..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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sabato 22 novembre 2014

Il corpo è il megafono della rivoluzione

La diffusione e l’estensione dei comportamenti illegali, negli ultimi mesi, ha trasformato la necessità della sopravvivenza, della soddisfazione dei bisogni materiali in una rete, parcellizzata ma più solida, di resistenza al Potere-Stato-lavoro.
La rivolta vive nella concretezza quotidiana degli individui.
La profondità dell’antagonismo di questi comportamenti sta nella loro praticabilità diffusa, nella dimensione individuale o di piccolo gruppo che esclude l’esemplarismo degli espropri, di mitologia-memoria M-L e spiazza ogni progetto di contenimento-repressione da parte del Potere. Comportamenti illegali: dal boicottaggio degli aumenti ATM (ma è quasi patrimonio storico, sapere come si fa a non pagare il biglietto), alle cene autoridotte con fuga digestiva finale fino ai furti generalizzati durante i giorni di vigilia di Natale.
Il Potere è costretto a barare con se stesso.
Dal 15 dicembre fino a Natale magazzini, negozi di lusso, ristoranti del centro presidiati da Polizia, Mondialpol, da guardiani con il “cannone” ben in vista. Far circolare-diffondere in ogni Organismo-Corpo-Soggetto, che è già predisposto a muovere e non a rimuovere il rifiuto del Potere e alle sue rappresentazioni. Andare oltre è rendersi antagonisti con lo Stato-Lavoro facendosi rincorrere smascherandolo e falsificandolo.
IL POTERE È UN TICKET sta a noi contraffarlo nelle sue innumerevoli espressioni: gettoni, cartoncini, biglietti, chiavi ecc. I bisogni materiali si concretizzano in comportamenti materiali, l’ARTE D’ARRANGIARSI si diffonde in gesti minoritari
Per creare una rete comunicativa cucita dai soggetti che non vogliono più farsi imprigionare in canali asfissianti e monolitici; proponiamo a: TUTTE LE BANDE, AI CIRCOLI, AI SINGOLI DELLA METROPOLI UN INCONTRO DA TENERSI ENTRO LA PRIMA META’ DI GENNAIO-

Volantino VIOLA, Milano 1977

giovedì 20 novembre 2014

Sabato 22 novembre. Corteo No Tav a Torino

Il movimento No Tav ha lanciato un appello per una settimana di lotta, nei vari territori, dal 14 - giorno della requisitoria per i quattro attivisti accusati di terrorismo - al 22 novembre. Altre iniziative si svolgeranno il 7 e 8 dicembre e il 17 dicembre, giorno in cui potrebbe essere emessa la sentenza.

A Torino il 22 novembre si terrà un corteo No Tav
Appuntamento in piazza Castello alle 14,30

di seguito il testo diffuso dal movimento No Tav quando Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò hanno rivendicato la partecipazione all'azione di sabotaggio di un compressore per cui sono in carcere da più di undici mesi.

14 maggio 2013.
Un gruppo di No Tav compie un’azione di sabotaggio al cantiere di Chiomonte.
Quella notte venne danneggiato un compressore. Un’azione di lotta non violenta che il movimento No Tav assunse come propria. Un’azione come tante in questi lunghi anni di lotta contro l’occupazione militare, contro l’imposizione violenta di un’opera inutile e dannosa.
Il cantiere/fortezza è ferita inferta alla montagna, un enorme cancro che ha inghiottito alberi e prati, che si mangia ogni giorno la nostra salute. In questo paesaggio di guerra ci sono gli stessi soldati che occupano l’Afganistan. Un compressore bruciato è poco più di un sogno, il sogno di Davide che abbatte Golia, il sogno che la nostra lotta vuole realizzare.
Il 9 dicembre del 2013 vengono arrestati Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò. Quattro di noi.
Nonostante non sia stato ferito nessuno, sono imputati di attentato con finalità di terrorismo sono accusati di aver tentato di colpire gli operai del cantiere e i militari di guardia.
Ai nostri quattro compagni di lotta viene applicato il carcere duro, in condizioni di isolamento totale o parziale, sono trasferiti in carceri lontane. Volevano rendere difficili le visite, volevano isolarli ma non ci sono riusciti. Noi andiamo e torniamo insieme: non lasciamo indietro nessuno.
Nonostante la Cassazione abbia smontato l’impianto accusatorio della Procura di Torino, negando che i fatti del 14 maggio possano giustificare l’utilizzo dell’articolo 270 sexies, che definisce la “finalità di terrorismo”, il processo va avanti. In novembre dovrebbe essere pronunciata la sentenza.
Decine di migliaia di No Tav, sin dai primi giorni dopo gli arresti, hanno detto: “quella notte in Clarea c’ero anch’io”. Il 22 febbraio e il 10 maggio si sono svolte le manifestazioni più importanti, ma non è mancato giorno in cui non vi sia stata un’iniziativa di solidarietà attiva.
Il 24 settembre in aula bunker Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò, per la prima volta dall’inizio del processo, hanno preso la parola, dicendo che quella notte, la notte del 14 maggio 2013, c’erano anche loro.
Le loro parole, pronunciate con fierezza di fronte a chi li ha rinchiusi in una gabbia da quasi un anno, sono le nostre parole, i nostri sentimenti, la nostra stessa strada.


