..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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sabato 29 agosto 2020

Ottantanove migranti salvati: è la prima missione della Louise Michel

Dopo il «debutto» davanti alle coste della Libia, la scorsa settimana, due giorni fa la Louise Michel ha effettuato il suo primo salvataggio di migranti: 89 che erano su un barcone in difficoltà in avaria al largo di Zwara, tra cui 14 donne 4 bambini, e sta cercando un porto sicuro dove attraccare per sbarcare le persone a terra.. La nave si trova adesso al largo della Tunisia e attende un «pos», un porto sicuro in cui sbarcare i migranti. Il giorno prima, l’equipaggio della Louise Michel aveva fatto sapere di avere assistito a un’operazione della Guardia costiera libica con cui migranti a bordo di un gommone di colore nero erano stati riportati indietro: «Siamo stati testimoni di un "pull back", condanniamo fortemente questa violazione della Convenzione di Ginevra per i rifugiati e del diritto di navigazione», hanno twittato dalla nave. Proprio ieri l’Oim Libia ha denunciato che almeno 230 persone sono state riportate indietro dalla Guardia costiera libica nelle ultime 24 ore.

Fino a poche ore prima del salvataggio della Louise Michel nella stessa area di intervento c’era anche la Sea Watch 4, la nuova nave dell’omonima Ong tedesca, che ha a bordo 201 migranti recuperati in mare nei giorni scorsi, in tre diverse operazioni di salvataggio. La prima, avvenuta una settimana fa, su segnalazione e con l’assistenza della stessa Louise Michel che aveva individuato una barca con 7 persone a bordo, assistite fino all’arrivo della nave di Sea Watch. Nei giorni successivi, la Louise Michel ha effettuato un secondo intervento di assistenza a un’altra imbarcazione di migranti, anche questi presi poi a bordo dalla Sea Watch 4 che è anch’essa in attesa di un «Pos» e naviga tra Malta e la Sicilia.

Ecco gli ultimi tre twitt della Louise Michel:

@MVLouiseMichel 11h

Alert! #LouiseMichel assisted another 130 people - among them many women & children - and nobody is helping! We are reaching a State of Emergency. We need immediate assistance, @guardiacostiera & @Armed_Forces_MT. We are safeguarding 219 people with a crew of 10. Act #EU, now!

@MVLouiseMichel 3h

#LouiseMichel is unable to move, she is no longer the master of her manoeuver, due to her overcrowded deck and a liferaft deployed at her side, but above all due to Europe ignoring our emergency calls for immediate assistance. The responsible authorities remain unresponsive.

 

@MVLouiseMichel 44m

We repeat, #LouiseMichel is unable to safely move and nobody is coming to our aid. The people rescued have experienced extreme trauma, it's time for them to be brought to a #PlaceOfSafety. We need immediate assistance.


29 agosto 1946: i partigiani di Santa Libera

È il 29 agosto del 1946 e ad Asti un gruppo di una cinquantina di persone sta rientrando in città tra gli applausi calorosi della gente: sono i ribelli di Santa Libera, un gruppo di ex partigiani che qualche giorno prima è tornato ad imbracciare le armi e si è installato sulla vetta di una collina che domina il piccolo comune di Santa Libera (in provincia di Cuneo) per protestare contro alcuni provvedimenti che le autorità hanno messo in atto sia sul piano locale che su quello nazionale.

La scintilla della rivolta si accende quando ad Asti giunge la notizia che Carlo Lavagnino, comandante della polizia locale ed ex comandante delle formazioni garibaldine, è stato sollevato dal suo incarico per essere sostituito da un ex ufficiale fascista.

La scelta dei ribelli di Santa Libera non si spiega però solo con questo episodio, che di fatto è la goccia che fa traboccare il vaso, ma va inserita nel più ampio quadro dell’Italia nell’agosto del ’46: a più di un anno dalla Liberazione, infatti, il governo non ha ancora preso alcun tipo di provvedimento per il riconoscimento dei diritti dei partigiani e delle famiglie dei caduti mentre, per contro, ha sollecitato l’emanazione di un’amnistia per i reati fascisti, redatta dall’allora Ministro della Giustizia Palmiro Togliatti ed approvata a fine Giugno.

Il testo dell’amnistia, che nelle intenzioni del Ministro doveva costituire “un atto di clemenza per alleviare le condizioni anche di coloro che avendo violato la legge penale comune ne subiscono o devono subirne le conseguenze, e per arrecare un conforto sensibile a un numero ingente di loro familiari derelitti e angosciati”, è da subito oggetto di interpretazioni molto ampie che conducono di fatto alla rimessa in libertà di migliaia di fascisti, da squadristi ad alti dirigenti della RSI, che vengono presto reintegrati ed assegnati a nuovi incarichi.

