..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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sabato 27 dicembre 2014

Giovanni Pascoli, poeta anarchico

La scossa vitale e culturale dell'anarchia che vibrò sull'intero corpo violato dell'Europa tra Ottocento e Novecento, non lasciò gli intellettuali alieni dall'impegno politico. L'anarchia è stata la corrente culturale che massimamente ha spinto poeti, scrittori, artisti, filosofi, verso la maturazione di forme espressive inneggianti alla libertà dei popoli costretti nel giogo autoritario del potere borghese, dello Stato e della Chiesa. Anche oggi -e non lo direste mai- dall'anarchia si attinge a piene mani per cercare di spingere in avanti il pensiero sul progresso umano.
Anche Giovanni Pascoli (1855-1912) è stato un anarchico. E benché i pochi testi che ne danno notizia si affrettino a dire che lo fu solo per il breve periodo giovanile, la realtà è ben diversa. Pascoli fu anarchico durante tutta la sua vita, solo in modalità espressive diverse, ora più accese ora più sobrie, ma tutte strettamente collegate all'unico ideale di libertà e di giustizia. Ne sono testimoni le sue scelte di vita, la sua filosofia, la sua poetica.
Non è certamente un caso che i testi liceali censurino l'anarchismo del Pascoli, così come quello di numerosissimi altri scrittori e artisti. Lo Stato non ammette pensieri di vera libertà e di emancipazione del popolo. E là dove quei testi non possono fare a meno di indicare l'appartenenza ideologica anarchica degli autori trattati, gli storici prezzolati si concedono la variante più rassicurante dell'anarchia, cioè “il socialismo”, senza neppure specificarne il tipo, consapevoli del fatto che quel che si conosce oggi del socialismo è la sua forma parlamentare, statalizzata, autoritaria, mentre invece l'anarchia è sostanzialmente un socialismo popolare, libertario, rivoluzionario, eminentemente antistatale. L'intellettuale anarchico inglese John Ruskin (1819-1900) viene definito dallo storico dell'arte Giulio Carlo Argan “socialista, il maggior critico europeo del secolo”, Argan non si pone il problema di specificare, probabilmente perché non gli è stato permesso, nonostante la sua autorevolezza in campo artistico, letterario e storico.
Giovanni Pascoli, nella sua giovinezza, fu un anarchico fisicamente attivo, partecipò in prima persona ad azioni di solidarietà per il popolo e contro l'autorità, prese parte alle proteste contro la condanna a morte di Giovanni Passannante (commutata in ergastolo), e a causa di ciò venne imprigionato, aveva 24 anni. Per la sua scarcerazione Giosuè Carducci si impegnò con una testimonianza, e le porte del carcere si aprirono dopo tre mesi di detenzione.
Dopo l'esuberante periodo giovanile, in cui l'anarchismo venne vissuto in maniera diretta, Giovanni Pascoli si trasportò naturalmente verso una concezione più intima e sublimata dell'anarchia, più intellettuale, ma non meno efficace. E saranno due, d'ora in avanti, gli elementi che fungeranno da binario ideologico e culturale al Pascoli: la sua “poetica del fanciullo” e l'amore per la Natura. Ambedue gli elementi, per i valori che rappresentano, sono da sempre posti a fondamento dell'ideale anarchico.
La miservole condizione del popolo sfruttato era già da molti anni denunciata da quella schiera di intellettuali anarchici che additavano il positivismo e il falso mito di progresso (tecnologico, non umano) come due fattori alienanti per la società. Da ogni parte si levavano voci che inneggiavano a un ritorno alla Natura, alla purezza, a una condizione umana e libera ritrovata, quindi alla distruzione delle sovrastrutture e delle regole borghesi, di tutto un sistema volto soltanto a rendere il popolo un automa nelle mani dei governanti. Erano grida di liberazione, prima che di libertà. In arte si cercò di tornare al cosiddetto “grado zero”. Molti artisti guardarono al passato (Preraffaelliti, Primitivisti), Paul Gauguin partì verso terre ancora incontaminate ove trovare umanità, purezza, natura selvaggia e libertà (Tahiti), altri ancora sostennero l'arte naif di un semplice doganiere (Henri Rousseau), fino agli espressionisti che trassero ispirazione anche dal libero disegno dei bambini, svincolato da ogni regola accademica (regole che gli avanguardisti distruggeranno). Anche Pascoli aveva indicato nel fanciullo la via per la “salvazione“ umana, quella che conduceva alla libertà e alle uniche regole ammesse in anarchia, le proprie, che sono quelle dettate dalla Natura e che ogni bambino possiede incontaminate.
Il bambino ha la forza anarchica di una morale superiore, proprio perché non ancora contaminata da altre morali artificiali (Stato e Chiesa). Ogni cosa, nella Natura, vive secondo un'armonia, secondo equilibri che sono quell'unico ordine in cui ogni essere vivente è calato e grazie al quale può vivere in libertà.
Il fanciullino è anarchico come la natura dell'Uomo, il fanciullo ne è l'essenza, egli esplora il mondo con gioia vitale, e con la medesima gioia impara dal contesto, impara a relazionarsi con i suoi simili e con gli altri esseri viventi. In un contesto di uomini liberi, senza catene e padroni, non sottomessi alle gerarchie e alle leggi coercitive, gli individui che vi nasceranno saranno altrettanto liberi, pacifici e cooperativi, come sempre è stato prima che i popoli fossero rimasti sottomessi e confinati. Perciò Pascoli, come gli altri intellettuali, spronava in questa direzione, esortava a ripescare nel profondo di ognuno quel fanciullo. La poetica del fanciullo è un grido di liberazione, è un'indicazione, un'inclinazione, è un auspicio per un futuro migliore, anarchico, umano, naturale, puro, cooperativo, pacifico. Questo è l'ideale anarchico e non c'è propaganda denigratoria di Stato che tenga. Anche la decisione del Pascoli di lasciare la città per andare a vivere nella Natura segue il medesimo principio. La dimensione naturale, associata al pensiero primitivista, rappresenta il luogo fisico in cui gli uomini vivono in comunità e in cooperazione. Il rispetto della Natura, la tutela dell'ambiente e dell'ecosistema, sono temi massimamente anarchici. Un essere umano trova negli equilibri naturali incontaminati non soltanto le sue leggi e la sua libertà (e quella degli altri), ma anche la sua vera dimensione, il suo scopo, e la sua più alta dignità.