Movimento No Tav

mercoledì 19 novembre 2014

Un anarchico nell'inferno della Caienna (Pt 3)

L'inferno
Dopo questo, a togliere definitivamente ogni illusione, vennero i trenta giorni di mare, sulla nave-galera che lo portava al bagno della Guyana. Suoi compagni di sventura erano ladri, assassini, bruti senz'anima figli dell'abiezione, della miseria, dell'ignoranza: Lebou, condannato a vita per avere bruciato sua madre; Faure, che per questioni di interesse squartò il fratello e lo diede in pasto ai maiali; Menetier, che aveva ucciso due vecchie per violentarne i cadaveri; ed altri tutti degni prodotti della società che li aveva generati. Questa umanità spaventosa veniva schierata tutte le mattine sul ponte per l'ispezione, fra il ludibrio, le volgarità, i commenti idioti della ciurma, dei secondini, dei passeggeri civili. Duval non era uomo da sopportare tale trattamento. Alla prima occasione si ribellò, rispondendo per le rime alle provocazioni, ed ebbe così un altro assaggio della sorte che lo attendeva al penitenziario: nudo come un verme, fu sbattuto per due giorni, in una cella piena d'acqua, in cui non poteva star ritto perché troppo bassa, né si poteva allungare perché troppo stretta. La repressione nella repressione. La Guyana era veramente un inferno, un abisso immondo di violenza e depravazione, reso ancora più intollerabile dal clima tropicale umido e caldissimo. Laggiù, l'idea ipocrita che la galera possa servire all'espiazione e al ravvedimento, trovava a quei tempi la più tragica delle smentite. La Guyana era sinonimo di lavoro forzato, di ferri alle caviglie, di cibo putrescente, di celle di punizione, di insetti brulicanti, di scorbuto, amebiasi, dissenteria. Redenzione? Al bagno, gli uomini perdevano la salute, la dignità, morivano di stenti e di malattie, marci nel corpo e nel cuore, avviliti, spezzati, violentati, ridotti loro malgrado allo stato di animali. I delinquenti più feroci ottenevano qualche squallido privilegio con la prepotenza, a spese dei propri stessi compagni. I più cinici barattavano la simpatia dei guardiani con il servilismo, la delazione. I più deboli subivano. Il penitenziario era l'immagine, peggiorata e pervertita, di tutti i vizi, di tutte le miserie, di tutte le sopraffazioni proprie della società che l'aveva prodotto. Proprio per quello, quelli che non erano piegati prima, quand'erano in libertà, non accettarono di piegarsi adesso che si trovavano in una società più feroce, ma non dissimile dall'altra. Duval (e in genere tutti gli anarchici che finirono al bagno) non fece eccezione. La storia della sua permanenza nell'isola maledetta è la storia della sua fierezza, della sua irriducibile volontà di lotta, del tentativo costante di non perdere la sua misura d'uomo, di non precipitare anche lui nel baratro di turpitudine che aveva di fronte. E ci riuscì. Si opponeva ai taglieggiamenti dei guardiani, insorgeva contro le ingiustizie, aiutava i compagni più sfortunati, smascherava le spie e i provocatori. I secondi più crudeli, i direttori inebetiti dall'assenzio, le canaglie, gli assassini, i bruti senz'anima che popolavano il penitenziario, impararono a tributargli una sorta di rispetto, certo degno di un ambiente migliore, in cui l'ammirazione per la rettitudine si mescolava al timore per la durezza della sua scorza. Un rispetto meritato, se si pensa al prezzo che dovette pagare per ottenerlo.

La rivolta

La notte fra il 21 e il 22 ottobre 1895 scoppiò una rivolta sull'isola, organizzata dal gruppo, abbastanza numeroso, di anarchici che si trovavano allora al bagno. Fu una impresa senza speranze, compiuta più per vendicarsi delle continue vessazioni cui erano sottoposti i compagni, che per le vere possibilità di successo che presentava. Duval partecipò attivamente alla sua preparazione, che fu lunga, controversa e laboriosa, ma al dunque dovette rinunciare a dare il suo apporto attivo perché mandato in un altro luogo per punizione. Fu, tutto sommato, una fortuna. Infatti, l'Amministrazione penitenziaria messa sull'avviso dalle delazioni di un paio di traditori, aveva deciso di cogliere l'occasione per sterminare l'intera colonia anarchica, fonte continua di preoccupazioni per il carattere indocile dei suoi componenti. E così fu. Appena i rivoltosi uscirono dalle camerate, trovarono ad attenderli i fucili delle guardie. "Sangue freddo e senza quartiere" aveva raccomandato il comandante Bonafai, capo del servizio di Sicurezza Interno, ai suoi uomini, che per l'occasione erano stati ubriacati come maiali. Con un massacro allucinante, gli anarchici Garnier, Simon, Leauthier, Lebault, Masservin, Dervaux, Chevenet, Boesie, Mesueis, Kesvau, Marpeaux, furono sorpresi, inseguiti, uccisi uno per uno senza pietà. L'indomani, i loro corpi crivellati di colpi vennero gettati in mare, in pasto ai pescicani, mentre la Commissione d'inchiesta, subito nominata, continuava la repressione, arrestando e mettendo ai ferri tutti quelli su cui aleggiava anche il semplice sospetto di aver aiutato i ribelli. Duval restò alla Guyana 14 anni. In questo tempo, tentò l'evasione più di venti volte, cogliendo ogni occasione, con ogni mezzo: su zattere di fortuna, su barche rubate o pazientemente costruite, clandestino sulle navi in transito. Ogni volta qualcosa andava per traverso. Veniva preso, scontava l'inevitabile punizione, e ricominciava. Se avesse rinunciato, dopo i primi fallimenti, sarebbe morto in galera come tanti altri, roso dalla febbre o ucciso da un guardiano. Invece, per la sua incapacità a rassegnarsi, si salvò. Tenta e ritenta, un insuccesso dopo l'altro, finalmente venne la volta in cui la fortuna girò per il verso giusto.