Tutto ciò non può che apparire inaccettabile a quanti hanno combattuto durante la Resistenza e vedono ora repubblichini ed aguzzini fascisti tornare a piede libero in tutta Italia.

Di qui la scelta eclatante dei ribelli di Santa Libera, che nella notte del 20 agosto si mettono in marcia sotto la guida di Armando Valpreda, combattente nella Brigata Rosselli tra il ’43 e il ’45, e si installano nel rudere di una vecchia torre sulla cima di una collina.

Il gruppo era già organizzato clandestinamente da alcuni mesi, con l’intento di agire sul piano locale per fare giustizia contro le presenza fasciste che ancora inquinavano il territorio, perciò la partenza per Santa Libera non è che l’occasione per mettere al lavoro le forze del nucleo.

Già il giorno successivo i ribelli rendono note le proprie rivendicazioni: reinserimento dei partigiani, dei reduci e degli ex-internati nel mondo del lavoro, erogazione di pensioni alle famiglie dei caduti e riconoscimento del periodo resistenziale ai fini del servizio militare, risarcimento alle vittime delle rappresaglie nazi-fasciste, abrogazione dell'amnistia, soppressione del partito dell'"Uomo qualunque" e messa fuorilegge dei fascisti.

Intanto la notizia dell’insurrezione non tarda a diffondersi e a suscitare grosse preoccupazioni fra le autorità: il ministero dell’Interno si affretta ad inviare grossi contingenti militari che presidiano l’area con posti di blocco, battaglioni di fanteria e mitragliatrici pesanti.

Il timore (fondato) del governo è che, sull’esempio dei ribelli di Santa Libera, l’insurrezione dilaghi ben presto nel resto d’Italia e, in effetti, situazioni simili si registrano in breve in molte altre località dell’Italia settentrionale, dalla Val Felice, ai dintorni di Pinerolo e di Lanzo, a La Spezia e soprattutto nell’Oltrepò pavese.

Mentre le forze schierate sul territorio lanciano un ultimatum ai ribelli, decidendo di adottare una linea dura, il governo, preoccupato che la situazione possa degenerare in uno scontro a fuoco diretto tra i partigiani e i contingenti militari, decide di aprire una trattativa.

Il Vicepresidente del Consiglio Pietro Nenni, riconoscendo la fondatezza delle richieste partigiane, si dice disponibile ad incontrare una delegazione degli insorti; la sua posizione non rispecchia però quella di gran parte della DC e in primis di De Gasperi, che mal digerisce una sfida così frontale allo Stato e definisce l’insurrezione astigiana “un deplorevole episodio che ha turbato la norma di disciplina e di ordine necessari al paese come non mai".

L’incontro con Nenni si tiene il 24 agosto e in quell’occasione il Vicepresidente assicura che è già pronto un decreto (che verrà effettivamente approvato il 28 dello stesso mese) che prende in considerazione le rivendicazioni normative a favore di partigiani, reduci e familiari dei caduti.

Pur essendo queste delle questioni che stavano molto a cuore agli insorti, resteranno tuttavia fuori dal decreto tutte le rivendicazioni di stampo politico avanzate dai ribelli, in primo luogo l’abolizione dell’amnistia.

Questo nodo non risolto spingerà quindi alcuni gruppi, in più parti d’Italia, a rimanere ancora per alcune settimane sulle montagne, ritenendo insoddisfacente l’intervento normativo del governo.

I ribelli rientrano comunque ad Asti da vincitori, consapevoli di essere riusciti a mettere in scacco il governo e di aver dimostrato che lo spirito della Resistenza non si è affatto spento ma è intatto e anima ancora tutti coloro che non sono disposti ad accettare alcuna riabilitazione dei fascisti.

giovedì 27 agosto 2020

A/traverso percorsi della ricomposizione

A/traverso si riconosce nell’area dell’autonomia.

Ma l’area non va identificata con il suo quadro organizzato, che non rappresenta invece altro che la punta emersa di in iceberg esteso nei comportamenti sociali di strati insubordinati, che, al di sotto della scena ufficiale della politica producono nuove possibilità per il movimento.

Attuale compito organizzativo del quadro dell’autonomia non è la centralizzazione, ma la ricomposizione trasversale. Il soggetto rivoluzionario si ricostruisce oggi in una fase lunga di ricostruzione capitalistica e di modificazione della figura di classe, di ridefinizione del movimento attorno all’area dell’autonomia.

