Rimane da affrontare il problema dei rapporti tra il Movimento e il
partito armato. Si tratta di una questione spinosa, che ha dato luogo ad aspre
polemiche negli anni passati, soprattutto dopo la decisione presa dalle
magistrature di Roma e Padova di procedere contro i capi di Aut Op: è il 7
aprile 1979. I giudici, tra i quali spicca il Pm padovano Pietro Calogero
(Kalogero per gli autonomi), tra i primi a seguire la pista nera per gli
attentati di Piazza Fontana, accusano Pot Op (il cui scioglimento sarebbe stata
una finzione) e Aut Op di avere concordato una strategia comune con le Br per
abbattere l’ordinamento democratico. Le due organizzazioni dell’estrema
sinistra sarebbero dunque “bande armate” e alcuni suoi leader vengono inquisiti
per il rapimento e l’uccisione dell’onorevole Aldo Moro. Le prove, per i
giudici, stanno tutte nella violenza dimostrata in questi anni dai due gruppi
nelle piazze e in quello che hanno scritto sui loro volantini e sulle loro
riviste: decine di articoli in cui si incita alla lotta violenta e
all’abbattimento dello Stato borghese, pubblicazione di comunicati delle Br e
di altri gruppi di fuoco, apprezzamenti per le azioni del partito armato
eccetera.
Ma è così scandalosa la posizione degli autonomi sulla violenza? Ed
è vero che Aut Op e le Br sono d’accordo sulle forme di lotta?. Per i
Collettivi di Roma, per esempio, la lotta armata è “una fase superiore dello
scontro tra le classi; una fase che si determina nella misura in cui si
radicalizzano le lotte sui bisogni e la coscienza politica del proletariato”.
Il proletariato deve lavorare in vista di questo scontro e prepararsi ad
affrontarlo. Niente di eccezionale: si resta sempre nell’ambito del pensiero
marxista-leninista tradizionale.
Gli autonomi, questo è vero, non condannano con decisione le azioni
del partito armato, come invece fanno altre formazioni della sinistra
extraparlamentare. Ma quello che per loro è all’ordine del giorno non è tanto
“la capacità professionale di un partito di tipo leninista di determinare
l’insurrezione armata, di incanalare l’esperienza delle masse, dei soviet
dentro un più cosciente schema politico-militare nel momento cruciale della
crisi capitalistica”, bensì “la rivoluzione di massa, che veda la maggioranza
del proletariato protagonista politico e militare dell’avanzata del processo
rivoluzionario”. Dunque, per Aut Op la lotta armata o è di massa o non serve
alla rivoluzione.
Ma in che modo bisogna agire affinché quella che gli autonomi
chiamano “azione diretta” non leda la causa? L’Assemblea Autonoma della Pirelli
di Milano fissa alcuni punti:
“1) l’azione deve suscitare adesione, approvazione, partecipazione e
riproduzione in seno alle masse;
2) bisogna agire col senso di giustizia e di proporzione quando si
colpiscono gli effettivi responsabili della repressione degli operai (non si
rompe un uovo a martellate);
3) le eventuali azioni devono essere coordinate all’azione politica
generale”.
Le Br che rapiscono e uccidono Moro, per esempio, contravvengono
sicuramente al primo punto, dato che la stessa Autonomia si adopera per la
liberazione dello statista democristiano, e, almeno in parte - se si pensa
all’eccidio di via Fani - anche al secondo: non si rompe un uovo a martellate.
Contravviene sicuramente a entrambi i punti l’assassinio dell’operaio comunista
Guido Rossa nel 1979.
Il terzo punto è senza dubbio quello più controverso: occorre capire
se esiste un’azione politica “generale”, ovvero se vi sia un coordinamento tra
l’ala “militarista” del Movimento e il partito armato, come sostengono i
giudici del 7 aprile.
Per il Collettivo Politico Operaio dell’Alfa Romeo, dell’area
dell’Autonomia, la clandestinità e le rigide regole di militanza delle Br
finiscono per creare una netta frattura con il Movimento, mentre per Daniele
Pifano, leader dei Collettivi Autonomi di Roma, è assurda la pretesa dei
brigatisti di rappresentare le istanze e la coscienza del proletariato.