L'evasione
Il 13 aprile 1901, Duval, con otto compagni di pena, metteva in mare un fragile canotto e si dirigeva silenziosamente verso il mare aperto. Era notte fonda, e nessuna guardia si accorse dell'evasione fino al giorno dopo. I deportati ebbero modo, così, remando di buona lena, di allontanarsi indisturbati. Al mattino, issata la vela, fecero rotta verso nord-est, per uscire dalla giurisdizione francese. Una nave da guerra li incrociò, senza mostrare il minimo interessamento, continuando per la sua strada. Un buon inizio. Veleggiarono tranquilli per tutto il giorno sospinti da una brezza leggera. Al timone stava un mozzo, ottimo marinaio, la cui esperienza nautica contribuiva a tenere alto il morale degli evasi. Ma alla sera, il tempo si guastò. La brezza divenne ben presto un uragano capace di sollevare ondate gigantesche, che riempivano di acqua la barchetta, costringendo gli uomini ad un continuo angoscioso lavoro di svuotamento. Per di più, il mozzo a causa della mancanza di vitamine (retaggio del regime alimentare del penitenziario), di notte perdeva completamente la vista e la sua abilità diventava ben poca cosa senza l'aiuto degli occhi. Fu una notte d'inferno, in cui più volte corsero il rischio di finire ai pescecani. Il mattino dopo, le condizioni atmosferiche migliorarono, quelle del mozzo anche, e in breve tempo Duval e i suoi compagni giunsero in vista della terra. Era la zona di Paramaraibo, nella Guyana Olandese. Cioè fuori dalle grinfie dell'Amministrazione penitenziaria. Il più era fatto. Anche così, però, gli evasi erano in pericolo. Come galeotti fuggitivi, potevano essere incarcerati dalla polizia olandese. Se la Francia l'avesse saputo, potevano venire estradati e internati nuovamente nell'isola maledetta. L'Odissea non era ancora finita. Sarebbe durata due anni. Sempre sotto falso nome, sempre allerta per non venire scoperto, sempre in lotta con la fame e con le autorità, costretto ai lavori più umili e miserabili, Duval passò nella Guyana inglese, poi, da lì nella Martinica, giungendo infine a Porto Rico. Qui si fermò un poco, rimettendo in sesto la salute malandata e ricostruendosi un embrione di vita normale. Il 16 giugno 1903 si imbarcò per gli Stati Uniti, con la prospettiva di un'esistenza perlomeno libera. La deportazione era ormai solo un ricordo, anche se incancellabile.
(Fine)

martedì 18 novembre 2014

Un anarchico nell'inferno della Caienna (Pt 2)

Espropriatore
E Duval rubò. Per vivere, per mangiare, senza porsi problemi di alcun genere, con l'unica consapevolezza di non avere alternative. Rubò una prima volta, in una biglietteria ferroviaria, pochi franchi sottratti dal cassetto mentre l'impiegato era assente, e gli andò bene. Rubò una seconda volta, di lì a poco e nello stesso luogo, ma venne sorpreso e acciuffato. Il risultato immediato fu la prigione (un anno a Mazas) e l'abbandono, ormai definitivo, da parte della moglie. Ma non fu l'unico né il più importante. Quel primo contatto con l'illegalità lo fece meditare e lo convinse non solo della sostanziale legittimità del furto (o "riappropriazione individuale", come si diceva allora) ma della possibilità che esso divenisse un mezzo di lotta. Un mezzo, si badi, non un fine a sé stante. Ché proprio in questa concezione, accettabile o no che fosse sul piano della strategia rivoluzionaria, sta la grandezza d'animo di Clement Duval. Altri sarebbero venuti, dopo di lui, a rubare, a rapinare, solo per sé e per la propria vita, scambiando per rivoluzione quella che era invece rivolta individuale (pur comprensibile), convinti che bastasse sottrarre al ricco i suoi averi, senza domandarsi cosa bisognasse farne dopo. Duval, al contrario, vedeva nel furto solo uno strumento per finanziare l'attività politica, per stampare la propaganda sovversiva, per agitare le masse, per preparare le armi necessarie allo scontro con la borghesia sfruttatrice, per fare la rivoluzione anarchica. La sua, fu una lotta solitaria, a causa delle condizioni in cui fu costretto ad agire, ma non egoistica. Dopo i primi tentativi inconsapevoli, egli seppe oltrepassare la propria tragedia personale, trovando in essa il punto di partenza per una visione più ampia, la ragione di una lotta fatta né per se stesso né per gli altri, ma per tutti. Quando Duval uscì di galera, cominciò attivamente a fare propaganda libertaria nelle fabbriche, intorno a Parigi, e si rese conto di essere come in guerra. Una guerra condotta senza esclusione di colpi, senza convenzioni internazionali che ne regolassero i meccanismi, senza aristocratico fair-play. Ogni rivendicazione finiva con licenziamenti massicci, ogni sciopero si trovava di fronte i fucili dell'esercito ed erano morti e feriti, ogni pubblica manifestazione di dissenso era l'occasione per arresti di massa (ed era la galera, la deportazione, la ghigliottina). Duval pensò (chi può dargli torto?) che non si potesse fare altro che rispondere alla violenza con la violenza. E, perdio, rispose. Una fabbrica di pianoforti, gli edifici della compagnia degli Omnibus, una ebanisteria, una fabbrica di carrozze, le officine Choubersky dove egli stesso lavorava, la ditta Belvallette di Passy: i luoghi dove lo sfruttamento più disumano veniva consumato, dove gli operai sputavano la salute 14 ore al giorno in cambio di quattro miserabili franchi, dove il privilegio più indegno si formava e si consolidava, caddero in rovina, distrutti dal fuoco, sventrati dall'esplosivo. È in questo periodo che nasce nell'iconografia del regime, la figura dell'anarchico dinamitardo, tenebroso vendicatore dei torti proletari, incubo del borghese e del benestante. Duval, ormai, era uno di questi. La notte del 5 ottobre 1886 accadde l'episodio che doveva determinare la sua rovina. Duval si introdusse nell'appartamento di Madame Lemaire, una ricca signora che abitava al n. 31 di Rue de Monceau. Gli inquilini erano in villeggiatura ed egli potè agire indisturbato: razziò accuratamente tutti gli oggetti preziosi che riuscì a trovare e devastò quanto fu costretto, per il peso o l'ingombro, a lasciare sul luogo. Andandosene, senza volerlo (ché non aveva interesse alcuno ad attirare l'attenzione mentre era all'opera), appiccò il fuoco alla casa. Il danno, tra furto e incendio, fu di oltre diecimila franchi, una bella somma che contribuì a dare una certa risonanza all'avvenimento. La polizia non tardò a scoprire il responsabile. I gioielli espropriati, messi in vendita troppo presto, lasciavano dietro di sé una traccia evidente, che in qualche giorno permise di risalire ai ricettatori e quindi a Duval. Sorpreso davanti all'abitazione di un compagno, questi venne arrestato, e non senza fatica, come abbiamo già raccontato.

