..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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domenica 31 marzo 2013

Per ricordare Enzo Jannacci

“Ho visto un re” di Dario Fo e Enzo Jannacci, non è quella che potrebbe sembrare, una canzonetta allegra e spensierata, ma è una delle canzoni più politiche e serie del panorama musicale italiano.
Essa costituisce un'ironica presa di posizione nei confronti dei potenti, i cui interessi vanno sempre a scapito della gente comune. Jannacci (che l’ha resa famosa) la propose alle audizioni per partecipare a Canzonissima 1968, ma la canzone fu respinta a causa del testo, il quale ci ribadisce che colui che sta al di sopra di un altro si arricchisce alle spalle di quest'ultimo sfruttandolo e impadronendosi degli averi del sottomesso, per diventare ancora più ricco e potente.
Così l’imperatore toglie un castello al re (di 32 che lui ne ha), così il cardinale toglie un’abbazia al vescovo (di 32 che lui ne ha), così il vescovo il re e l’imperatore tolgono al ricco un fabbricato (di 32 che lui ne ha), fino a quando tutti insieme dissanguano il contadino, ultima ruota del carrozzone, togliendogli tutti i suoi beni: la casa,il cascinale,la mucca ecc.
Ma al contrario dei primi che piangono per il bene portato via nonostante ne avessero ancora 31, il contadino non deve piangere, anzi deve ridere perché se questo è allegro, il padrone, il re, il vescovo, i governanti sono contenti, in poche parole l’operaio, lo sfruttato, il disoccupato deve essere spensierato e allegro perché se comincia a pensare e quindi ad incazzarsi, per i primi sono problemi.
Naturalmente il brano fa riferimento a tempi passati, ma a pensarci bene è ancora attuale; sono sempre i poveracci ad essere spennati (tasse, aumento dei prezzi, licenziamenti, disoccupazione …) e i padroni, i governanti vogliono che stiamo allegri facendoci un massiccio e giornaliero lavaggio di cervello con quell’infernale strumento che è la televisione con i suoi programmi (sottoculturali) di intrattenimento e con partite di calcio, che fanno sì che il problema più importante da discutere sia il perché non è stato dato il rigore a quella squadra ed invece è stato dato all’altra (inutile dire che Berluska e la classe politica degli ultimi 20 anni sono andati al potere e lo mantengono saldamente grazia alle TV).
Questa canzone deve essere ascoltate e cantata la sua ironia, ma deve essere anche ascoltata con la presa di coscienza che le cose si possono e si devono cambiare.
Questo post è stato scritto per ricordare uno dei suoi più grandi interpreti.


Ciao Enzo!


giovedì 28 marzo 2013

Togliamo un po’ di pregiudizi sull'anarchia

La proposta anarchica è una proposta di rivoluzione che se applicata andrebbe a modificare sostanzialmente l'esistente, eliminando qualsiasi forma di autorità, potere, istituzione, privilegio, sfruttamento. È quindi facilmente intuibile come tale proposta sia sempre stata ostacolata da ogni potere mediante la repressione diretta e con la distorsione del messaggio antiautoritario.
Quindi prima di andare avanti, per cercare di definire e meglio comprendere cosa sono e cosa propongono gli anarchici, conviene da subito chiarire cosa non è l'anarchia e cosa non sono gli anarchici.

"L'anarchia è caos invivibile"
Questa affermazione lascia intendere che una società anarchica sarebbe una società senza regole, dove ognuno tenterebbe di uccidere, rapinare, stuprare l'altro. Niente di più falso: l'anarchia è sostanzialmente un messaggio di cooperazione con l'altro, basato però non sulla paura e sul ricatto dato dalla Legge, ma sulla responsabilità degli accordi liberamente presi. Tra l'altro, il mutato tessuto sociale, nella maniera che cercheremo più avanti di analizzare, modificherebbe sostanzialmente i rapporti umani in maniera tale che essi verrebbero ridefiniti e di conseguenza ridotti anche i rapporti conflittuali.