Insomma, è vero che per Aut Op la rivoluzione non è un pranzo di
gala: la violenza è necessaria. Ma questa deve nascere “alla luce del sole”,
dall’espansione del Movimento, dalla capacità delle masse di “fare crescere le
contraddizioni del nemico di classe a un punto tale da provocare uno scontro sempre
più duro e violento”.
Non è quindi un caso se tra i leader dell’Autonomia e quelli delle
Br non correrà mai buon sangue. In gioco c’è la guida del “movimento
rivoluzionario”, come entrambi lo chiamano. Le Br, oltretutto, dopo gli arresti
del suo nucleo storico, Curcio, Franceschini, Semeria, e la morte di Mara
Cagol, moglie di Curcio, uccisa dalle forze dell’ordine durante il rapimento
dell’imprenditore Gancia (forse si è trattato di una vera e propria
esecuzione), è ormai un’organizzazione a tutti gli effetti clandestina, con
obiettivi spesso fuori dalla portata e dagli interessi del Movimento: non più
la lotta ai licenziamenti, al terrorismo neofascista, ad una giustizia ingiusta
eccetera, ma la guerra al cosiddetto “Stato imperialista delle multinazionali”.
E così, a partire dal 1976, le Br cominciano la loro marcia di allontanamento
da quella parte (minoritaria, ma non trascurabile) del paese reale che aveva
mostrato di apprezzare la sua prassi politica, a metà strada tra i Tupamaros
sudamericani e l’inglese Robin Hood, simbolo di un paese che oscilla
continuamente tra sottosviluppo e modernità.
E’ il tema della violenza, dunque, quello che porta i giudici di
Roma e Padova, con l’appoggio di molte forze politiche, prima fra tutte il Pci,
a spiccare gli ordini di cattura nei confronti dei “vertici” di Aut Op. Antonio
Negri, intervistato da Giorgio Bocca nel 1979, precisa il pensiero del suo
gruppo a tal proposito:
“Credo che quando
noi si parlava di violenza si diceva fondamentalmente questo: che i padroni
potevano usarne legalmente troppa e la classe operaia usarne legalmente troppo
poca.”
Risponde indirettamente Ugo Spagnoli, sul settimanale comunista
“Rinascita” del 21-9-1979:
“Ma perché non
entrare nel merito e ricordare che molti di costoro furono gli animatori della
speculazione anticomunista e del provocatorio raduno anticomunista di Bologna
nel ‘77 (quello contro la repressione,
n.d.a.)? E perché non ricordare che molti di questi personaggi
continuano a falsare e a deformare la realtà democratica del nostro paese, ad
offendere le lotte che le masse conducono contro il terrorismo, mirando a scopi
ben precisi nei quali è determinante il più viscerale anticomunismo?”
Come scrive Lucia Annunziata sul “Manifesto” del 13 aprile del 1979,
“prove o non prove, l’Italia sembra
essere diventata improvvisamente un paese di giuristi”. Ma in questo
dibattito manca la voce del partito armato. Cosa pensano i clandestini della
lotta armata degli autonomi?
Nella risoluzione strategica dell’aprile 1975, cioè pochi giorni
dopo la battaglia di Corso XXII Marzo, le Br scrivono che gli emarginati, cioè
il soggetto sociale a cui fa riferimento l’Autonomia, “sono un prodotto della
società capitalistica nella sua attuale fasi di sviluppo e il loro numero è in
continuo aumento”, ma la classe operaia “resta comunque il nucleo centrale e
dirigente della rivoluzione comunista”.
“A nostro
giudizio l’intera questione va affrontata a partire dallo “strato di classe”
che più di ogni altro subisce l’intensificazione dello sfruttamento conseguente
ai progetti di ristrutturazione capitalistica ed imperialistica (...). Le
“assemblee autonome” non sono l’avanguardia di questo strato di classe. Al loro
sorgere esse hanno costituito un fattore decisivo nel processo di superamento
del “gruppismo”, ma oggi rischiano di finire esse stesse nel culo di sacco di
quella impostazione. Ciò che le predispone a questo pericolo è il “feticcio
della legalità” e cioè l’incapacità di uscire dalla falsa contrapposizione tra
“legalità” e “illegalità”. In altre parole le assemblee autonome non riescono a
porre la questione dell’organizzazione a partire dai bisogni politici reali e
così finiscono per delimitare questi ultimi entro il tipo di organizzazione
legale che si sono date.”