Il processo
Anche il processo, che si tenne l'11 e il 12 febbraio 1887 dinnanzi alla Corte d'Assise della Senna, fu ben lontano da svolgersi in modo tranquillo. L'imputato rimbeccò i giudici con fermezza rifiutando il ruolo di delinquente comune in cui lo si voleva costringere, reclamando a gran voce la natura politica del suo movente, contestando la pretesa degli uomini di toga in "fare giustizia". Da accusato si fece accusatore, delle malversazioni, dell'ingiustizia dello sfruttamento, delle mistificazioni, dei torti subiti, da lui e da quelli come lui. Il pubblico, che stipava fitto il tribunale, fu trascinato da quella veemenza e fece eco. L'ultima udienza terminò in una baraonda gigantesca. Duval espulso dall'aula, la gente che gridava "Viva l'anarchia!", la polizia quasi sopraffatta dalla folla, i giudici in fuga verso la Camera di Consiglio, e poi insulti e zuffe, botte e arresti. Un'ora dopo, sedato il tumulto, la Corte comunicò il verdetto: la morte. Una pena dettata dalla paura, certo sproporzionata alla gravità dei reati in discussione. Il 29 febbraio, forse rendendosi conto di questa sproporzione, il Presidente della Repubblica commutò la sentenza in quella, solo apparentemente più mite, della deportazione a vita. Il consesso civile chiudeva i battenti alle sue spalle e gli spalancava quelli dell'inferno. Per sempre. Il 25 marzo, alle quattro del pomeriggio, Duval partiva con la nave "Orne" dalla fortezza militare Lamalgue, di Tolone, alla volta della Guyana. Di quale vita l'attendesse aveva avuto una raccapricciante anticipazione fin dal primo giorno che era giunto al forte. Le sue stesse parole (1), pur nella loro ridondanza fin de siecle, sono di una eloquenza cui non servono commenti: "(...) non oserò mai ridire la corruzione putrida di quella borgia in cui ogni affetto e sentimento umano fermentava all'ultimo stadio purulento della decomposizione. Lungo i muri, sdraiati sul tritume miasmatico dei sacconi, erano gli esausti, la povera gente che a tutte le speranze aveva dato l'addio (...). Negli angoli discreti a cui non giungevano né il guizzo scialbo dei lumi ad olio, né lo sguardo dei curiosi, erano fremiti e singulti, la foia, il delirio bestiale della fornicazione. Un trivio di Sodoma eretto all'ombra della terza repubblica della borghesia benpensante, ad onore e gloria della morale vereconda e della scienza penale positiva".
(continua)

lunedì 17 novembre 2014

Un anarchico nell'inferno della Caienna (Pt 1)

Parigi, ottobre 1886. Celato nell'ombra di un portone, il brigadiere Rossignol si tirava nervosamente i mustacchi. Se tutto fosse andato per il verso giusto, stava per portare a termine un'altra brillante operazione di polizia, un ennesimo successo da aggiungere al suo già fornito curriculum. Non aveva motivo di dubitare del buon esito della cosa. Era un uomo sicuro del fatto suo, il brigadiere, una specie di Calabresi dell'epoca, famoso per il coraggio e la efficienza con cui sapeva perseguitare la malavita cittadina. Quella volta si trattava di arrestare un pericoloso sovversivo, accusato di furto con scasso e incendio doloso, e l'agguato era stato predisposto con tutta la cura necessaria, tale da non destare preoccupazioni. Si era portato appresso una ventina di agenti, li aveva dislocati strategicamente, lui stesso era lì, pronto a dare il via alla manovra. Se era nervoso, era soltanto a causa dell'attesa. Fu forse per quest'eccesso di fiducia, o per la smania di fare bella figura, o per entrambi i motivi, che, appena il personaggio in questione si decise a comparire, il brigadiere Rossignol balzò senza esitare dal suo nascondiglio, precedendo i colleghi. In un lampo fu addosso al ricercato, urlando come un pazzo la frase di rito, quella certamente che preferiva fra i tanti stereotipi del linguaggio poliziesco: "In nome della legge, ti dichiaro in arresto!". Era la tecnica che usava in quei casi, per spaventare il delinquente colto sul fatto e togliergli subito ogni velleità di reazione. Ma non funzionò. Invece che con tremebonda rassegnazione il suo exploit venne accolto da un ringhio minaccioso: "E io ti ammazzo, in nome della libertà!". A conferma delle sue intenzioni, l'uomo aveva estratto un coltello lungo un palmo. La zuffa che seguì fu violentissima. Mentre gli altri sbirri cercavano vanamente di bloccarlo, l'irriducibile individuo inferse una mezza dozzina di coltellate al Rossignol e, nel disperato tentativo di divincolarsi, gli schizzò addirittura un occhio dall'orbita. Alla fine, il numero ebbe ragione della sua resistenza. Venne ammanettato e portato in galera. Il brigadiere andò all'ospedale, con un successo in più al suo attivo e un occhio di meno. L'antagonista dell'incauto poliziotto era Clement Duval, anarchico espropriatore, che quel giorno suggellava sanguinosamente la propria esistenza di militante rivoluzionario per iniziarne, di lì a poco, un'altra, quella di galeotto deportato alla Guyana. Una conseguenza fatale, tutto sommato, così come la ribellione violenta era la conseguenza fatale di una esistenza senza gioia, sofferta, come vedremo, sotto il giogo dello sfruttamento e della sopraffazione. Da questo punto di vista, la vicenda di Duval ha un significato che trascende il caso umano, perché è lo specchio di un'epoca, in cui si riflette il volto reazionario della Francia neo-industriale imperialista, sfruttatrice, repressiva. A quel tempo, poteva essere la storia di tutti, e in effetti lo fu di molti. Proprio in questa mancanza di eccezionalità risiede, oggi, il suo valore esemplare.