Inno all'anarchia di Giovanni Pascoli (1878)

Soffriamo! Nei giorni che il popolo langue
è insulto il sorriso, la gioia è viltà!
sol rida chi ha posto le mani nel sangue,
e il fato che accenna non teme o non sa:
Prometeo sull'alto del Caucaso aspetta,
aspetta un bel giorno che presto verrà
un giorno del quale sii l'alba, o vendetta!
Un giorno il cui sole sii tu, libertà!
Soffriam! Ché il delitto non regna in eterno!
Soffriam! Ché l'errore durare non può!
Già Satana giudica nel pallido inferno
il Dio dei tiranni che al buio il dannò!
Soffriam: le catene si spezzano alfine
allor che pugnali, né piaccia foggiar;
fra un mucchio fumante di sparse ruine
già Spartaco e' sorto tremendo a pugnar.
Soffriamo, o fratelli! La mano sul cuore
lo sguardo nuotante, nell'alba che appar!
Udite?! Le squille che suonano l'ore
a stormo tremendo desiano suonar!
Già mugghia il tremuoto laggiù nella reggia!
S'accampa nei templi superbo il pensier!
Un rosso vessillo nell'aria fiammeggia,
e in mezzo una scritta vi luccica in ner:
le dolci fanciulle che avete stuprato,
i bimbi che in darno vi chiesero il pan,
nel giorno dell'ira, nel giorno del fato,

i giudici vostri, borghesi, saran.

mercoledì 17 dicembre 2014

No Tav. Cade l’accusa di terrorismo, tre anni e mezzo per il sabotaggio

 Oggi nell’aula bunker del carcere delle Vallette è stata pronunciata la sentenza al processo ai quattro No Tav accusati di terrorismo, per un sabotaggio al cantiere di Chiomonte della notte del 14 maggio 2014.
L’accusa di terrorismo è caduta. I quattro, che in aula avevano rivendicato l’azione, sono stati assolti dall’accusa di attentato con finalità di terrorismo. Sono stati condannati a tre anni e mezzo di reclusione per detenzione di armi da guerra, danneggiamento e incendio, resistenza a pubblico ufficiale.
Sono state rigettate integralmente le richieste risarcitorie delle parti civili, il governo e il Sap, il sindacato di polizia di estrema destra, che lamentavano un danno all’immagine.
Il movimento No Tav nell’anno intercorso dall’arresto di Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò ha in varie occasioni ribadito che il processo ai quattro No Tav è un processo al movimento nel suo insieme, che ha fatto propria la pratica del sabotaggio non violento.
Centinaia sono state le iniziative di informazione e lotta attuate dai No tav in Val di Susa, a Torino e in tutta la penisola.
I due PM al processo Andrea Padalino e Antonio Rinaudo hanno continuato a sostenere l’accusa di terrorismo, nonostante un pronunciamento in senso inverso della Cassazione: oggi sono stati clamorosamente smentiti.
Il cardine dell’accusa era l’articolo 270 sexies, che definisce la “finalità di terroriamo” indicata negli articoli 280 e 280 bis che i due PM torinesi avrebbero voluto applicare ai quattro No Tav e ad altri tre arrestati a luglio per lo stesso episodio ma accusati di terrorismo solo lo scorso 9 dicembre. A gennaio il tribunale del riesame avrà sul tavolo della sentenza di oggi.
Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò sono in carcere da oltre un anno, rinchiusi in regime di alta sicurezza, spesso isolati, lontani dai propri compagni ed affetti, la corrispondenza sottoposta a censura.
In queste settimane numerose sono state le iniziative di solidarietà concreta con gli attivisti sotto accusa:dalle migliaia di No tav che hanno dato vita alla fiaccolata del 7 dicembre a Susa, sino ai blocchi stradali e ferroviari dell’8 dicembre, per giungere ai blocchi di treni a Roma, Vercelli, Trento. In tarda mattinata, dopo la sentenza, la A32 è stata brevemente bloccata da un gruppo di No Tav.
Il movimento No Tav si è dato appuntamento alle 17,30 nella piazza del mercato di Bussoleno, per una prima risposta alla sentenza.
La valle è blindata da questa mattina, numerosi sono i posti di blocco sulle statali e l’autostrada, il dispositivo di sicurezza intorno al cantiere è stato rafforzato. Al di là dell’umana soddisfazione per la caduta dell’accusa più grave, resta una condanna a tre anni e mezzo, per un gesto che, se la parola giustizia avesse un senso, dovrebbe essere elogiato.

martedì 16 dicembre 2014

17 dicembre. I No Tav con Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò

Mercoledì 17 dicembre sarà emessa la sentenza nel processo che lo Stato ha intentato contro Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò.
Sono in carcere da oltre un anno, rinchiusi in regime di alta sicurezza, spesso isolati, lontani dai propri compagni ed affetti, la corrispondenza sottoposta a censura.
Hanno provato a piegarli. Non ci sono riusciti, hanno provato a mettere in ginocchio un intero movimento. Hanno fallito ancora.
Facciamo un piccolo passo indietro.
Nella memoria della gente che si batte contro il Tav il dicembre del 2005 è una pietra miliare. Tra novembre e dicembre si consumò un’epopea di lotta entrata nei cuori di tanti. Un movimento popolare decise di resistere all’imposizione violenta di un’opera inutile e devastante e, nonostante avesse quasi tutti contro, riuscì ad assediare le truppe di occupazione, costruendo la Libera Repubblica di Venaus. Dopo lo sgombero violento il movimento per qualche giorno assunse un chiaro carattere insurrezionale: l’intera Val Susa si fece barricata contro l’invasore. L’otto dicembre era festa. La manifestazione, dopo una breve scaramuccia al bivio dove la polizia attendeva i manifestanti, si trasformò in una marcia che dopo aver salito la montagna, scese verso la zona occupata mentre lieve cadeva la neve. I sentieri in discesa erano fradici di acqua e fango ma nessuno si fermò. Le reti caddero e le truppe vennero richiamate.
Nel 2011 – dopo la dura parentesi dell’inverno delle trivelle – sono tornati, molto più agguerriti che nel 2005.
Lo Stato non può permettersi di perdere due volte nello stesso posto.
L’apparato repressivo fatto di gas, recinzioni da lager, manganelli e torture si è dispiegato in tutta la sua forza. La magistratura è entrata in campo a gamba tesa. Non si contano i processi che coinvolgono migliaia di attivisti No Tav.
Governo e magistratura non hanno fatto i conti con la resistenza dei No Tav. Non hanno fatto i conti con un movimento che si è stretto nella solidarietà a tutti, primi tra tutti quelli che rischiano di più, i quattro attivisti accusati di attentato con finalità di terrorismo per un sabotaggio in Clarea.
Per loro i PM Padalino e Rinaudo hanno chiesto nove anni e mezzo di reclusione.
Mercoledì 26 novembre un’assemblea popolare ha deciso un nuovo dicembre di lotta. Dopo la buona riuscita della manifestazione del 22 novembre a Torino, il movimento ha dato vita a due giorni di lotta popolare.
Il 7 dicembre migliaia di No Tav hanno partecipato alla fiaccolata che si è dipanata per le vie di Susa, assediando a lungo l’hotel Napoleon, che da anni ospita le truppe di occupazione. La via dell’albergo è stata trasformata in “Via gli sbirri” con nuove targhe apposte dai manifestanti.
Il giorno successivo, dopo le celebrazioni del giuramento partigiano della Garda dell’8 dicembre 1943, l’appuntamento era a Giaglione e Chiomonte per una giornata alle reti del cantiere.
In Clarea il passaggio era bloccato al ponte, ma questo non ha impedito a circa un centinaio di No Tav di raggiungere, guadando alto il torrente, l’area di proprietà del movimento, dove altri erano arrivati sin dalla prima mattina.
La Questura, non paga delle recinzioni e dei cancelli che serrano via dell’Avanà a Chiomonte, ha deciso di chiudere anche il ponte con jersey e truppe con idrante. Dopo la costruzione di un albero di natale no tav fatto dai bambini, a centinaia i No Tav sono risaliti in paese, bloccando a più riprese la statale e interrompendo per una mezz’ora anche il traffico ferroviario. A fine giornata, sul ponte, la polizia ha azionato l’idrante e sparato lacrimogeni. Dai boschi petardi e fuochi d’artificio hanno illuminato la sera.
Per una sintesi dell’ultimo anno di lotta ascolta l’intervista di radio Onda D’urto a Maria Matteo
Il 9 dicembre la Procura ha consegnato in carcere una nuova ordinanza di custodia cautelare a Francesco, Graziano e Lucio, i tre No Tav in carcere da luglio il sabotaggio del 14 maggio 2013, lo stesso per il quale domani sarà emessa la sentenza per gli altri quattro No Tav.
Su questa nuova iniziativa della Procura Anarres ha intervistato, uno dei loro avvocati, Eugenio Losco, del foro di Milano. Con lui abbiamo parlato anche dell’attesa per la sentenza di domani
Domani, dopo il tribunale, che probabilmente si pronuncerà nel primo pomeriggio, l’appuntamento è alle 17,30 in piazza del mercato a Bussoleno.
Se le notizie dal tribunale saranno buone sarà un giorno di festa. In caso contrario la risposta del movimento No Tav sarà forte e chiara.
Forte è stata l’indignazione per la sentenza che ha cancellato la dignità di migliaia di lavoratori e cittadini di Casale Monferrato, torturati a morte e uccisi dai padroni della Eternit. La giustizia dei tribunali, ancora una volta ha mostrato il suo volto di classe, assolvendo chi si è fatto ricco sulla vita dei più.

