“Il lavoro rende
liberi” recitava la famigerata scritta posta all’ingresso del campo di
sterminio di Auschwitz: una frase che, a cominciare dall’accoppiata dei
concetti di “lavoro” e “libertà”, suonava come una presa in giro, trattandosi di
un ossimoro, che però molti ancora non esitano a negare. Lavoro, fatica, come
necessità per la sopravvivenza, ma anche come eccezione da riservare allo
stretto necessario, per quanto, l’eccezione col tempo sia diventata regola.
È vero che da
sempre popolazioni e individui costretti da sistemi sociali iniqui alla fame,
alla disoccupazione e alla precarietà, hanno visto nel lavoro, e soprattutto in
un lavoro rispettoso delle regole e della dignità umana, un modo per
emanciparsi dalla condizione di sfruttamento. Ed è stato compito delle
socialdemocrazie e delle chiese di tutto il mondo limitare a questo tipo di
“libertà” gli orizzonti emancipatori: ognuno al suo posto, il padrone in cima
alla piramide sociale, con la sua libertà di sfruttare, arricchirsi, determinare
le sorti dei subalterni; i lavoratori alla base della stessa piramide, con la
loro libertà di lavorare, obbedire, fare andare avanti la macchina del
capitale, ricevendo in cambio quei beni necessari al perpetuarsi della loro
funzione nella società. Tanto che, a secondo del tempo e/o del luogo, se al
termine lavoratore si sostituisse quello di schiavo, il risultato non
cambierebbe.
Oggi la grande
mattanza che si è fatta dei diritti dei lavoratori, la disoccupazione voluta
dai padroni per avere una vasta platea di richiedenti lavoro da poter
facilmente ricattare, o gettare nell’arena di una guerra fra i poveri sempre
più cruenta, conduce a una rivalutazione mistificante della frase di cui sopra.
Chi non ha
lavoro non ha libertà; milioni di persone non hanno libertà; solo il lavoro
potrà renderli liberi. Due cose sono chiare: la mancanza di libertà è un fatto
diffuso quanto quella di lavoro; il lavoro permette di conquistare la libertà
di consumare, spendere, girovagare nel supermercato mondiale. Una libertà,
dunque, tutta interna al sistema capitalistico, scambiata o venduta come LA Libertà;
un lavoro tutto interno ai meccanismi di riproduzione del capitale e delle
merci, a sua volta scambiato e vissuto come LA Libertà.
L’ideologia
nazista e l’ideologia capitalista, che in Italia possiamo coniugare come
Renziana, ma che è la stessa della organizzazioni sindacali, è tutta addentro
alle dinamiche dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, o dell’uomo sulla
natura; essa non sottrae l’individuo, o la classe di individui costretti a
chiedere, mendicare, supplicare, praticare un lavoro per vivere, al ricatto del
più forte, del padrone nelle sue varie accezioni.
Invece, proprio
ora che il lavoro si configura come uno stato di necessità, negato o
imbrigliato perché possa essere concetto mistificante, occorre tornare
all’origine del significato: lavoro non è libertà finché resta attività presa
in ostaggio dalle leggi capitalistiche, o schiavistiche comunque esse si
presentino. È libertà la ricerca di un’attività appagante, di un’attività
improntata alla realizzazione di rapporti sociali egualitari; è libertà la
lotta per sottrarsi ai ricatti padronali e statali, quindi per sganciare il
lavoro dallo sfruttamento.
Festeggiare il
lavoro è festeggiare lo sfruttamento; fare la festa al lavoro è intraprendere
un percorso di liberazione. Chiedere un lavoro, lottare per il lavoro, contro
la precarietà e la disoccupazione, è soltanto agire dentro i meccanismi del
sistema, barattare benessere con perdita di autonomia. Ci può salvare solo la
dignità: dignità di lottare con consapevolezza e coscienza degli obiettivi e
dei loro limiti; dignità di contrattare col padrone a partire da rapporti di
forza alla pari; dignità di possedere un sapere conquistato, da considerare
un’arma per poter fare a meno del padrone, e instaurare delle relazioni sociali
libere e autogestite.