Proletario
Duval era di famiglia proletaria, e imparò ben presto cosa questo significasse. Ebbe il primo, brusco, contatto con la realtà in occasione del conflitto franco-prussiano, nel 1870 quand'era appena ventenne. Arruolato nel 5° battaglione Cacciatori a piedi, fu spedito al fronte, a sperimentare di persona quanto costava la gloria della nazione e chi doveva pagarne il prezzo. Grazie alle perfette condizioni igieniche in cui l'esercito francese veniva tenuto, si prese il vaiolo, scampando per miracolo. A Villorau fu ferito dallo scoppio di un obice, tanto gravemente da restare inchiodato per sei mesi in un miserabile ospedale di guerra. Tornò a Parigi nel 1873, in quanto, dopo la morte del padre, era l'unico sostegno della famiglia: tutto intero ma rovinato per sempre dall'artrite e dai reumatismi, postumi delle lesioni e della lunga degenza. Ironia della sorte, a casa trovò che la famiglia di cui doveva essere il sostegno non esisteva più. La giovane moglie (che aveva sposato poco prima di partire per il fronte) incapace a reggere da sola sia le sorti del menage che il peso della solitudine, si era messa con un altro, e il povero Duval, dopo le gioie della vita militare, ebbe modo di conoscere la condizione di reduce cornuto. La mentalità dell'epoca non era delle più aperte, in fatto di costumi sessuali e rapporti extramatrimoniali, e Duval, benché progressista, non era nelle condizioni di spirito migliori per guardare alle cose con quella serenità che le sue idee avrebbero richiesto. Ci vollero così ben 14 mesi di rancore e gelosia retrospettiva perché i due coniugi riuscissero a dimenticare l'incidente e tornassero a vivere insieme. Fu l'inizio di un periodo di relativa tranquillità. Lui lavorava come meccanico in un'officina di Parigi, la moglie badava alle faccende domestiche, e la vita benché dura, poteva sembrare quasi felice, a paragone di quella del fronte. Non che fossero rose e fiori, intendiamoci. In fabbrica, 14 ore di lavoro al giorno, disciplina ferrea, lo spettro del licenziamento ad ogni minima mancanza. A casa, vitto povero, sporcizia, squallore, i lunghi silenzi della fatica e della miseria. Era la vita che conducevano allora i proletari dei paesi neo-industriali. In quest'epoca, Duval maturò le sue convinzioni libertarie, le affinò con letture e con l'esperienza diretta, rendendosi conto della natura dello sfruttamento e convincendosi che l'unica prospettiva di emancipazione per le classi inferiori stava nella rivoluzione. Ma, più che per le idee e le intenzioni sovversive, si faceva allora conoscere per la fermezza orgogliosa del carattere, per l'onestà, per la passione che nonostante tutto, metteva nel suo mestiere. Ma era segnato. Non da un soprannaturale destino avverso e nemmeno tanto dalle idee che professava, piuttosto dalla sua condizione di sfruttato, di reietto cui la società chiedeva tutto, dolore, sacrificio, rassegnazione, e non dava nulla in cambio. Dopo appena tre anni di vita normale, un terribile attacco di reumatismi venne a ricordargli di aver combattuto per la patria, inchiodandolo in letto, quasi senza interruzione, fino al 1878. Perse il lavoro, e se prima era stata la povertà, ora fu la miseria. E, con la miseria, le liti in famiglia, le recriminazioni, il disprezzo degli altri, l'angoscia di un'esistenza senza prospettive senza pietà. La disperazione. L'odio.
 (continua)

giovedì 13 novembre 2014

Io porto ciò che amo: Youssou N’Dour

Sono Youssou N’Dour e chiamo a raccolta tutti gli africani per condividere le nostre idee e metterci a confronto.
Senza frontiere mettiamo insieme le nostre risorse e lavoriamo. Riuniamoci e non permettiamo a nulla di dividerci.
Voi, capi di Stato, conducete una Nazione ma non la possedete. I veri leader amano il loro Paese.
Possiamo chiedere aiuto, ma dobbiamo soprattutto dipendere da noi stessi.
Noi siamo l’Africa.
Quando sorge il sole fatti trovare in piedi, pronto con gli attrezzi del tuo mestiere. Il giorno passa in fretta, risolviamo un problema alla volta, uniti siamo più forti. La strada è lunga e c’è tanto da fare, perciò facciamoci trovare pronti.
Io piango se penso a quanto hanno sofferto i nostri antenati, ma il nostro passato non può impedirci di andare avanti.
Sogno un’Africa unita dalla stessa visione. Schieriamo le nostre idee, le nostre energie, apriamo le frontiere e riuniamoci. Cambiamo il modo di pensare. Lavoriamo insieme. Continuiamo a lavorare. Cheikh Anta Diop, Kwame Nkrumah, Stephen Biko, tutti voi, gente. Africa!. 
Youssoun N’Dour


lunedì 10 novembre 2014

14 novembre 2014 Sciopero generale

Lo Sciopero Generale evoca momenti storici importanti in cui i lavoratori e le lavoratrici hanno fatto valere la propria forza nei confronti dei padroni e dei governi.
Oggi il sindacalismo di base, alternativo, conflittuale e l’opposizione sociale l’hanno proclamato il 14 novembre per tutte le categorie e per l’intera giornata.
PERCHE’?
Soprattutto per porre un argine al massacro (non c’è parola più appropriata) dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori che hanno conquistato con dure lotte nell’arco del secolo scorso.
In questa deriva ultraliberista e conservatrice non possiamo tacere le responsabilità e le complicità da parte delle Confederazioni sindacali (Cgil, Cisl, Uil) anche se, oggi, dal governo in carica ricevono come ricompensa calci in faccia.
Tutti i miglioramenti economici e sociali ottenuti fin’ora sono il frutto dei sacrifici e delle lotte per l’emancipazione da parte della classe lavoratrice.
La crisi feroce che stiamo subendo è causata soprattutto dall’ingordigia della classe finanziaria/padronale affamata di profitti illimitati a scapito dell’intera società e sostenuta da politicanti accecati dal potere che – nell’affannosa ricerca di privilegi da perpetuare all’infinito – emanano leggi che impongono sempre nuovi e inderogabili sacrifici.
Occorre porre un argine invalicabile a questa marcia devastante del governo e dei suoi “sponsor” internazionali (Commissione Europea, BCE, FMI): di fronte al dilagare della crisi con il suo corollario di disoccupazione, precarietà, blocco dei salari e delle pensioni, aumento del costo della vita, delle tasse, delle spese militari (Muos ed F35); di fronte al taglio dei servizi pubblici (sanità, scuola, trasporti) degli sprechi e della devastazione ambientale come la TAV, della negazione al diritto alla casa, fino al punto di offrire su un piatto d’argento la più completa libertà di licenziamento con l’azzeramento dell’art.18 è quanto mai necessario reagire con forza e determinazione. Tenendo ben presente un dato storico che si è già, puntualmente verificato: quando i lavoratori e le lavoratrici si battono con accanimento in difesa del proprio posto di lavoro e dei diritti acquisiti si fa ricorso alla violenza dello Stato a suon di manganelli, denunce e cariche poliziesche.

