Per evitare ogni confusione teorica, Malatesta fu costretto a fare chiarezza epistemologica sul rapporto fra anarchia e l’azione sindacale. Applicando la fondamentale distinzione tra giudizi di fatto e giudizi di valore, Malatesta rivendicò come giusta e necessaria la sostanziale divisione fra movimento politico e movimento economico. Il movimento politico persegue fini universali, la sua valenza è rivoluzionaria perché le sue motivazioni sono ideali; il movimento economico persegue fini particolari, la sua valenza non può che essere riformista. Questa divisione, a sua volta, è la conseguenza della differenza tra movimento operaio e dottrina sindacale. Il movimento operaio è un fatto che nessuno può ignorare, mentre il sindacalismo è una dottrina e un sistema. Poiché il movimento è solo un fatto, sia pure fondamentale, si deve applicare nei suoi confronti un giudizio di fatto, che non va confuso come giudizio di valore, in questo caso la dottrina del sindacalismo. Si tratta soltanto di constatare la sua importanza storica, senza caricarla di significati metafisici, come fanno invece i sindacalisti puri o rivoluzionari. È necessario perciò che l’organizzazione sindacale rifletta tale giudizio di fatto, delineandosi, per l’appunto, come una semplice realtà, cioè mantenendo la sua intrinseca e naturale non intenzionalità ideologica. La conclusione, pertanto è che i sindacati siano aperti a tutti i lavoratori senza distinzione di opinioni, dei sindacati assolutamente neutri. Naturalmente affermando che il sindacato è per sua natura corporativo o, a dir meglio, riformista. Malatesta arriva a concludere che esso è intrinsecamente non rivoluzionario, per cui anche se lo si rinforza con l’attributo del tutto inutile di rivoluzionario, il sindacalismo è e sarà sempre un movimento legalitario e conservatore, dato che vive senza altro scopo possibile che il miglioramento delle condizioni di lavoro.
Malatesta esprimeva dunque il più classico punto di vista anarchico, fondato sulla consapevolezza che solo la dimensione politica era veramente universale e rivoluzionaria e che pertanto non si poteva pretendere che la classe lavoratrice, tutta tesa al legittimo miglioramento delle proprie condizioni di vita, si facesse carico dell’intera trasformazione sociale. Troppo semplice era la credenza che lo scontro sociale tra operai e classe padronale dovesse necessariamente coinvolgere tutta la società, la cui realtà era assai più complessa e diversificata.