
Di per sé, né la
disoccupazione volontaria, né gli atti di vandalismo gratuito sembrano in grado
di scuotere la società e indirizzarla verso una situazione rivoluzionaria. Nel
giro di un decennio la storia ha reso obsoleto il nostro esperimento,
accogliendo, per assurdo, la nostra rivendicazione di una classe inadatta al
lavoro. Il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti, presunto al 4% nel 2000,
alla fine del 2009 era salito al 10% – contando soltanto le persone che
cercavano attivamente un impiego. Gli eccessi della società dei consumi una
volta offrivano a chi se ne chiamava fuori un certo margine di errore; la crisi
economica ha eroso questo margine e ha conferito alla disoccupazione un sapore
decisamente involontario.
È ormai evidente
che il capitalismo non ha più bisogno di noi di quanto noi abbiamo bisogno di
lui. E questo non vale soltanto per gli anarchici refrattari, ma per milioni di
lavoratori negli Stati Uniti. Nonostante la crisi economica, le grandi
multinazionali continuano a registrare enormi profitti, ma invece di usare
queste entrate per assumere più dipendenti, investono nei mercati esteri,
acquistano nuove tecnologie per ridurre il fabbisogno di manodopera, e
distribuiscono i dividendi agli azionisti. Ciò che fa bene alla General Motors
non fa bene al paese, insomma. Le aziende statunitensi più redditizie stanno
ora trasferendo la produzione e i consumi all’estero, nei “mercati in via di
sviluppo”.
In questo
contesto, la cultura dell’autoesclusione assomiglia un po’ troppo a un
programma volontario di austerità; ai ricchi conviene, se rifiutiamo il
materialismo consumistico, dato che in ogni caso non c’è abbastanza per tutti.
Alla fine del Ventesimo secolo, quando la maggior parte delle persone si
identificava con la propria professione, il rifiuto di abbracciare il lavoro
quale forma di realizzazione personale esprimeva il rigetto dei valori
capitalistici. Oggi il lavoro saltuario e l’identificazione con le proprie
attività ricreative, invece che con la carriera professionale, sono ormai
normalizzati come condizione economica piuttosto che politica.
Il capitalismo
sta facendo propria anche la nostra convinzione che le persone dovrebbero agire
secondo la propria coscienza, invece che per un salario. In un’economia che
offre abbondanti possibilità di vendere il proprio lavoro, è ragionevole
sottolineare l’importanza di altre motivazioni per svolgere un’attività; in
un’economia in crisi, essere disposti a lavorare gratuitamente ha implicazioni
diverse. Lo Stato, per compensare gli effetti deleteri del capitalismo, fa
sempre più assegnamento sulla stessa etica dell’autoproduzione che un tempo
animava il movimento punk. Lasciare che i volontari ambientalisti ripuliscano
la chiazza di petrolio provocata dalla BP costa molto meno di farlo fare a
dipendenti retribuiti, per esempio. Lo stesso vale per Food Not Bombs, se lo si
considera un programma di beneficenza anziché un metodo per generare flussi
sovversivi di risorse e solidarietà.
Oggi la sfida
non è convincere la gente a rifiutarsi di vendere il proprio lavoro, ma
dimostrare come una classe in esubero sia capace di sopravvivere e resistere.
Di disoccupazione ne abbiamo in abbondanza: dobbiamo interrompere i processi
che producono povertà.