Qui nessuno è disposto a morire senza resistere, nessuno spera nella giustizia dei tribunali. I No Tav lo hanno imparato negli anni: la libertà non si mendica, bisogna conquistarla.

giovedì 4 dicembre 2014

L’anarchia e il nero

È tipico delle persone senza originalità riciclare le subculture e le simbologie altrui; purtroppo le merdacce nazi-fasciste hanno sempre plagiato dai contesti più inverosimili per autopromuoversi…

E’ successo ai simboli runici, alla civiltà romana, ai canti degli arditi del popolo, al futurismo, alla subcultura skinhead, alla faccia di Che Guevara e di Rino Gaetano (vedasi i poster di Casapound), all’iconografia antifa (vedasi i patetici “autonomi nazionalisti”) e purtroppo anche alla simbologia anarchica, conosciuta assai bene dal piccolo Benito che disgraziatamente aveva per padre un fervente anarchico emiliano.

Per fare chiarezza e restituire il giusto valore storico a simbologie fin troppo abusate, proponiamo un bellissimo scritto di Emma Goldman (1869 – 1940 ) in cui viene illustrato il significato storico-politico del colore nero nella cultura anarchica, decantando il simbolo anarchico per eccellenza: la bandiera nera.

Comparsa nel 1871 sulle barricate della comune di Parigi, la bandiera nera venne scelta come principale simbolo del movimento anarchico attorno al 1880 dalla celebre eroina anarchica Louise Michel, per rimarcare la propria distanza dalle frange istituzionali ed autoritarie del socialismo che militavano sotto la bandiera rossa.

 

Perché la Bandiera nera anarchica

” La bandiera nera è il simbolo dell’Anarchia. Essa provoca reazioni che vanno dall’orrore alla delizia tra quelli che la riconoscono. Cercate di capire cosa significa e preparatevi a vederla sempre più spesso in pubblico… Gli Anarchici sono contro tutti i governi perchè credono che la libera ed informata volontà dell’individuo sia la vera forza dei gruppi e della stessa società.

Gli Anarchici credono nell’iniziativa e nella responsabilità individuali e nella completa cooperazione dei gruppi composti di liberi individui. I governi sono l’opposto di questi ideali, dato che si fondano sulla forza bruta e la frode deliberata per imporre il controllo dei pochi sui molti. Che questo processo crudele e fraudolento sia giustificato da concetti come il diritto divino, elezioni democratiche, o un governo rivoluzionario del popolo conta poco per gli Anarchici. Noi rigettiamo l’intero concetto stesso di governo e ci affidiamo in modo radicale alla capacità di risoluzione dei problemi propria di ogni uomo libero.

Perchè la bandiera nera? Il nero è il colore della negazione. La bandiera nera è la negazione di tutte le bandiere. È la negazione dell’idea di nazione che mette la razza umana contro se stessa e nega l’unità di tutta l’umanità. Il colore nero è il colore del sentimento di rabbia e indignazione nei confronti di tutti i crimini compiuti nel nome dell’appartenenza allo stato. È la rabbia e l’indignazione contro l’insulto all’intelligenza umana insito nelle pretese, ipocrisie e bassi sotterfugi dei governi.

Il nero è anche il colore del lutto; la bandiera nera che cancella le nazioni è anche simbolo di lutto per le loro vittime, i milioni assassinati nelle guerre, esterne ed interne, a maggior gloria e stabilità di qualche maledetto stato. È a lutto per quei milioni il cui lavoro è derubato (tassato) per pagare le stragi e l’oppressione di altri esseri umani. È a lutto non solo per la morte del corpo, ma anche per l’annullamento dello spirito sotto sistemi autoritari e gerarchici. È a lutto per i milioni di cellule grigie spente senza dar loro la possibilità di illuminare il mondo. È il colore di una tristezza inconsolabile… Ma il nero è anche meraviglioso. È il colore della determinazione, della risoluzione, della forza, un colore che definisce e chiarifica tutti gli altri. Il colore nero è il mistero che circonda la germinazione, la fertilità, il suolo fertile che nutre nuova vita che continuamente si evolve, rinnova, rinfresca, e si riproduce nel buio. Il seme nascosto nella terra, lo strano viaggio dello sperma, la crescita segreta dell’embrione nel grembo materno – il colore nero circonda e protegge tutte queste cose…

Così il colore nero è negazione, rabbia, indignazione, lutto, bellezza, speranza, è il nutrimento e il riparo per nuove forme di vita e di relazioni sulla e con la terra. La bandiera nera significa tutte queste cose. Noi siamo orgogliosi di portarla, addolorati di doverlo fare, e speriamo nel giorno nel quale questo simbolo non sarà più necessario.“