Basta licenziamenti!
Organizziamoci affinché ogni azienda che chiude o delocalizza sia requisita dalle lavoratrici e dai lavoratori.
Licenziamo i padroni!
Senza lavoratori e lavoratrici non si produce niente. Senza padroni si può produrre tutto ciò che è utile e necessario per l’intera società.


venerdì 7 novembre 2014

Verso lo Sciopero Generale del 14 novembre

Il 14 novembre 2014 IL NOSTRO SCIOPERO.
UN SOLO BLOCCO!
LA CLASSE!
I SALARIATI!

Sappiamo quanto è difficile oggi scioperare.
Lo è per chi ha un lavoro fisso, per chi il diritto di sciopero ce l’ha, ma lo vede sottoposto a troppe limitazioni. Lo è perché è faticoso rinunciare a una parte del proprio stipendio quando la crisi si approfondisce e soldi non ce ne sono. Lo è ancora di più per chi è precario, per chi scioperare significa rischiare di perdere il posto di lavoro. Lo è per chi è un lavoratore autonomo, perché poi deve motivare il proprio ritardo nella consegna al committente. Lo è per un disoccupato o per un intermittente.
Sappiamo tutto questo e lo sappiamo sulla nostra pelle. Ma sappiamo anche che stare fermi ora vuol dire perdere (o quasi) la possibilità di lottare domani. La riforma del mercato del lavoro del governo Renzi – ddl Poletti e Jobs Act – renderà il lavoro sempre più ricattabile, servile, povero. Contro tutto questo dobbiamo alzare la testa, prendere parola, resistere.
Il 14 novembre sciopereremo e invitiamo a farlo in tante forme per 24 ore. Sarà uno sciopero del lavoro dipendente e del lavoro precario, di quello autonomo e della formazione, sarà uno sciopero metropolitano, meticcio, digitale e dei/dai generi. Il 14 novembre sciopereremo e invitiamo a scioperare:
1.   Per fermare il Jobs Act, per estendere (e non eliminare) i diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori a partire dall’art.18. Per abolire la Legge Poletti, i suoi contratti a tempo determinato «acausali» e la liberalizzazione dell’apprendistato.
2.   Per l’abolizione delle 46 forme contrattuali della legge 30. Contro la truffa e le discriminazioni del “Contratto a tutele crescenti”. Per un contratto unico a tutele immediate.
3.   Per un salario minimo europeo. Non siamo disposti a lavorare al di sotto di 10 euro l’ora.

4.   Per un reddito di base universale, non condizionato all’accettazione di qualsiasi lavoro e finanziato dalla fiscalità generale. Servono subito 15-20 miliardi contro la truffa del Naspi, per il quale sono previsti 1,6 miliardi di euro, sufficienti per non più di 180.000 persone a fronte del 44% di disoccupazione giovanile.
5.   Per la redistribuizione ai reali beneficiari (disoccupati, neet ed inoccupati)  dei 1.5 miliardi di cofinanziamento europeo del programma Youth Gurantee.
6.   Per la retribuzione di tutti i lavori, che siano sotto forma di stage, tirocini, prove, volontariato o freejobs. No all’accordo sul lavoro per Expo 2015.
7.   Per l’estensione del diritto alla malattia e alla maternità ai lavoratori autonomi e contro l’aumento dell’aliquota della gestione separata INPS per i professionisti atipici.
8.   Per la stabilizzazione delle e dei precari nella scuola, nell’università, negli enti di ricerca, negli enti e nelle istituzione pubbliche.
9.   Per la gratuità dell’istruzione, contro la ‘Buona Scuola’ di Renzi e l’entrata dei privati nei luoghi della formazione. Per la reale tutela del diritto allo studio, contro gli ulteriori 150 milioni di tagli previsti nel decreto Sblocca Italia.
10.   Per un rilancio massiccio degli investimenti pubblici in formazione e ricerca, contro la privatizzazione del welfare, delle public utilities e dei beni comuni. Sono solo i primi punti, molti altri li scriveremo collettivamente in queste settimane che ci separano dallo sciopero sociale generale del 14 Novembre 2014.
La lotta sarà lunga e non basterà uno sciopero, ma non siamo più disposti a vivere e lavorare senza diritti, non ci stancheremo di lottare.
SCIOPEROSOCIALE

(Nota aggiuntiva, lo sciopero per i posti di lavoro è stato "coperto sindacalmente" da CONFEDERAZIONE COBAS, ADL COBAS, USI UNIONE SINDACALE ITALIANA, CONFEDERAZIONE UNITARIA DI BASE CUB, ADESIONE DEL SISA - Sindacato Italiano Scuola e Ambiente) che chiamano alla mobilitazione anche per PIENA ED EFFICACE TUTELA DELLA SALUTE E DELLA SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO E SUI TERRITORI INQUINATI, CONTRO GLI EFFETTI DELL'ACCORDO DEL 10 GENNAIO 2014 SULLA RAPPRESENTANZA (solo a beneficio dei sindacati concertativi o ... collaborazionisti), PER LA RI-PUBBLICIZZAZIONE DEI SERVIZI PUBBLICI E DI RILEVANZA PUBBLICA...