"L'anarchia sarebbe bella ma non è possibile"
Presupponendo che l'essere umano sia fondamentalmente incapace di autorganizzarsi o autogovernarsi e che quindi abbia naturalmente bisogno di qualcuno che lo comandi, che lo indirizzi e scelga per lui, l'affermazione è falsa perché parte da presupposti falsi, ovvero che l'essere umano abbia solo istinti innati o naturali... L'essere umano, invece, è soprattutto il risultato della società in cui cresce: se cresce in un ambiente autoritario sarà per lui "naturale" muoversi su ordine, e a sua volta dispensarne; se cresce tra relazioni paritarie e responsabilizzanti sarà poi in grado di autoregolarsi, senza la necessità di capi.

"L'anarchia è disorganizzazione"
Facendo intendere che sarebbe impossibile poi sopravvivere in un tale stato primordiale. Niente di più falso. L'anarchia è super organizzazione (dei beni, delle risorse, degli spazi, etc.), proprio perché non delega ad un ente questa funzione, ma implica l'assunzione di responsabilità individuali. Quindi non c'è nulla di più organizzato che la proposta anarchica in quanto tale. Si tratta solo di adottare una diversa modalità organizzativa (non autoritaria, autogestionaria), non di eliminarla.

"Gli anarchici sono violenti"
Gli anarchici in quanto tali ripudiano la violenza studiata ed applicata nei confronti di altri esseri senzienti; come quella sistematicamente perpetrata dal Dominio nei secoli attraverso il carcere, la tortura, l'omicidio. La violenza che possono a volte applicare si esprime solo sotto forma di autodifesa degli spazi di libertà attaccati dal Potere.

"Gli anarchici sono terroristi"
Questa considerazione, che fa il paio con la prima, mira tendenziosamente a scambiare la vittima con il carnefice: casomai è vero che gli anarchici sono a volte terrorizzati dall'attuale stato delle cose. Quando storicamente hanno fatto uso di mezzi o modi conflittuali l'hanno sempre fatto per cercare di difendersi da un sistema sociale particolarmente violento od oppressivo.

sabato 23 marzo 2013

La fine dello stato

Contro la produttività delle cose e delle persone, contro la falsa gratuità contemplativa che ne è il complemento, lentamente si coalizza quella parte della vita che la prospettiva del potere ha obliato nel cuore delle pietre, degli alberi e delle persone. Nel suo irrompere imprevisto spariranno l’economia e gli Stati, mentre emergerà la società dove la ricchezza tecnica è al servizio della ricchezza dei desideri individuali. Questa è la lotta collettiva che la merce e i suoi storpi si rifiutano di veder montare contro di loro. La nuova sensibilità annuncia un mondo nuovo. L’intelligenza sensuale da forma alla fine definitiva del lavoro e delle separazioni. La vera spontaneità è propria solo dei desideri alla ricerca dell’emancipazione. Essa dissolverà l’incubo millenario dell’economia, la civilizzazione mercantile con le sue banche, le sue prigioni, caserme, fabbriche, la sua noia mortale. Presto costruiremo le nostre case, le nostre strade riscaldate, i nostri percorsi labirintici in una natura riconciliata con la mano dell’uomo. Avremo delle regioni fetali, dei posti d’avventura, dimore ispirate e fluttuanti, altri tempi, dove l’età non avrà più senso e il reale non avrà limiti. Inventeremo dei micro-climi varianti secondo gli umori, e dimenticheremo l’epoca in cui, la burocrazia scientifica, perfezionando le armi della distruzione meteorologica, ci trattava da utopisti. Perché la spontaneità ha l’innocenza di cancellare questo passato terribilmente presente dove niente di ciò che uccide è impossibile,e dove tutto ciò che incita a vivere è tacciato di follia.