sabato 22 novembre 2014

Il corpo è il megafono della rivoluzione

La diffusione e l’estensione dei comportamenti illegali, negli ultimi mesi, ha trasformato la necessità della sopravvivenza, della soddisfazione dei bisogni materiali in una rete, parcellizzata ma più solida, di resistenza al Potere-Stato-lavoro.
La rivolta vive nella concretezza quotidiana degli individui.
La profondità dell’antagonismo di questi comportamenti sta nella loro praticabilità diffusa, nella dimensione individuale o di piccolo gruppo che esclude l’esemplarismo degli espropri, di mitologia-memoria M-L e spiazza ogni progetto di contenimento-repressione da parte del Potere. Comportamenti illegali: dal boicottaggio degli aumenti ATM (ma è quasi patrimonio storico, sapere come si fa a non pagare il biglietto), alle cene autoridotte con fuga digestiva finale fino ai furti generalizzati durante i giorni di vigilia di Natale.
Il Potere è costretto a barare con se stesso.
Dal 15 dicembre fino a Natale magazzini, negozi di lusso, ristoranti del centro presidiati da Polizia, Mondialpol, da guardiani con il “cannone” ben in vista. Far circolare-diffondere in ogni Organismo-Corpo-Soggetto, che è già predisposto a muovere e non a rimuovere il rifiuto del Potere e alle sue rappresentazioni. Andare oltre è rendersi antagonisti con lo Stato-Lavoro facendosi rincorrere smascherandolo e falsificandolo.
IL POTERE È UN TICKET sta a noi contraffarlo nelle sue innumerevoli espressioni: gettoni, cartoncini, biglietti, chiavi ecc. I bisogni materiali si concretizzano in comportamenti materiali, l’ARTE D’ARRANGIARSI si diffonde in gesti minoritari
Per creare una rete comunicativa cucita dai soggetti che non vogliono più farsi imprigionare in canali asfissianti e monolitici; proponiamo a: TUTTE LE BANDE, AI CIRCOLI, AI SINGOLI DELLA METROPOLI UN INCONTRO DA TENERSI ENTRO LA PRIMA META’ DI GENNAIO-

Volantino VIOLA, Milano 1977

giovedì 20 novembre 2014

Sabato 22 novembre. Corteo No Tav a Torino

Il movimento No Tav ha lanciato un appello per una settimana di lotta, nei vari territori, dal 14 - giorno della requisitoria per i quattro attivisti accusati di terrorismo - al 22 novembre. Altre iniziative si svolgeranno il 7 e 8 dicembre e il 17 dicembre, giorno in cui potrebbe essere emessa la sentenza.

A Torino il 22 novembre si terrà un corteo No Tav
Appuntamento in piazza Castello alle 14,30

di seguito il testo diffuso dal movimento No Tav quando Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò hanno rivendicato la partecipazione all'azione di sabotaggio di un compressore per cui sono in carcere da più di undici mesi.

14 maggio 2013.
Un gruppo di No Tav compie un’azione di sabotaggio al cantiere di Chiomonte.
Quella notte venne danneggiato un compressore. Un’azione di lotta non violenta che il movimento No Tav assunse come propria. Un’azione come tante in questi lunghi anni di lotta contro l’occupazione militare, contro l’imposizione violenta di un’opera inutile e dannosa.
Il cantiere/fortezza è ferita inferta alla montagna, un enorme cancro che ha inghiottito alberi e prati, che si mangia ogni giorno la nostra salute. In questo paesaggio di guerra ci sono gli stessi soldati che occupano l’Afganistan. Un compressore bruciato è poco più di un sogno, il sogno di Davide che abbatte Golia, il sogno che la nostra lotta vuole realizzare.
Il 9 dicembre del 2013 vengono arrestati Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò. Quattro di noi.
Nonostante non sia stato ferito nessuno, sono imputati di attentato con finalità di terrorismo sono accusati di aver tentato di colpire gli operai del cantiere e i militari di guardia.
Ai nostri quattro compagni di lotta viene applicato il carcere duro, in condizioni di isolamento totale o parziale, sono trasferiti in carceri lontane. Volevano rendere difficili le visite, volevano isolarli ma non ci sono riusciti. Noi andiamo e torniamo insieme: non lasciamo indietro nessuno.
Nonostante la Cassazione abbia smontato l’impianto accusatorio della Procura di Torino, negando che i fatti del 14 maggio possano giustificare l’utilizzo dell’articolo 270 sexies, che definisce la “finalità di terrorismo”, il processo va avanti. In novembre dovrebbe essere pronunciata la sentenza.
Decine di migliaia di No Tav, sin dai primi giorni dopo gli arresti, hanno detto: “quella notte in Clarea c’ero anch’io”. Il 22 febbraio e il 10 maggio si sono svolte le manifestazioni più importanti, ma non è mancato giorno in cui non vi sia stata un’iniziativa di solidarietà attiva.
Il 24 settembre in aula bunker Chiara, Claudio, Mattia e Nicolò, per la prima volta dall’inizio del processo, hanno preso la parola, dicendo che quella notte, la notte del 14 maggio 2013, c’erano anche loro.
Le loro parole, pronunciate con fierezza di fronte a chi li ha rinchiusi in una gabbia da quasi un anno, sono le nostre parole, i nostri sentimenti, la nostra stessa strada.


Movimento No Tav

mercoledì 19 novembre 2014

Un anarchico nell'inferno della Caienna (Pt 3)

L'inferno
Dopo questo, a togliere definitivamente ogni illusione, vennero i trenta giorni di mare, sulla nave-galera che lo portava al bagno della Guyana. Suoi compagni di sventura erano ladri, assassini, bruti senz'anima figli dell'abiezione, della miseria, dell'ignoranza: Lebou, condannato a vita per avere bruciato sua madre; Faure, che per questioni di interesse squartò il fratello e lo diede in pasto ai maiali; Menetier, che aveva ucciso due vecchie per violentarne i cadaveri; ed altri tutti degni prodotti della società che li aveva generati. Questa umanità spaventosa veniva schierata tutte le mattine sul ponte per l'ispezione, fra il ludibrio, le volgarità, i commenti idioti della ciurma, dei secondini, dei passeggeri civili. Duval non era uomo da sopportare tale trattamento. Alla prima occasione si ribellò, rispondendo per le rime alle provocazioni, ed ebbe così un altro assaggio della sorte che lo attendeva al penitenziario: nudo come un verme, fu sbattuto per due giorni, in una cella piena d'acqua, in cui non poteva star ritto perché troppo bassa, né si poteva allungare perché troppo stretta. La repressione nella repressione. La Guyana era veramente un inferno, un abisso immondo di violenza e depravazione, reso ancora più intollerabile dal clima tropicale umido e caldissimo. Laggiù, l'idea ipocrita che la galera possa servire all'espiazione e al ravvedimento, trovava a quei tempi la più tragica delle smentite. La Guyana era sinonimo di lavoro forzato, di ferri alle caviglie, di cibo putrescente, di celle di punizione, di insetti brulicanti, di scorbuto, amebiasi, dissenteria. Redenzione? Al bagno, gli uomini perdevano la salute, la dignità, morivano di stenti e di malattie, marci nel corpo e nel cuore, avviliti, spezzati, violentati, ridotti loro malgrado allo stato di animali. I delinquenti più feroci ottenevano qualche squallido privilegio con la prepotenza, a spese dei propri stessi compagni. I più cinici barattavano la simpatia dei guardiani con il servilismo, la delazione. I più deboli subivano. Il penitenziario era l'immagine, peggiorata e pervertita, di tutti i vizi, di tutte le miserie, di tutte le sopraffazioni proprie della società che l'aveva prodotto. Proprio per quello, quelli che non erano piegati prima, quand'erano in libertà, non accettarono di piegarsi adesso che si trovavano in una società più feroce, ma non dissimile dall'altra. Duval (e in genere tutti gli anarchici che finirono al bagno) non fece eccezione. La storia della sua permanenza nell'isola maledetta è la storia della sua fierezza, della sua irriducibile volontà di lotta, del tentativo costante di non perdere la sua misura d'uomo, di non precipitare anche lui nel baratro di turpitudine che aveva di fronte. E ci riuscì. Si opponeva ai taglieggiamenti dei guardiani, insorgeva contro le ingiustizie, aiutava i compagni più sfortunati, smascherava le spie e i provocatori. I secondi più crudeli, i direttori inebetiti dall'assenzio, le canaglie, gli assassini, i bruti senz'anima che popolavano il penitenziario, impararono a tributargli una sorta di rispetto, certo degno di un ambiente migliore, in cui l'ammirazione per la rettitudine si mescolava al timore per la durezza della sua scorza. Un rispetto meritato, se si pensa al prezzo che dovette pagare per ottenerlo.