L'EMANCIPAZIONE DEI LAVORATORI SARÁ OPERA DEI LAVORATORI STESSI



giovedì 6 novembre 2014

La crisi nelle Rojave



Possiamo fingere che non stia succedendo niente, eppure succede. Una delle uniche esperienze della storia delle donne è sotto minaccia di essere spazzata via. Non è una questione importante solo per il popolo curdo, ma lo è per tutti noi.
Le donne della Rojava e le donne curde combattenti hanno realizzato una rivoluzione per una possibile vita alternativa mettendoci tutte se stesse. E’ una vita alternativa non solo per le donne ma per tutte le minoranze, per tutte le etnie che possono vivere insieme in modo pacifico. Ed è un’alternativa al capitalismo ed al patriarcato.
L’ISIS sta massacrando tutte le minoranze come gli Yazidi, i Turcomanni, i Cristiani e molte altre ancora nel Medio Oriente. Solo un mese fa sono stati gli Yazidi di Sinjar ad essere massacrati. Insieme agli USA, alla Turchia e ad altre potenze, l’ISIS vuole soprattutto mettere fine a questa vita alternativa che queste donne hanno reso possibile.
Come tutti sappiamo, quando i nazisti portarono avanti il genocidio contro il popolo ebraico nei campi di concentramento, sebbene non tutto il mondo sapesse quello che stava accadendo nella Germania nazista, c’erano alcuni paesi che erano al corrente di tutto e che rimasero silenti per sanguinarie ragioni tattiche. Israele ha ucciso a migliaia i Palestinesi e l’ultima volta è stato il massacro di Gaza. Le potenze internazionali hanno condonato i crimini di guerra commessi da Israele in ragione di sanguinari calcoli tattici.
Negli anni ‘90 le potenze internazionali non fecero  nulla tranne fingere di fare qualcosa, quando l’esercito serbo violentava, uccideva e torturava le donne. Ed ora in Medio Oriente, l’ISIS sta portando avanti una macabra guerra di incommensurabile atrocità verso le donne. Le potenze internazionali fingono di fare qualcosa ma in realtà stanno solo aspettando che l’ISIS metta fine a questa vita alternativa nella Rojava voluta dalle donne curde. Queste potenze internazionali insieme alla Turchia stanno cercando di sacrificare Kobane per qualche ragione tattica, mentre la Turchia prosegue nel fornire sostegno diretto ai miliziani dell’ISIS.
La Turchia vuole fare della Rojava una regione cuscinetto evacuandola proprio come ha fatto Israele con la Palestina. Ironicamente, questi sono giorni di festa nel mondo musulmano, ma in realtà non c’è nulla da celebrare in queste dolorose circostanze.
In tutte le guerre sono sempre state le vite e le conquiste delle donne ad essere sacrificate per qualche regione tattica. Non possiamo permettere che la storia si ripeta ancora una volta. Dobbiamo  tutti difendere le donne curde della Rojava altrimenti la storia delle lotte delle donne non ce lo perdonerà mai. Le vite di queste donne hanno creato una vita alternativa nella Rojava senza curarsi degli Stati e dei potenti, queste vite devono essere anche la nostra vita, per noi che lottiamo per una vita migliore per uomini e donne.

lunedì 3 novembre 2014

Ai disertori di tutte le guerre

L’Italia è in guerra da molti anni. Ne parlano solo quando un ben pagato professionista ci lascia la pelle: un po’ di retorica su interventi umanitari e democrazia, Napolitano che saluta la salma, una bella pensione a coniugi e figli.
È una guerra su più fronti, che si coniuga nella neolingua del peacekeeping, dell’intervento umanitario, ma parla il lessico feroce dell’emergenza, dell’ordine pubblico, della repressione.
Gli stessi militari delle guerre in Bosnia, Iraq, Afganistan, gli stessi delle torture e degli stupri in Somalia, sono nei CIE, nelle strade delle nostre città, sono in Val Susa.
Guerra esterna e guerra interna sono due facce delle stessa medaglia. L’armamentario propagandistico è lo stesso. Le questioni sociali vengono narrate nel lessico dell’ordine pubblico.
Hanno applicato nel nostro paese teorie e tattiche sperimentate dalla Somalia all’Afganistan.
La separazione tra guerra e ordine pubblico, tra esercito e polizia è sempre più impalpabile. L’alibi della difesa dei civili è una menzogna mal mascherata di fronte all’evidenza che le principali vittime ed obiettivi delle guerre moderne sono proprio i civili. Civili bombardati, affamati, controllati, inquisiti, stuprati, derubati. Poi arriva la “ricostruzione”, la creazione di uno stato democratico fantoccio delle truppe occupanti, l’organizzazione di esercito, polizia, magistratura leali ai nuovi padroni. È la prosecuzione con altri mezzi della guerra. Se non funziona, come in Afganistan, in Libia, Somalia, Iraq e in Siria, gli Stati Uniti e i loro alleati si ritrovano recalcitranti e far guerra al mostro che hanno partorito, nutrito, fatto crescere.
La guerra diventa filantropia planetaria, le bombe, l’occupazione militare, i rastrellamenti ne sono lo strumento. Il militare diventa poliziotto ed entrambi sono anche operatori umanitari.
Nel centesimo anniversario della prima guerra mondiale, un massacro da 16 milioni di morti, si spreca la retorica. Garrire di tricolori e militari nelle scuole al posto degli insegnanti di storia per reclutare nuovi mercenari per le guerre dell’Italia.
Non una parola sulle esecuzioni sommarie, le decimazioni dei soldati, gli stupri di massa, le migliaia di disertori.
Oggi, chi mette in discussione la sacralità di confini che segnano il limite degli stati, chi irride il militarismo, chi brucia il tricolore, finisce in tribunale. Si concluderà il 19 dicembre il processo a 17 antimilitaristi accusati di vilipendio alle forze armate e al tricolore.
Chi uccide in divisa, chi massacra è considerato un eroe, chi diserta le guerre, chi si fa beffe dei militari, delle frontiere e delle bandiere è, a ragione, trattato da sovversivo.
La testimonianza, la rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.
Negli ultimi anni l’opposizione alla guerra qualche volta è riuscita a saldarsi con l’opposizione al militarismo: il movimento No F35 a Novara, i No Tav che contrastano l’occupazione militare in Val Susa, i no Muos che si battono contro le antenne assassine a Niscemi. Anche nelle strade delle città, dove controllo militare e repressione delle insorgenze sociali sono la ricetta universale, c’é chi non accetta di vivere da schiavo.
Le radici di tutte le guerre sono nelle industrie che sorgono a pochi passi dalle nostre case. Chi si oppone alla guerra senza opporsi alle produzioni di morte, fa testimonianza ma non impedisce i massacri.
Nella nostra regione ci sono tante fabbriche di morte. La più importante è l’Alenia, uno dei gioielli di Finmeccanica. Alenia costruisce gli Eurofighter Thypoon, i cacciabombardieri made in Europe, e gli AMX. Le ali degli F35, della statunitense Loockeed Martin, sono costruite ed assemblate dall’Alenia. Un business milionario. Un business di morte.
Per fermare la guerra non basta un no. Occorre incepparne i meccanismi, partendo dalle nostre città, dal territorio in cui viviamo, dove ci sono caserme, basi militari, aeroporti, fabbriche d’armi, uomini armati che pattugliano le strade.
Mettiamo sabbia nel motore del militarismo!
Spezziamo la retorica di guerra! Nelle nostre piazze ci sono statue di bronzo e pietra che celebrano assassini in divisa, uomini la cui virtù era ammazzare.