Marxismo e Anarchismo


Per Marx la definizione di proletariato andava riferita a chiunque fosse privo di mezzi economici, per gli anarchici a chiunque mancasse dei mezzi non solo economici, ma anche intellettuali. Mentre il comunista tedesco Karl sosteneva che la disuguaglianza fra gli uomini derivava dallo sfruttamento capitalista, Bakunin affermava esattamente il contrario: a suo avviso lo sfruttamento economico derivava dalla disuguaglianza, precisamente dalla divisione gerarchica del lavoro sociale. In questo modo l’anarchismo veniva a distinguere sul piano epistemologico, la realtà dello sfruttamento da quella della disuguaglianza.
Il senso della contrapposizione fra marxismo e anarchismo era dunque chiaro. L’anarchismo affermando la storicità dello sfruttamento capitalista, dava una spiegazione non economica ma politica della disuguaglianza fra gli uomini: vale a dire la gerarchia come effetto dell’applicazione del principio di autorità, della formazione e dell’esistenza di ogni potere, del potere in quanto tale. Era, una spiegazione ricavata dall’analisi sociologica della divisione gerarchica del lavoro intesa come la forma strutturale della disuguaglianza fra gli uomini. In questa prospettiva analitica il capitalismo non era altro che una forma storica, succeduta ad altre, dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo. Non bastava perciò per gli anarchici abolire il capitale. Bisognava contemporaneamente abolire il principio di autorità, la cui massima espressione storica era data dallo Stato, e realizzare con l’integrazione fra lavoro manuale e lavoro intellettuale in ogni uomo e donna, la parte positiva del socialismo, abbattendo così la radice strutturale della disuguaglianza, ossia la divisione gerarchica del lavoro.
Il marxismo riteneva invece che tutto questo fosse altamente idealistico, generico, una pura frase, come scrissero a più riprese Marx ed Engels. Quindi dove il marxismo si delineava come la teoria critica di una determinata società storica “il capitalismo”, l’anarchismo si proponeva come un’analisi critica del modello gerarchico di società, della struttura del dominio. In altri termini, mentre l’oggetto della scienza marxista era l’insieme dei rapporti storici fra borghesia e proletariato, tra capitale e forza lavoro, vale a dire una scienza di un concreto storico specifico, l’oggetto della teoria anarchica era l’insieme dei rapporti generali, neutri riproducibili del principio di autorità, vale a dire una scienza del dominio esistente visto come forma particolare del dominio possibile, della possibilità stessa del dominio.

domenica 10 marzo 2013

Lo Stato moderno viola tutti gli ambiti della vita

Il grado di invadenza del governo occidentale contemporaneo probabilmente non trova uguali, per quantità di ambiti e meticolosità della prescrizione. Mai nella storia dell’umanità sono stati regolamentati in maniera così vincolante i comportamenti degli uomini.
Non si può esercitare qualsiasi commercio senza autorizzazione. Sono stati vietati certi giochi di carte. Sono stati vietati innumerevoli alimenti di produzione casalinga o artigianale, ad esempio, sono stati regolamentati in maniera restrittiva i fermenti lattici utilizzabili per fare il formaggio. In diverse città le norme urbanistiche ti costringono scegliere il colore delle persiane. C’è l’obbligo per ogni cittadino di frequentare la scuola; non si tratta qui di discutere sulla bontà del processo di alfabetizzazione ma del fatto che questo venga obbligatoriamente imposto nella forma scolastica. Vaccinare i figli è indispensabile, anche per malattie oggi praticamente inesistenti. Ogni spazio  pubblico o  privato, è stato sottoposto a una sterminata, capillare, ossessionante serie di vincoli e certificazioni. È proibita la coltivazione e il consumo di marijuana. Per molti cittadini del mondo non è più possibile spostarsi liberamente. Non si possono più raccogliere castagne o legna secca per riscaldarsi perché a tutto è stata assegnata una proprietà. Per raccogliere i funghi è richiesta una autorizzazione. Non si possono cantare canzoni in pubblico perché protette dai diritti d’autore. Non si possono fare fotocopie di libri. In diversi luoghi non si può dormire all’aperto e non si possono fare fuochi. Non ci si può riposare orizzontalmente su panchine. Non si può distillare la grappa o piantare una vigna senza prima pagare per una autorizzazione.
Si potrebbe proseguire per pagine. Considerato che viviamo nell’auto-proclamata società della libertà, la lista di ciò che non si può fare, almeno legalmente, è davvero lunga. La maggior parte sono attività che l’umanità, nei secoli, ha sempre svolto senza pensare che potessero essere rese illegali.
Questo insieme di divieti rende, di fatto, criminosi certi stili di vita, che pur non danneggiano nessuno, se non gli interessi della burocrazia e del mercato. Si tratta di prevaricazioni che, evocando la tutela dei cittadini, permettono allo Stato di ergersi a censore di prassi difformi da quelle prevalenti:  lo Stato moderno viola tutti gli ambiti della vita, in modo da rendere virtualmente impossibile ignorare o sottrarsi alla sua influenza. L’estensione dei divieti è tuttora in corso, in fase di accelerazione. senza una reale distinzione di schieramento politico, vengono promulgate ordinanze locali che assoggettano vissuti, limitano libertà e spingono, sempre più, a dipendere dal mercato, vietando forme aggregative, ludiche e di sussistenza. Questa moltiplicazione di normative sembrano avere due principali finalità:
a - implementare nuovi e più repressivi codici estetici e di decenza in un processo di musealizzazione degli ambienti;
b - estinguere la possibilità di una socialità (giocare, riposarsi, mangiare, bere, dormire, amoreggiare, chiacchierare, commerciare, lavorare) gratuita per incanalarla in spazi appositi, a pagamento. Da una parte voto/delego dall’altra lavoro/guadagno/pago/consumo.


