capire se esiste un’azione politica “generale”, ovvero se vi sia un coordinamento tra l’ala “militarista” del Movimento e il partito armato, come sostengono i giudici del 7 aprile.
Per il Collettivo Politico Operaio dell’Alfa Romeo, dell’area dell’Autonomia, la clandestinità e le rigide regole di militanza delle Br finiscono per creare una netta frattura con il Movimento, mentre per Daniele Pifano, leader dei Collettivi Autonomi di Roma, è assurda la pretesa dei brigatisti di rappresentare le istanze e la coscienza del proletariato.
Insomma, è vero che per Aut Op la rivoluzione non è un pranzo di gala: la violenza è necessaria. Ma questa deve nascere “alla luce del sole”, dall’espansione del Movimento, dalla capacità delle masse di “fare crescere le contraddizioni del nemico di classe a un punto tale da provocare uno scontro sempre più duro e violento”.
Non è quindi un caso se tra i leader dell’Autonomia e quelli delle Br non correrà mai buon sangue. In gioco c’è la guida del “movimento rivoluzionario”, come entrambi lo chiamano. Le Br, oltretutto, dopo gli arresti del suo nucleo storico, Curcio, Franceschini, Semeria, e la morte di Mara Cagol, moglie di Curcio, uccisa dalle forze dell’ordine durante il rapimento dell’imprenditore Gancia (forse si è trattato di una vera e propria esecuzione), è ormai un’organizzazione a tutti gli effetti clandestina, con obiettivi spesso fuori dalla portata e dagli interessi del Movimento: non più la lotta ai licenziamenti, al terrorismo neofascista, ad una giustizia ingiusta eccetera, ma la guerra al cosiddetto “Stato imperialista delle multinazionali”. E così, a partire dal 1976, le Br cominciano la loro marcia di allontanamento da quella parte (minoritaria, ma non trascurabile) del paese reale che aveva mostrato di apprezzare la sua prassi politica, a metà strada tra i Tupamaros sudamericani e l’inglese Robin Hood, simbolo di un paese che oscilla continuamente tra sottosviluppo e modernità.
E’ il tema della violenza, dunque, quello che porta i giudici di Roma e Padova, con l’appoggio di molte forze politiche, prima fra tutte il Pci, a spiccare gli ordini di cattura nei confronti dei “vertici” di Aut Op. Antonio Negri, intervistato da Giorgio Bocca nel 1979, precisa il pensiero del suo gruppo a tal proposito:
“Credo che quando noi si parlava di violenza si diceva fondamentalmente questo: che i padroni potevano usarne legalmente troppa e la classe operaia usarne legalmente troppo poca.”
Risponde indirettamente Ugo Spagnoli, sul settimanale comunista “Rinascita” del 21-9-1979:
“Ma perché non entrare nel merito e ricordare che molti di costoro furono gli animatori della speculazione anticomunista e del provocatorio raduno anticomunista di Bologna nel ‘77 (quello contro la repressione, n.d.a.)? E perché non ricordare che molti di questi personaggi continuano a falsare e a deformare la realtà democratica del nostro paese, ad offendere le lotte che le masse conducono contro il terrorismo, mirando a scopi ben precisi nei quali è determinante il più viscerale anticomunismo?”
Come scrive Lucia Annunziata sul “Manifesto” del 13 aprile del 1979, “prove o non prove, l’Italia sembra essere diventata improvvisamente un paese di giuristi”. Ma in questo dibattito manca la voce del partito armato. Cosa pensano i clandestini della lotta armata degli autonomi?
Nella risoluzione strategica dell’aprile 1975, cioè pochi giorni dopo la battaglia di Corso XXII Marzo, le Br scrivono che gli emarginati, cioè il soggetto sociale a cui fa riferimento l’Autonomia, “sono un prodotto della società capitalistica nella sua attuale fasi di sviluppo e il loro numero è in continuo aumento”, ma la classe operaia “resta comunque il nucleo centrale e dirigente della rivoluzione comunista”.