La rivolta

La notte fra il 21 e il 22 ottobre 1895 scoppiò una rivolta sull'isola, organizzata dal gruppo, abbastanza numeroso, di anarchici che si trovavano allora al bagno. Fu una impresa senza speranze, compiuta più per vendicarsi delle continue vessazioni cui erano sottoposti i compagni, che per le vere possibilità di successo che presentava. Duval partecipò attivamente alla sua preparazione, che fu lunga, controversa e laboriosa, ma al dunque dovette rinunciare a dare il suo apporto attivo perché mandato in un altro luogo per punizione. Fu, tutto sommato, una fortuna. Infatti, l'Amministrazione penitenziaria messa sull'avviso dalle delazioni di un paio di traditori, aveva deciso di cogliere l'occasione per sterminare l'intera colonia anarchica, fonte continua di preoccupazioni per il carattere indocile dei suoi componenti. E così fu. Appena i rivoltosi uscirono dalle camerate, trovarono ad attenderli i fucili delle guardie. "Sangue freddo e senza quartiere" aveva raccomandato il comandante Bonafai, capo del servizio di Sicurezza Interno, ai suoi uomini, che per l'occasione erano stati ubriacati come maiali. Con un massacro allucinante, gli anarchici Garnier, Simon, Leauthier, Lebault, Masservin, Dervaux, Chevenet, Boesie, Mesueis, Kesvau, Marpeaux, furono sorpresi, inseguiti, uccisi uno per uno senza pietà. L'indomani, i loro corpi crivellati di colpi vennero gettati in mare, in pasto ai pescicani, mentre la Commissione d'inchiesta, subito nominata, continuava la repressione, arrestando e mettendo ai ferri tutti quelli su cui aleggiava anche il semplice sospetto di aver aiutato i ribelli. Duval restò alla Guyana 14 anni. In questo tempo, tentò l'evasione più di venti volte, cogliendo ogni occasione, con ogni mezzo: su zattere di fortuna, su barche rubate o pazientemente costruite, clandestino sulle navi in transito. Ogni volta qualcosa andava per traverso. Veniva preso, scontava l'inevitabile punizione, e ricominciava. Se avesse rinunciato, dopo i primi fallimenti, sarebbe morto in galera come tanti altri, roso dalla febbre o ucciso da un guardiano. Invece, per la sua incapacità a rassegnarsi, si salvò. Tenta e ritenta, un insuccesso dopo l'altro, finalmente venne la volta in cui la fortuna girò per il verso giusto.

L'evasione
Il 13 aprile 1901, Duval, con otto compagni di pena, metteva in mare un fragile canotto e si dirigeva silenziosamente verso il mare aperto. Era notte fonda, e nessuna guardia si accorse dell'evasione fino al giorno dopo. I deportati ebbero modo, così, remando di buona lena, di allontanarsi indisturbati. Al mattino, issata la vela, fecero rotta verso nord-est, per uscire dalla giurisdizione francese. Una nave da guerra li incrociò, senza mostrare il minimo interessamento, continuando per la sua strada. Un buon inizio. Veleggiarono tranquilli per tutto il giorno sospinti da una brezza leggera. Al timone stava un mozzo, ottimo marinaio, la cui esperienza nautica contribuiva a tenere alto il morale degli evasi. Ma alla sera, il tempo si guastò. La brezza divenne ben presto un uragano capace di sollevare ondate gigantesche, che riempivano di acqua la barchetta, costringendo gli uomini ad un continuo angoscioso lavoro di svuotamento. Per di più, il mozzo a causa della mancanza di vitamine (retaggio del regime alimentare del penitenziario), di notte perdeva completamente la vista e la sua abilità diventava ben poca cosa senza l'aiuto degli occhi. Fu una notte d'inferno, in cui più volte corsero il rischio di finire ai pescecani. Il mattino dopo, le condizioni atmosferiche migliorarono, quelle del mozzo anche, e in breve tempo Duval e i suoi compagni giunsero in vista della terra. Era la zona di Paramaraibo, nella Guyana Olandese. Cioè fuori dalle grinfie dell'Amministrazione penitenziaria. Il più era fatto. Anche così, però, gli evasi erano in pericolo. Come galeotti fuggitivi, potevano essere incarcerati dalla polizia olandese. Se la Francia l'avesse saputo, potevano venire estradati e internati nuovamente nell'isola maledetta. L'Odissea non era ancora finita. Sarebbe durata due anni. Sempre sotto falso nome, sempre allerta per non venire scoperto, sempre in lotta con la fame e con le autorità, costretto ai lavori più umili e miserabili, Duval passò nella Guyana inglese, poi, da lì nella Martinica, giungendo infine a Porto Rico. Qui si fermò un poco, rimettendo in sesto la salute malandata e ricostruendosi un embrione di vita normale. Il 16 giugno 1903 si imbarcò per gli Stati Uniti, con la prospettiva di un'esistenza perlomeno libera. La deportazione era ormai solo un ricordo, anche se incancellabile.
(Fine)

martedì 18 novembre 2014

Un anarchico nell'inferno della Caienna (Pt 2)