lunedì 4 marzo 2013

8 marzo, non una festa ma una giornata di lotta

Oramai, purtroppo, si è talmente abituati a considerare l'8 marzo come il giorno delle mimose, delle cene con le amiche senza mariti e compagni, che forse ci siamo dimenticati o molti di noi nemmeno sapranno qual è stata la strada che ci ha condotto a scegliere l'8 marzo come Giorno dedicato alle Donne, e soprattutto come si è potuto parlare di emancipazione femminile.
L'origine della “Festa” dell'8 Marzo risale al 1908, quando un gruppo di operaie di una industria tessile di New York scioperò come forma di protesta contro le terribili condizioni in cui si trovavano a lavorare. Lo sciopero proseguì per diverse giornate ma fu proprio l'8 Marzo che la proprietà dell'azienda bloccò le uscite della fabbrica, impedendo alle operaie di uscire dalla stessa. Un incendio ferì mortalmente 129 operaie, donne che cercavano semplicemente di migliorare la propria qualità del lavoro. Tra di loro vi erano molte immigrate, tra cui anche delle donne italiane che, come le altre, cercavano di migliorare la loro condizione di vita.
Successivamente questa data venne proposta come giornata di lotta internazionale, a favore delle donne, da Rosa Luxemburg, proprio in ricordo della tragedia.
Questo triste fatto, ha dato il via negli anni immediatamente successivi ad una serie di celebrazioni che i primi tempi erano circoscritte agli Stati Uniti e avevano come unico scopo il ricordo della orribile fine fatta dalle operaie morte nel rogo della fabbrica.
Nel settembre del 1944 si costituì a Roma l’UDI, Unione Donne Italiane, per iniziativa di donne appartenenti a vari movimenti politici, e fu l’UDI a prendere l’iniziativa di celebrare, l’8 marzo 1945, le prime giornate della donna nelle zone dell’Italia libera, mentre a Londra veniva approvata e inviata all'ONU una Carta della donna contenente richieste di parità di diritti e di lavoro. Con la fine della guerra, l'8 marzo 1946 fu celebrato in tutta l'Italia.
Poi, con il diffondersi e il moltiplicarsi delle iniziative, che vedevano come protagoniste le rivendicazioni femminili in merito al lavoro e alla condizione sociale, la data dell'8 marzo assunse un'importanza mondiale, diventando, grazie alle associazioni femministe, il simbolo delle vessazioni che la donna ha dovuto subire nel corso dei secoli, ma anche il punto di partenza per il proprio riscatto.
Solo nel dicembre 1977 l'Assemblea Generale delle Nazioni Unite ha adottato una risoluzione proclamando l'8 marzo come Festa Internazionale della donna.
Ai giorni nostri la festa della donna è molto attesa, le associazioni di donne organizzano manifestazioni e convegni sull'argomento, cercando di sensibilizzare l'opinione pubblica sui problemi che pesano ancora oggi sulla condizione della donna, ma è attesa anche dai fiorai che in quel giorno vendono una grande quantità di mazzettini di mimose, divenute il simbolo di questa giornata, a prezzi esorbitanti, e dai ristoratori che vedranno i loro locali affollati, magari non sanno cosa è accaduto l'8 marzo del 1908, ma sanno benissimo che il loro volume di affari trarrà innegabile vantaggio dai festeggiamenti della ricorrenza. Nel corso degli anni, quindi, sebbene non si manchi di “festeggiare” queste data, è andato in massima parte perduto il vero significato della festa della donna, perché la grande maggioranza delle donne approfitta di questa giornata per uscire da sola con le amiche per concedersi una serata diversa, magari all'insegna della "trasgressione", che può assumere la forma di uno spettacolo di spogliarello maschile, come possiamo leggere sui giornali, che danno grande rilevanza alla cosa, riproponendo per una volta i ruoli invertiti. Per celebrare la festa della donna, bisogna comportarsi come gli uomini?
Non dimentichiamoci quindi che l'8 Marzo è il ricordo di quella triste giornata del 1908.
Non è una "festa ma piuttosto una giornata di lotta e di presa di coscienza da parte di entrambi i sessi, che non c’è ancora parità di diritti tra uomini e donne nei posti di lavoro, nella politica, nelle case, nella vita sociale. Che la donna subisce ancora violenze, specialmente in ambito familiare e che è ancora considerata un essere di secondo piano. Non una festa ma una ricorrenza da riproporre ogni anno come segno indelebile di quanto accaduto il secolo scorso e di quanto, purtroppo, sta accadendo ancora oggi.