Autonomia come bisogno di separ/AZIONE dei diversi strati sociali con la loro specificità (le donne, i giovani, gli omosessuali, gli assenteisti, i clandestini) rispetto alla complessità della classe. Separ/AZIONE delle singole istanze di trasformazione dell’esistenza nei piccoli gruppi in moltiplicazione.

Ricomporre trasversalmente (direzione operaia) significa tradurre i movimenti separatisti in movimento di separ/AZIONE.

Separazione dei bisogni operai dalla riorganizzazione sociale capitalistica.

Occorre cominciare a pensare al comunismo in modo non più escatologico, come una cosa del futuro, ma come una realtà contemporanea, separata (estranea ed ostile rispetto alla società capitalistica, rispetto al suo funzionamento) ma capace di sospingerla in avanti e trasformarla, come motore dello sviluppo, come potere operaio in atto la forma dell’esistenza in movimento.

Pensare al comunismo come la forma della trasformazione, del desiderio in liberazione. Come il movimento reale che abolisce concretamente, (nel presente) lo stato di cose presente.

 

(A/traverso quaderno uno, supplemento a Rosso, ottobre 1975)

lunedì 24 agosto 2020

24 agosto 1917: l'insurrezione di Torino contro la guerra

A Torino l'opposizione alla Grande Guerra è vivissima sin dall'inizio, dal 1914: la presenza in città della grande industria ne hanno fatto in pochi mesi la prima città industriale italiana, gli operai sono diventati centinaia di migliaia, ma il guadagno reale continua a scendere, e inoltre i generi di prima necessità continuano ad essere irreperibili. Da qui cresce e si diffonde un forte malcontento, che sfocia già nel 1915 a grandi scioperi e manifestazioni di piazza, che portano in piazza decine di migliaia di operai.

Il 1917 è l'anno peggiore, tre anni di guerra hanno portato le condizioni di vita del proletariato urbano al limite, alle quali si aggiunge, tra marzo e agosto, una costante penuria di pane. Scendono in agitazione e in sciopero in questi mesi decine di fabbriche torinesi, dalle metallurgiche alle automobilistiche, e alle rivendicazioni economiche si intreccia la propaganda per la pace e, poiché proprio in questo periodo giungono gli echi della rivoluzione russa del febbraio, sempre più spesso la parola d'ordine diventa di "fare come in Russia".

Il 21 agosto la situazione precipita, e si contano almeno 80 fornai chiusi: gruppi di donne manifestano davanti alla Prefettura e al Municipio, mentre il giorno successivo iniziano le battaglie in strada.

Nel quartiere Vanchiglia la folla attacca la caserma delle guardie, che sparano ferendo tre dimostranti, gli scontri si allargano a macchia d'olio in tutta la città, mentre sempre più operai scendono in sciopero.

Il 23 lo sciopero è spontaneo e chiaramente preinsurrezionale in tutta la città, i negozi vengono saccheggiati, in tutti i quartieri vengono erette barricate, gli scontri a fuoco si moltiplicano, i roghi cominciano ad essere appiccati in punti nevralgici della città. È in questa giornata che si contano i primi due morti della rivolta, uccisi dalle guardie in Piazza Statuto.

Il 24 è la giornata culminante dell'insurrezione. Nella mattinata tutti i quartieri operai periferici sono in mano al popolo insorto (verranno definiti la "cintura rossa"), mentre il centro città è presidiato dall'esercito; gli operai spingono tutt'intorno al centro, cercando di convincere i soldati tramite manifesti, volantini e donne infiltrate, o perlomeno di disarmarli, con un susseguirsi di piccoli combattimenti. I risultati di questo tentativo di fraternizzazione con i soldati sono del tutto deludenti, in quanto tra le forze armate è mancato, e manca, un lavoro di propaganda e un centro ideologico ed organizzativo.

Gli sconti spontanei sono ormai dilagati in tutta la città, ma gli insorti, male o per niente armati, si scontrano con la forza pubblica che utilizza mitragliatrici e tank. A sud della città un dimostrante e un soldato restano uccisi in barriera Nizza, mentre la battaglia continua in San Paolo.

Ma è a nord che la lotta è più dura: sulla Dora ed in Corso Vercelli l'esercito riesce infine ad espugnare le barricate erette dai rivoltosi, mentre in Corso Novara i dimostranti hanno la meglio, occupano il commissariato di Corso Mosca, superano Porta Palazzo e si dirigono verso il centro.