“A nostro giudizio l’intera questione va affrontata a partire dallo “strato di classe” che più di ogni altro subisce l’intensificazione dello sfruttamento conseguente ai progetti di ristrutturazione capitalistica ed imperialistica (...). Le “assemblee autonome” non sono l’avanguardia di questo strato di classe. Al loro sorgere esse hanno costituito un fattore decisivo nel processo di superamento del “gruppismo”, ma oggi rischiano di finire esse stesse nel culo di sacco di quella impostazione. Ciò che le predispone a questo pericolo è il “feticcio della legalità” e cioè l’incapacità di uscire dalla falsa contrapposizione tra “legalità” e “illegalità”. In altre parole le assemblee autonome non riescono a porre la questione dell’organizzazione a partire dai bisogni politici reali e così finiscono per delimitare questi ultimi entro il tipo di organizzazione legale che si sono date.
Dunque, mentre i giudici sostengono che Aut Op è una banda armata che ha coordinato l’attacco al cuore dello Stato insieme alle Br, queste ultime l’accusano di essere legata al “feticcio della legalità”, cioè di non volersi trasformare in una banda armata. Nemmeno il fatto che decine di autonomi finiranno nel partito armato, ennesima conferma per i giudici dell’esistenza di un rapporto diretto tra Aut Op e Br, significa molto, dato che nel partito armato (Br, Prima Linea (Pl) Nap eccetera) militano cattolici come Curcio, comunisti come Franceschini, sindacalisti come Moretti e tanti altri che non hanno mai fatto parte di alcuna organizzazione. Alla domanda “di chi è figlio il terrorismo di sinistra?” è dunque difficile rispondere. Gli autonomi lo fanno con amara ironia: “di Donat Cattin!”, dato che il figlio del famoso Ministro democristiano è uno dei leader di Prima Linea. Da sottolineare anche che le Br concordano con il Pci sul ruolo della classe operaia nella società: una comune visione che però non porta nessun giudice a spiccare un mandato di cattura nei confronti di Berlinguer.
Anche i gruppi armati che nascono durante e, soprattutto, dopo il 1977 sono molto diversi dalle Br. Si tratta per lo più di minuscole formazioni che firmano un attentato e poi scompaiono per sempre. Sono anch’essi il frutto dell’eruzione sociale di quell’anno. Questi “gruppuscoli” non si preoccupano di fare pervenire agli organi di informazione complesse risoluzioni teoriche, anzi scimmiottano il tetro linguaggio dei brigatisti, e anche nelle sigle dimostrano di essere altro da quel partito armato che vuole essere riconosciuto come il principale soggetto politico, anzi l’unico, che si contrappone allo “Stato borghese”. Sono i continuatori, anche se su altri fronti, di quella creatività irriverente che è uno dei tratti più caratteristici del movimento del Settantasette. Il Collettivo Automobilisti Proletari, le Colonne Capone, il Fronte del Porto, i Gatti Selvaggi, i Gruppi Piromani Folli, il Gruppo per la resa dei conti, i Nuclei Sconvolti per la sovversione urbana, le Talpe Rosse Organizzate e il Collettivo “ve beccamo quanno volemo!” non sono certamente in grado di prendere il potere e nemmeno lo vogliono. Sono, per dirla alla Touraine, una collettività che con le armi cerca disperatamente di resistere al clima di omogeneità politico-culturale che si respira negli anni della cosiddetta “solidarietà nazionale”. Non un attacco allo Stato, dunque, ma una difesa dallo Stato.
E tuttavia, il Settantasette fornisce una massa impressionante di nuove leve al partito armato. Perché?
Non compreso dai mass media, colpito duramente dalla repressione, isolato anche dalla nuova sinistra, il Movimento si esaurisce presto, nel breve volgere di un anno. Molti giovani si trovano allo sbando e devono fare i conti con una profonda solitudine. Alcuni di loro vengono attratti dal fascino di una “compagna bianca”, l’eroina, molti dalle campane di un sistema che, anche per autodifesa, invita tutti al disimpegno, altri ancora, appunto, dalla causa di una lotta ben diversa da quella immaginata quando il Movimento occupava le piazze e le università di tutto il paese: una rivoluzione-festa. E così un’intera generazione scompare. Non a caso un film sul Settantasette si intitola Gli invisibili. Invisibili nel mondo dell’eroina, invisibili nel disimpegno, invisibili nella lotta armata clandestina contro uno Stato che cela molte delle sue azioni repressive extralegali, molti dei suoi reali intenti, quelli che vanno oltre la difesa della legalità democratica

(fine)