domenica 3 marzo 2013

I tempi sono maturi


Io so che i nemici maggiori del progresso non sono i despoti, i tiranni, gli oscurantisti. Questi, nel loro assurdo, fanno meglio apparire direi quasi i vantaggi, le bellezze della idea del progresso, e così, in un certo senso, gli servono mirabilmente. I maggiori nemici del progresso sono i falsi liberali, i moderati. Essi che acconsentono alle nostre idee, ma come idee; — essi che amano, come lor piace di dire, la giustizia e la libertà, ma per proclamarle poi in fatto utopie, — che all’ultimo raziocinio, all’ultima pietra che cade nella loro fortezza ci fanno la carità di un ultimo consiglio, e ci sussurrano: I tempi non sono maturi
I tempi non sono maturi! — Ecco come s’insulta all’umanità, al diritto, alla giustizia. — Ecco la più insulsa delle offese, e la più cretina delle risposte.
Chi farà maturi i tempi? — E chi ne avvertirà del momento quando lo saranno? — E che farete voi anche allora, perché non lo fate adesso? — Voi direte allora: I tempi non sono maturi. Perché voi non volete il progresso, perché voi non volete la libertà, perché voi non volete la giustizia.
Voi dite che i tempi non sono maturi per ritardare ancora il momento della giustizia, perché intanto non vi si tocchi. — Giù la maschera. — I tempi sono sempre maturi per togliere l’ingiustizia quando l’ingiustizia esiste. — Attendete che l’uomo si sia rimesso in piedi per rialzarlo? — Allora sarà venuto il momento di dargli aiuto? — O quando giace? O quando l’aggressore gli sta sopra? O quando vi chiede soccorso?
I tempi sono maturi, quando domina l’ingiustizia, quando trionfa il male, quando la misura è colma, quando la voce dell’umanità oltraggiata si alza terribile, e fa agghiacciare il sangue dei traditori, dei parassiti.
I tempi sono maturi, perché si sente nell’aria un rombo che è come la voce di mille e mille grida di dolore e di rabbia, perché l’eco se ne ripercuote fragorosa dalle catene dei monti d’Irlanda a quelle della Sicilia; perché un grande pensiero avvicina gli operai di tutto il mondo; perché tutti gli schiavi si fanno della partita.
Sì, il polline è maturo e sta per cadere, perciò l’ovario si distende trepidante, invocando il bacio fecondatore. — Prepariamo il terreno che si vuol coltivare.
Bisogna ricuperare la massima parte dell’umanità, che langue senza pensiero, senza dignità, senza vita.
E non sono maturi i tempi per farlo?
I tempi sono maturi!
Proviamo a scuotere tutti insieme basti e catene!
Si udrà un gran fracasso!
Il fracasso divertirà… e si vedran allibire quelli che ce lo voglion tenere il basto, quelli che dicono che i tempi non sono maturi.