Dunque, mentre i giudici sostengono che Aut Op è una banda armata
che ha coordinato l’attacco al cuore dello Stato insieme alle Br, queste ultime
l’accusano di essere legata al “feticcio della legalità”, cioè di non volersi
trasformare in una banda armata. Nemmeno il fatto che decine di autonomi
finiranno nel partito armato, ennesima conferma per i giudici dell’esistenza di
un rapporto diretto tra Aut Op e Br, significa molto, dato che nel partito
armato (Br, Prima Linea (Pl) Nap eccetera) militano cattolici come Curcio,
comunisti come Franceschini, sindacalisti come Moretti e tanti altri che non
hanno mai fatto parte di alcuna organizzazione. Alla domanda “di chi è figlio
il terrorismo di sinistra?” è dunque difficile rispondere. Gli autonomi lo
fanno con amara ironia: “di Donat Cattin!”, dato che il figlio del famoso
Ministro democristiano è uno dei leader di Prima Linea. Da sottolineare anche
che le Br concordano con il Pci sul ruolo della classe operaia nella società:
una comune visione che però non porta nessun giudice a spiccare un mandato di
cattura nei confronti di Berlinguer.
Anche i gruppi armati che nascono durante e, soprattutto, dopo il
1977 sono molto diversi dalle Br. Si tratta per lo più di minuscole formazioni
che firmano un attentato e poi scompaiono per sempre. Sono anch’essi il frutto
dell’eruzione sociale di quell’anno. Questi “gruppuscoli” non si preoccupano di
fare pervenire agli organi di informazione complesse risoluzioni teoriche, anzi
scimmiottano il tetro linguaggio dei brigatisti, e anche nelle sigle dimostrano
di essere altro da quel partito armato che vuole essere riconosciuto come il
principale soggetto politico, anzi l’unico, che si contrappone allo “Stato
borghese”. Sono i continuatori, anche se su altri fronti, di quella creatività
irriverente che è uno dei tratti più caratteristici del movimento del
Settantasette. Il Collettivo Automobilisti Proletari, le Colonne Capone, il
Fronte del Porto, i Gatti Selvaggi, i Gruppi Piromani Folli, il Gruppo per la
resa dei conti, i Nuclei Sconvolti per la sovversione urbana, le Talpe Rosse
Organizzate e il Collettivo “ve beccamo quanno volemo!” non sono certamente in
grado di prendere il potere e nemmeno lo vogliono. Sono, per dirla alla
Touraine, una collettività che con le armi cerca disperatamente di resistere al
clima di omogeneità politico-culturale che si respira negli anni della
cosiddetta “solidarietà nazionale”. Non un attacco allo Stato, dunque, ma una difesa dallo Stato.
E tuttavia, il Settantasette fornisce una massa impressionante di
nuove leve al partito armato. Perché?
Non compreso dai mass media, colpito duramente dalla repressione,
isolato anche dalla nuova sinistra, il Movimento si esaurisce presto, nel breve
volgere di un anno. Molti giovani si trovano allo sbando e devono fare i conti
con una profonda solitudine. Alcuni di loro vengono attratti dal fascino di una
“compagna bianca”, l’eroina, molti dalle campane di un sistema che, anche per
autodifesa, invita tutti al disimpegno, altri ancora, appunto, dalla causa di
una lotta ben diversa da quella immaginata quando il Movimento occupava le
piazze e le università di tutto il paese: una rivoluzione-festa. E così
un’intera generazione scompare. Non a caso un film sul Settantasette si
intitola Gli invisibili. Invisibili
nel mondo dell’eroina, invisibili nel disimpegno, invisibili nella lotta armata
clandestina contro uno Stato che cela molte delle sue azioni repressive
extralegali, molti dei suoi reali intenti, quelli che vanno oltre la difesa
della legalità democratica
(fine)