Espropriatore
E Duval rubò. Per vivere, per mangiare, senza porsi problemi di alcun genere, con l'unica consapevolezza di non avere alternative. Rubò una prima volta, in una biglietteria ferroviaria, pochi franchi sottratti dal cassetto mentre l'impiegato era assente, e gli andò bene. Rubò una seconda volta, di lì a poco e nello stesso luogo, ma venne sorpreso e acciuffato. Il risultato immediato fu la prigione (un anno a Mazas) e l'abbandono, ormai definitivo, da parte della moglie. Ma non fu l'unico né il più importante. Quel primo contatto con l'illegalità lo fece meditare e lo convinse non solo della sostanziale legittimità del furto (o "riappropriazione individuale", come si diceva allora) ma della possibilità che esso divenisse un mezzo di lotta. Un mezzo, si badi, non un fine a sé stante. Ché proprio in questa concezione, accettabile o no che fosse sul piano della strategia rivoluzionaria, sta la grandezza d'animo di Clement Duval. Altri sarebbero venuti, dopo di lui, a rubare, a rapinare, solo per sé e per la propria vita, scambiando per rivoluzione quella che era invece rivolta individuale (pur comprensibile), convinti che bastasse sottrarre al ricco i suoi averi, senza domandarsi cosa bisognasse farne dopo. Duval, al contrario, vedeva nel furto solo uno strumento per finanziare l'attività politica, per stampare la propaganda sovversiva, per agitare le masse, per preparare le armi necessarie allo scontro con la borghesia sfruttatrice, per fare la rivoluzione anarchica. La sua, fu una lotta solitaria, a causa delle condizioni in cui fu costretto ad agire, ma non egoistica. Dopo i primi tentativi inconsapevoli, egli seppe oltrepassare la propria tragedia personale, trovando in essa il punto di partenza per una visione più ampia, la ragione di una lotta fatta né per se stesso né per gli altri, ma per tutti. Quando Duval uscì di galera, cominciò attivamente a fare propaganda libertaria nelle fabbriche, intorno a Parigi, e si rese conto di essere come in guerra. Una guerra condotta senza esclusione di colpi, senza convenzioni internazionali che ne regolassero i meccanismi, senza aristocratico fair-play. Ogni rivendicazione finiva con licenziamenti massicci, ogni sciopero si trovava di fronte i fucili dell'esercito ed erano morti e feriti, ogni pubblica manifestazione di dissenso era l'occasione per arresti di massa (ed era la galera, la deportazione, la ghigliottina). Duval pensò (chi può dargli torto?) che non si potesse fare altro che rispondere alla violenza con la violenza. E, perdio, rispose. Una fabbrica di pianoforti, gli edifici della compagnia degli Omnibus, una ebanisteria, una fabbrica di carrozze, le officine Choubersky dove egli stesso lavorava, la ditta Belvallette di Passy: i luoghi dove lo sfruttamento più disumano veniva consumato, dove gli operai sputavano la salute 14 ore al giorno in cambio di quattro miserabili franchi, dove il privilegio più indegno si formava e si consolidava, caddero in rovina, distrutti dal fuoco, sventrati dall'esplosivo. È in questo periodo che nasce nell'iconografia del regime, la figura dell'anarchico dinamitardo, tenebroso vendicatore dei torti proletari, incubo del borghese e del benestante. Duval, ormai, era uno di questi. La notte del 5 ottobre 1886 accadde l'episodio che doveva determinare la sua rovina. Duval si introdusse nell'appartamento di Madame Lemaire, una ricca signora che abitava al n. 31 di Rue de Monceau. Gli inquilini erano in villeggiatura ed egli potè agire indisturbato: razziò accuratamente tutti gli oggetti preziosi che riuscì a trovare e devastò quanto fu costretto, per il peso o l'ingombro, a lasciare sul luogo. Andandosene, senza volerlo (ché non aveva interesse alcuno ad attirare l'attenzione mentre era all'opera), appiccò il fuoco alla casa. Il danno, tra furto e incendio, fu di oltre diecimila franchi, una bella somma che contribuì a dare una certa risonanza all'avvenimento. La polizia non tardò a scoprire il responsabile. I gioielli espropriati, messi in vendita troppo presto, lasciavano dietro di sé una traccia evidente, che in qualche giorno permise di risalire ai ricettatori e quindi a Duval. Sorpreso davanti all'abitazione di un compagno, questi venne arrestato, e non senza fatica, come abbiamo già raccontato.

Il processo
Anche il processo, che si tenne l'11 e il 12 febbraio 1887 dinnanzi alla Corte d'Assise della Senna, fu ben lontano da svolgersi in modo tranquillo. L'imputato rimbeccò i giudici con fermezza rifiutando il ruolo di delinquente comune in cui lo si voleva costringere, reclamando a gran voce la natura politica del suo movente, contestando la pretesa degli uomini di toga in "fare giustizia". Da accusato si fece accusatore, delle malversazioni, dell'ingiustizia dello sfruttamento, delle mistificazioni, dei torti subiti, da lui e da quelli come lui. Il pubblico, che stipava fitto il tribunale, fu trascinato da quella veemenza e fece eco. L'ultima udienza terminò in una baraonda gigantesca. Duval espulso dall'aula, la gente che gridava "Viva l'anarchia!", la polizia quasi sopraffatta dalla folla, i giudici in fuga verso la Camera di Consiglio, e poi insulti e zuffe, botte e arresti. Un'ora dopo, sedato il tumulto, la Corte comunicò il verdetto: la morte. Una pena dettata dalla paura, certo sproporzionata alla gravità dei reati in discussione. Il 29 febbraio, forse rendendosi conto di questa sproporzione, il Presidente della Repubblica commutò la sentenza in quella, solo apparentemente più mite, della deportazione a vita. Il consesso civile chiudeva i battenti alle sue spalle e gli spalancava quelli dell'inferno. Per sempre. Il 25 marzo, alle quattro del pomeriggio, Duval partiva con la nave "Orne" dalla fortezza militare Lamalgue, di Tolone, alla volta della Guyana. Di quale vita l'attendesse aveva avuto una raccapricciante anticipazione fin dal primo giorno che era giunto al forte. Le sue stesse parole (1), pur nella loro ridondanza fin de siecle, sono di una eloquenza cui non servono commenti: "(...) non oserò mai ridire la corruzione putrida di quella borgia in cui ogni affetto e sentimento umano fermentava all'ultimo stadio purulento della decomposizione. Lungo i muri, sdraiati sul tritume miasmatico dei sacconi, erano gli esausti, la povera gente che a tutte le speranze aveva dato l'addio (...). Negli angoli discreti a cui non giungevano né il guizzo scialbo dei lumi ad olio, né lo sguardo dei curiosi, erano fremiti e singulti, la foia, il delirio bestiale della fornicazione. Un trivio di Sodoma eretto all'ombra della terza repubblica della borghesia benpensante, ad onore e gloria della morale vereconda e della scienza penale positiva".
(continua)

lunedì 17 novembre 2014

Un anarchico nell'inferno della Caienna (Pt 1)

