..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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mercoledì 15 agosto 2012

Ragione di Stato

La guerra alla Libia, con la liquidazione del regime di Gheddafi, l’appoggio agli insorti, fino ad usarli come pedine sul campo di battaglia, la sperimentazione di nuove forme di intervento, come l’utilizzo dei bombardieri americani senza pilota (parti dalla Sicilia), è stata il frutto di un’accelerazione  impressa agli eventi dagli Stati Uniti d’America e dai loro alleati (Francia e Gran Bretagna in primis), accompagnata da una campagna mediatica montata ad arte per fornire una giustificazione morale (cioè quasi sempre “umanitaria”) all’aggressione. La situazione libica si è così “normalizzata”, e gli aggressori hanno ottenuto due risultati: eliminare il clan Gheddafi, che dal punto di vista politico strategico è sempre stato una pedina scomoda nello scacchiere nordafricano e mediterraneo, e neutralizzare sul nascere una rivoluzione che avrebbe potuto far sorgere una nuova società libica internamente più equa ma sul piano internazionale non controllabile, anzi contaminante. Adesso in Libia il potere è stato ristabilito; lo Stato è sostanzialmente diviso in due tra Pirenaica e Tripolitania, in mano a tribù e clan concorrenti e belligeranti fra loro, con forte presenza di integralisti e alqaedaisti. Ma l’importante è, per l’Occidente, l’aver ristabilito i flussi de petrolio e del gas e quelli delle armi.
Se fu la ragione di Stato a provocare l’intervento degli Stati occidentali in Libia, è la stessa ragion di Stato a consigliare agli stessi di non intervenire in Siria. Quella che qualcuno potrebbe interpretare come ipocrisia, è in realtà il tipico cinismo di chi non ha nessuna remora morale nel condannare all’isolamento e al massacro un popolo, pur ammantando il proprio quotidiano sproloquio da frasi umanitarie e da lacrime da coccodrillo.
È sempre il bieco tornaconto a guidare le scelte degli Stati. E nel caso siriano questo vuol dire la sostanziale preferenza di un regime come quello del Ba’th (al potere dal 1963) e la famiglia Assad, che controlla il paese dal 1970, ad un eventuale nuovo regime in mano a forze integraliste o indipendenti dalle ipoteche occidentali, che potrebbe scompaginare gli equilibri (quasi sempre di terrore) consolidati nell’area. La Siria infatti, oltre a confinare con stati incandescenti come il Libano, l’Iraq, (e il Kurdistan), la Turchia e Israele, ha un contenzioso aperto con quest’ultimo per l’occupazione delle alture del Golan del 1967; in più è alleata dell’Iran, l’unica vera potenza egemone nell’area, ed è partner commerciale (cioè acquirente di armi) di Russia e Cina. Sono questi tutti fattori che sulla bilancia della politica estera americana e occidentale, pesano più dei massacri di popolazione civile, della repressione di ogni forma di dissenso, dello sdegno internazionale per la politica stragista del regime di Assad.
Un intervento rischierebbe di scoperchiare la pentola a pre4ssione mediorientale scatenando una serie di conflitti dall’esito imprevedibile, ma soprattutto rimettendo in discussione l’occupazione israeliana della Palestina, e il ruolo dello Stato d’Israele quale gendarme degli Stati Uniti in Medio Oriente. Non si tratterebbe di una passeggiata “alla libica”, di un grande favore all’industria militare, di un campo di sperimentazione di nuovi sistemi d’arma, ma di una trappola che gli USA, ancora infognati in Iraq e in Afghanistan, non si possono permettere.
Il popolo siriano è quindi solo. Solo come i palestinesi, come tutti i popoli che hanno dato vita alla primavera araba e che, un anno dopo si ritrovano a combattere cricche e corruzione, integralismi e ipoteche occidentali. Solo, a maggior ragione, perché la voce di chi è contro tutte le guerre, è oggi più flessibile che mai, perché la solidarietà internazionale è limitata agli aspetti degli aiuti umanitari, perché il Mondo è soffocato dalla follia degli Stati e degli imperialismi, e stenta a farsi strada un nuovo internazionalismo che ridia slancio e fiducia alle lotte di liberazione.
Pippo Gurrieri