Carlo Cafiero (La Plebe, Milano, 26-27 novembre 1875)

venerdì 1 marzo 2013

Contro il razzismo di stato

Non è facile vivere in Italia se sei immigrato. La legge attuale ti rende la vita impossibile.
Per entrare legalmente in questo paese ci vuole il permesso di soggiorno, ma per ottenerlo devi dimostrare di avere già un lavoro in Italia: cosa semplicemente impossibile per chi emigra proprio alla ricerca di un’occupazione! Dunque, se non hai il permesso di soggiorno sei “clandestino”. E se sei clandestino, vieni rinchiuso per sei mesi in un Centro d’Identificazione ed Espulsione. Finisci dietro le sbarre solo perché non hai i documenti. E poi ti rimandano al tuo paese, dove magari c’è la guerra o la miseria più nera. Può anche darsi che ti lascino andare con un foglio di via, ma se ti ribeccano in giro ti sbattono in galera, perché la clandestinità è un reato penale. Puoi diventare clandestino anche dopo anni di lavoro regolare: ti eri fatto una famiglia, una vita, gli amici, ma la crisi morde e i padroni sono spietati. Il permesso di soggiorno ce l’hai finché hai un contratto di lavoro. Se ti licenziano, perdi il permesso e rischi di essere arrestato e deportato dopo anni di sacrifici.
A che serve tutto questo?
Serve ai padroni innanzitutto. Quando sei clandestino non esisti e non hai diritto a niente. Lavori come uno schiavo e devi stare zitto per paura di essere denunciato. Nei campi, nelle fabbriche, nei cantieri, l’Italia va avanti grazie al sudore e al sangue degli immigrati. La clandestinità si traduce, di fatto, in un potere di ricatto nelle mani di chi sfrutta i lavoratori
A che serve tutta questa repressione?
Serve ai politici, per scaricare sui più deboli le loro responsabilità, per terrorizzare la gente facendo credere che tutto va male per colpa degli stranieri, per alimentare il razzismo inducendo un ossessivo bisogno di sicurezza, per abituare le persone a livelli sempre più bassi di tutele e diritti, per scatenare guerre tra poveri che fanno solo il gioco di chi siede sulle poltrone del potere.
E a noi che importa?
Ci importa eccome! Ci importa perché la libertà degli immigrati è la nostra libertà, perché i diritti di uno sono i diritti di tutti, a prescindere dal colore della pelle o dal posto in cui si è nati. Il razzismo di stato serve a plasmare una società sempre più impaurita e sempre meno libera, fondata sulla discriminazione e sullo sfruttamento: una società umanamente insostenibile.
Sono anni che lottiamo contro tutto questo, e non smetteremo mai finché non saranno abolite le leggi razziste, finché non saranno chiusi i centri di detenzione per immigrati, finché non saranno distrutte le frontiere fisiche e culturali che dividono le donne e gli uomini del mondo.
Non può e non deve essere una lotta di pochi, perché in gioco c’è la libertà di tutti!