Parigi, ottobre 1886. Celato nell'ombra di un portone, il brigadiere Rossignol si tirava nervosamente i mustacchi. Se tutto fosse andato per il verso giusto, stava per portare a termine un'altra brillante operazione di polizia, un ennesimo successo da aggiungere al suo già fornito curriculum. Non aveva motivo di dubitare del buon esito della cosa. Era un uomo sicuro del fatto suo, il brigadiere, una specie di Calabresi dell'epoca, famoso per il coraggio e la efficienza con cui sapeva perseguitare la malavita cittadina. Quella volta si trattava di arrestare un pericoloso sovversivo, accusato di furto con scasso e incendio doloso, e l'agguato era stato predisposto con tutta la cura necessaria, tale da non destare preoccupazioni. Si era portato appresso una ventina di agenti, li aveva dislocati strategicamente, lui stesso era lì, pronto a dare il via alla manovra. Se era nervoso, era soltanto a causa dell'attesa. Fu forse per quest'eccesso di fiducia, o per la smania di fare bella figura, o per entrambi i motivi, che, appena il personaggio in questione si decise a comparire, il brigadiere Rossignol balzò senza esitare dal suo nascondiglio, precedendo i colleghi. In un lampo fu addosso al ricercato, urlando come un pazzo la frase di rito, quella certamente che preferiva fra i tanti stereotipi del linguaggio poliziesco: "In nome della legge, ti dichiaro in arresto!". Era la tecnica che usava in quei casi, per spaventare il delinquente colto sul fatto e togliergli subito ogni velleità di reazione. Ma non funzionò. Invece che con tremebonda rassegnazione il suo exploit venne accolto da un ringhio minaccioso: "E io ti ammazzo, in nome della libertà!". A conferma delle sue intenzioni, l'uomo aveva estratto un coltello lungo un palmo. La zuffa che seguì fu violentissima. Mentre gli altri sbirri cercavano vanamente di bloccarlo, l'irriducibile individuo inferse una mezza dozzina di coltellate al Rossignol e, nel disperato tentativo di divincolarsi, gli schizzò addirittura un occhio dall'orbita. Alla fine, il numero ebbe ragione della sua resistenza. Venne ammanettato e portato in galera. Il brigadiere andò all'ospedale, con un successo in più al suo attivo e un occhio di meno. L'antagonista dell'incauto poliziotto era Clement Duval, anarchico espropriatore, che quel giorno suggellava sanguinosamente la propria esistenza di militante rivoluzionario per iniziarne, di lì a poco, un'altra, quella di galeotto deportato alla Guyana. Una conseguenza fatale, tutto sommato, così come la ribellione violenta era la conseguenza fatale di una esistenza senza gioia, sofferta, come vedremo, sotto il giogo dello sfruttamento e della sopraffazione. Da questo punto di vista, la vicenda di Duval ha un significato che trascende il caso umano, perché è lo specchio di un'epoca, in cui si riflette il volto reazionario della Francia neo-industriale imperialista, sfruttatrice, repressiva. A quel tempo, poteva essere la storia di tutti, e in effetti lo fu di molti. Proprio in questa mancanza di eccezionalità risiede, oggi, il suo valore esemplare.

Proletario
Duval era di famiglia proletaria, e imparò ben presto cosa questo significasse. Ebbe il primo, brusco, contatto con la realtà in occasione del conflitto franco-prussiano, nel 1870 quand'era appena ventenne. Arruolato nel 5° battaglione Cacciatori a piedi, fu spedito al fronte, a sperimentare di persona quanto costava la gloria della nazione e chi doveva pagarne il prezzo. Grazie alle perfette condizioni igieniche in cui l'esercito francese veniva tenuto, si prese il vaiolo, scampando per miracolo. A Villorau fu ferito dallo scoppio di un obice, tanto gravemente da restare inchiodato per sei mesi in un miserabile ospedale di guerra. Tornò a Parigi nel 1873, in quanto, dopo la morte del padre, era l'unico sostegno della famiglia: tutto intero ma rovinato per sempre dall'artrite e dai reumatismi, postumi delle lesioni e della lunga degenza. Ironia della sorte, a casa trovò che la famiglia di cui doveva essere il sostegno non esisteva più. La giovane moglie (che aveva sposato poco prima di partire per il fronte) incapace a reggere da sola sia le sorti del menage che il peso della solitudine, si era messa con un altro, e il povero Duval, dopo le gioie della vita militare, ebbe modo di conoscere la condizione di reduce cornuto. La mentalità dell'epoca non era delle più aperte, in fatto di costumi sessuali e rapporti extramatrimoniali, e Duval, benché progressista, non era nelle condizioni di spirito migliori per guardare alle cose con quella serenità che le sue idee avrebbero richiesto. Ci vollero così ben 14 mesi di rancore e gelosia retrospettiva perché i due coniugi riuscissero a dimenticare l'incidente e tornassero a vivere insieme. Fu l'inizio di un periodo di relativa tranquillità. Lui lavorava come meccanico in un'officina di Parigi, la moglie badava alle faccende domestiche, e la vita benché dura, poteva sembrare quasi felice, a paragone di quella del fronte. Non che fossero rose e fiori, intendiamoci. In fabbrica, 14 ore di lavoro al giorno, disciplina ferrea, lo spettro del licenziamento ad ogni minima mancanza. A casa, vitto povero, sporcizia, squallore, i lunghi silenzi della fatica e della miseria. Era la vita che conducevano allora i proletari dei paesi neo-industriali. In quest'epoca, Duval maturò le sue convinzioni libertarie, le affinò con letture e con l'esperienza diretta, rendendosi conto della natura dello sfruttamento e convincendosi che l'unica prospettiva di emancipazione per le classi inferiori stava nella rivoluzione. Ma, più che per le idee e le intenzioni sovversive, si faceva allora conoscere per la fermezza orgogliosa del carattere, per l'onestà, per la passione che nonostante tutto, metteva nel suo mestiere. Ma era segnato. Non da un soprannaturale destino avverso e nemmeno tanto dalle idee che professava, piuttosto dalla sua condizione di sfruttato, di reietto cui la società chiedeva tutto, dolore, sacrificio, rassegnazione, e non dava nulla in cambio. Dopo appena tre anni di vita normale, un terribile attacco di reumatismi venne a ricordargli di aver combattuto per la patria, inchiodandolo in letto, quasi senza interruzione, fino al 1878. Perse il lavoro, e se prima era stata la povertà, ora fu la miseria. E, con la miseria, le liti in famiglia, le recriminazioni, il disprezzo degli altri, l'angoscia di un'esistenza senza prospettive senza pietà. La disperazione. L'odio.
 (continua)

giovedì 13 novembre 2014

Io porto ciò che amo: Youssou N’Dour

Sono Youssou N’Dour e chiamo a raccolta tutti gli africani per condividere le nostre idee e metterci a confronto.
Senza frontiere mettiamo insieme le nostre risorse e lavoriamo. Riuniamoci e non permettiamo a nulla di dividerci.
Voi, capi di Stato, conducete una Nazione ma non la possedete. I veri leader amano il loro Paese.
Possiamo chiedere aiuto, ma dobbiamo soprattutto dipendere da noi stessi.
Noi siamo l’Africa.
Quando sorge il sole fatti trovare in piedi, pronto con gli attrezzi del tuo mestiere. Il giorno passa in fretta, risolviamo un problema alla volta, uniti siamo più forti. La strada è lunga e c’è tanto da fare, perciò facciamoci trovare pronti.
Io piango se penso a quanto hanno sofferto i nostri antenati, ma il nostro passato non può impedirci di andare avanti.
Sogno un’Africa unita dalla stessa visione. Schieriamo le nostre idee, le nostre energie, apriamo le frontiere e riuniamoci. Cambiamo il modo di pensare. Lavoriamo insieme. Continuiamo a lavorare. Cheikh Anta Diop, Kwame Nkrumah, Stephen Biko, tutti voi, gente. Africa!. 
Youssoun N’Dour