Costruiamo insieme un monumento ai disertori di tutte le guerre!
Boicottiamo il 4 novembre

Disertori tra il Balon e Porta Palazzo

Primo Novembre. Tra il Balon e Porta Palazzo. Il Balon, l’antico mercato delle pulci, è stato normalizzato a forza negli ultimi dieci anni, ma non domato del tutto. Ogni sabato qualche abusivo stende il suo pezzo di stoffa e prova a sbarcare il lunario. I vigili urbani vanno a caccia di poveracci da multare e cacciare, le ronde di poliziotti e alpini, sono la minaccia dello Stato ai senzatetto che dormono sotto il porticato di corso Emilia, ai senza documenti che chiudono i loro fagotti al passaggio del truppone.
Sono il segno concreto di una guerra ai poveri sempre più feroce. Non per caso i militari sono gli stessi che si danno il cambio tra l’Afganistan, il CIE, il cantiere di Chiomonte e la Barriera a Torino. Abbiamo attraversato il Balon, incrociato gli alpini che si sono allontanati in fretta, senza fermarsi. Non li abbiamo più visti.
Poi siamo saliti a Porta Palazzo, il più grande mercato all’aperto d’Europa, dove ogni giorno pullman e tram sputano fuori tanta gente, che cerca la frutta e verdura a prezzi più bassi. Porta Palazzo è lo specchio di Torino. Qui è il cuore di quel ceto di piccoli ambulanti massacrati dalla crisi, privati dei propri privilegi fiscali, che lo scorso 9 dicembre bloccarono pezzi di città, animati dal progetto sovversivo di mandare tutti a casa, per dare il potere ai militari. In bilico tra Grillo e la Lega covano sotto la cenere del fallimento di allora, il fuoco di un rancore pericoloso. Silenti ma ben visibili sono invece le decine di lavoratori dipendenti del mercato, quelli che alle tre di notte montano i banchi e a metà pomeriggio li smontano, caricano le cassette, correndo senza fermarsi mai.
Nella giornata dedicata ai disertori, ne abbiamo incrociati tanti che correvano in mezzo al mercato, dove la gente si fermava numerosa al passaggio degli antimilitaristi, che raccontavano della Grande Guerra, dei suoi 16 milioni di morti, delle stragi, decimazioni, fucilazioni di massa del 1917. Storia di ieri, che torna, diversa ma uguale nelle guerre moderne, dove a morire, spezzarsi le ossa, venire torturati e stuprati sono quasi sempre i civili.
L’Italia spende ogni giorno 53 milioni per le proprie avventure di guerra.
In Piemonte ci sono tante industrie eccellenti specializzate nella produzione di ordigni di guerra, cacciabombardieri e sistemi di puntamento, AMX, Eurofighter, F35.
Per il mercato le sagome di caduti di guerra sono state riempite con i nomi delle tante fabbriche di morte. Alenia, Selex, Iveco, Avio, Microtecnica, Galileo, Macaer…
Se le basi di guerra sono a due passi dalle nostre case, l’opposizione ai massacri non può essere mera testimonianza, deve farsi azione diretta.

La giornata si è conclusa con la costruzione collettiva di un monumento ai disertori di tutte le guerre. Un monumento fatto di cose recuperate, ben diverso dai bronzi a cavallo che campeggiano nelle piazze di Torino, pornografia bellica per esaltare qualche assassino in divisa.

domenica 2 novembre 2014

Boicottiamo il 4 novembre! ... per ricordare una strage e agire per la pace!

Contro la "festa della vittoria" che ricorda la guerra di aggressione dell'Italia contro l'Austria.
Contro un massacro che costò 260.000 morti italiani durante la guerra e più di 4.000 soldati italiani fucilati dai tribunali militari italiani o da precessi sommari.
Contro una cultura distruttiva che diede vita non solo agli orrori della Prima guerra mondiale ma anche a quelli dell'espansione coloniale in Libia e nel Corno d'Africa, che spianò la strada al Fascismo e ci gettò nella Seconda guerra mondiale.
Contra la cultura della guerra, che la nostra Costituzione rifiuta come "strumento di offesa alla libertà degli altri popoli e come mezzo di risoluzione delle controversie internazionali" (art.11).
Per liberarci dalle scorie nazionaliste e identitarie che dividono i popoli e le persone e li fanno concorrenti e avversari.

Per far crescere una cultura di pace che scelga la convivenza e il dialogo e non debba più "commemorare" l'aggressività e la violenza.