lunedì 10 novembre 2014

14 novembre 2014 Sciopero generale

Lo Sciopero Generale evoca momenti storici importanti in cui i lavoratori e le lavoratrici hanno fatto valere la propria forza nei confronti dei padroni e dei governi.
Oggi il sindacalismo di base, alternativo, conflittuale e l’opposizione sociale l’hanno proclamato il 14 novembre per tutte le categorie e per l’intera giornata.
PERCHE’?
Soprattutto per porre un argine al massacro (non c’è parola più appropriata) dei diritti delle lavoratrici e dei lavoratori che hanno conquistato con dure lotte nell’arco del secolo scorso.
In questa deriva ultraliberista e conservatrice non possiamo tacere le responsabilità e le complicità da parte delle Confederazioni sindacali (Cgil, Cisl, Uil) anche se, oggi, dal governo in carica ricevono come ricompensa calci in faccia.
Tutti i miglioramenti economici e sociali ottenuti fin’ora sono il frutto dei sacrifici e delle lotte per l’emancipazione da parte della classe lavoratrice.
La crisi feroce che stiamo subendo è causata soprattutto dall’ingordigia della classe finanziaria/padronale affamata di profitti illimitati a scapito dell’intera società e sostenuta da politicanti accecati dal potere che – nell’affannosa ricerca di privilegi da perpetuare all’infinito – emanano leggi che impongono sempre nuovi e inderogabili sacrifici.
Occorre porre un argine invalicabile a questa marcia devastante del governo e dei suoi “sponsor” internazionali (Commissione Europea, BCE, FMI): di fronte al dilagare della crisi con il suo corollario di disoccupazione, precarietà, blocco dei salari e delle pensioni, aumento del costo della vita, delle tasse, delle spese militari (Muos ed F35); di fronte al taglio dei servizi pubblici (sanità, scuola, trasporti) degli sprechi e della devastazione ambientale come la TAV, della negazione al diritto alla casa, fino al punto di offrire su un piatto d’argento la più completa libertà di licenziamento con l’azzeramento dell’art.18 è quanto mai necessario reagire con forza e determinazione. Tenendo ben presente un dato storico che si è già, puntualmente verificato: quando i lavoratori e le lavoratrici si battono con accanimento in difesa del proprio posto di lavoro e dei diritti acquisiti si fa ricorso alla violenza dello Stato a suon di manganelli, denunce e cariche poliziesche.

Basta licenziamenti!
Organizziamoci affinché ogni azienda che chiude o delocalizza sia requisita dalle lavoratrici e dai lavoratori.
Licenziamo i padroni!
Senza lavoratori e lavoratrici non si produce niente. Senza padroni si può produrre tutto ciò che è utile e necessario per l’intera società.


venerdì 7 novembre 2014

Verso lo Sciopero Generale del 14 novembre

Il 14 novembre 2014 IL NOSTRO SCIOPERO.
UN SOLO BLOCCO!
LA CLASSE!
I SALARIATI!

Sappiamo quanto è difficile oggi scioperare.
Lo è per chi ha un lavoro fisso, per chi il diritto di sciopero ce l’ha, ma lo vede sottoposto a troppe limitazioni. Lo è perché è faticoso rinunciare a una parte del proprio stipendio quando la crisi si approfondisce e soldi non ce ne sono. Lo è ancora di più per chi è precario, per chi scioperare significa rischiare di perdere il posto di lavoro. Lo è per chi è un lavoratore autonomo, perché poi deve motivare il proprio ritardo nella consegna al committente. Lo è per un disoccupato o per un intermittente.
Sappiamo tutto questo e lo sappiamo sulla nostra pelle. Ma sappiamo anche che stare fermi ora vuol dire perdere (o quasi) la possibilità di lottare domani. La riforma del mercato del lavoro del governo Renzi – ddl Poletti e Jobs Act – renderà il lavoro sempre più ricattabile, servile, povero. Contro tutto questo dobbiamo alzare la testa, prendere parola, resistere.
Il 14 novembre sciopereremo e invitiamo a farlo in tante forme per 24 ore. Sarà uno sciopero del lavoro dipendente e del lavoro precario, di quello autonomo e della formazione, sarà uno sciopero metropolitano, meticcio, digitale e dei/dai generi. Il 14 novembre sciopereremo e invitiamo a scioperare:
1.   Per fermare il Jobs Act, per estendere (e non eliminare) i diritti previsti dallo Statuto dei lavoratori a partire dall’art.18. Per abolire la Legge Poletti, i suoi contratti a tempo determinato «acausali» e la liberalizzazione dell’apprendistato.
2.   Per l’abolizione delle 46 forme contrattuali della legge 30. Contro la truffa e le discriminazioni del “Contratto a tutele crescenti”. Per un contratto unico a tutele immediate.
3.   Per un salario minimo europeo. Non siamo disposti a lavorare al di sotto di 10 euro l’ora.

4.   Per un reddito di base universale, non condizionato all’accettazione di qualsiasi lavoro e finanziato dalla fiscalità generale. Servono subito 15-20 miliardi contro la truffa del Naspi, per il quale sono previsti 1,6 miliardi di euro, sufficienti per non più di 180.000 persone a fronte del 44% di disoccupazione giovanile.
5.   Per la redistribuizione ai reali beneficiari (disoccupati, neet ed inoccupati)  dei 1.5 miliardi di cofinanziamento europeo del programma Youth Gurantee.
6.   Per la retribuzione di tutti i lavori, che siano sotto forma di stage, tirocini, prove, volontariato o freejobs. No all’accordo sul lavoro per Expo 2015.
7.   Per l’estensione del diritto alla malattia e alla maternità ai lavoratori autonomi e contro l’aumento dell’aliquota della gestione separata INPS per i professionisti atipici.
8.   Per la stabilizzazione delle e dei precari nella scuola, nell’università, negli enti di ricerca, negli enti e nelle istituzione pubbliche.
9.   Per la gratuità dell’istruzione, contro la ‘Buona Scuola’ di Renzi e l’entrata dei privati nei luoghi della formazione. Per la reale tutela del diritto allo studio, contro gli ulteriori 150 milioni di tagli previsti nel decreto Sblocca Italia.
10.   Per un rilancio massiccio degli investimenti pubblici in formazione e ricerca, contro la privatizzazione del welfare, delle public utilities e dei beni comuni. Sono solo i primi punti, molti altri li scriveremo collettivamente in queste settimane che ci separano dallo sciopero sociale generale del 14 Novembre 2014.
La lotta sarà lunga e non basterà uno sciopero, ma non siamo più disposti a vivere e lavorare senza diritti, non ci stancheremo di lottare.
SCIOPEROSOCIALE

(Nota aggiuntiva, lo sciopero per i posti di lavoro è stato "coperto sindacalmente" da CONFEDERAZIONE COBAS, ADL COBAS, USI UNIONE SINDACALE ITALIANA, CONFEDERAZIONE UNITARIA DI BASE CUB, ADESIONE DEL SISA - Sindacato Italiano Scuola e Ambiente) che chiamano alla mobilitazione anche per PIENA ED EFFICACE TUTELA DELLA SALUTE E DELLA SICUREZZA SUI LUOGHI DI LAVORO E SUI TERRITORI INQUINATI, CONTRO GLI EFFETTI DELL'ACCORDO DEL 10 GENNAIO 2014 SULLA RAPPRESENTANZA (solo a beneficio dei sindacati concertativi o ... collaborazionisti), PER LA RI-PUBBLICIZZAZIONE DEI SERVIZI PUBBLICI E DI RILEVANZA PUBBLICA...

L'EMANCIPAZIONE DEI LAVORATORI SARÁ OPERA DEI LAVORATORI STESSI