Le parole del cronista di "Stato Operaio" danno un'idea di ciò che accade: "La folla sente che può vincere e lotta con furore, con eroismo: semina le strade di morti e di feriti. Ma la riscossa della forza pubblica è terribile. Entrano in campo le automobili blindate e si scagliano a corsa folle per le vie gremite, scaricando le mitragliatrici all'impazzata sulla gente che fugge, su coloro che resistono, nelle finestre delle case, nelle porte, nei negozi alla cieca. I morti non si contano e l'attacco dei rivoltosi è respinto ancora una volta. In questo momento la folla si spezzetta nel dedalo delle vie che stanno tra il centro e Corso Regina Margherita e lungo questo corso. Cento combattimenti individuali e di piccoli gruppi hanno luogo e gli operai e le donne operaie dimostrano cento volte il loro coraggio, il loro eroismo".

Nel pomeriggio gli scontri continuano e un gruppo di donne disarmate cera di frenare l'avanzata dei carri armati in Corso Regina: i tank continuano ad avanzare, mentre le donne vi si lanciano sopra, aggrappandosi alle mitragliatrici e cercando di convincere i soldati a buttare le armi. I carri armati sono costretti ad arrestarsi.

Solo verso sera, con carri armati e mitragliatrici, le truppe riescono a fermare gli scontri nelle zone più agguerrite.

Il bilancio al termine di questa giornata è pesante: ventuno morti tra i manifestanti, tre tra le forze di polizia, un centinaio di feriti e millecinquecento arresti.

Sabato 25 agosto si notano i primi segni del rifluire del moto operaio, gli scontri si susseguono ancora in tutta la città ma i manifestanti non tentano più di arrivare al centro, si limitano a difendere i propri quartieri; la domenica l'insurrezione è praticamente battuta,anche se lo sciopero continua compatto.

"Stato Operaio" scriverà dell'insurrezione di Torino, dieci anni dopo: "Le donne operaie e gli operai che insorsero nell'agosto a Torino che presero le armi, combatterono e caddero come eroi, non soltanto erano contro la guerra, ma volevano che la guerra terminasse con la disfatta dell'esercito della borghesia italiana e con una vittoria di classe del proletariato".

domenica 23 agosto 2020

La Louise Michel salva migranti

È arrivata nel Canale di Sicilia e sta pattugliando l'area davanti alle coste libiche.

Si chiama Louise Michel. È una motovedetta, ma non ha insegne militari ... e come avrebbe potuto averle con quel nome. È dipinta da Banksy la Louise Michel che salva i migranti nel Mediterraneo. I colori scelti sono il rosa e il bianco, con una serigrafia delle ciambelle di salvataggio a forma di cuore, e poi la scritta, sulle fiancate, “Rescue” e un nome, quello a cui è stata dedicata: Louise Michel, l’anarchica, rivoluzionaria, poetessa e insegnante francese che ha vissuto nell’800 e che è stata protagonista della Comune del 1871 e della lotta contro la Francia di Napoleone III.

L’ha voluta appunto così, l'artista e writer inglese, considerato uno dei maggiori esponenti della street art, la cui vera identità rimane ancora sconosciuta. A quanto confermano fonti francesi, Banksy, insieme ad un gruppo di attivisti europei, avrebbe partecipato all’operazione, rimettendo a nuovo una nave della Guardia costiera francese, riconfigurata per operazioni civili.

Era febbraio quando, nel porto di Camaret, in Bretagna, è ormeggiata una vecchia barca pronta a cambiare non solo nome e colore ma anche missione (umanitaria). Ed è lì che Banksy si presenta dicendo: «Lasciatemi vuoto il cantiere per un paio di giorni, resto solo io con i miei collaboratori». Così ha cominciato a rendere unica quella nave dipingendola di rosa e bianco e aggiungendo la scritta “rescue” (soccorso) sulle fiancate e il nome con cui è stata battezzata, quello di Louise Michel.

Nome migliore, per una imbarcazione utilizzata per missioni umanitarie, non poteva essere scelto; ecco, di seguito, un aneddoto su Louise scritto da Pietro Gori:

 

[[…] Parecchi anni or sono, a Parigi si costituì un Comitato di soccorso in pro' dei profughi russi – in seguito ad uno dei periodici deliri acuti della reazione autocratica – e del comitato facevano parte le personalità culminanti della scienza, dell'arte, della politica. Ne erano presidente Victor Hugo e cassiera Luisa Michel.

Ebbene: alla casa di lei era un continuo pellegrinaggio di sollecitatori, che si qualificavano profughi russi, per quanto essi non avessero oltrepassato i boulevards di Montmartre, e le buvettes del quartiere Latino.

E nessuno tornava indietro, per quanto poco russo egli fosse, con le mani vuote.

Victor Hugo, che grandemente amava e stimava la Michel, credette opportuno esortarla a qualche cautela nella erogazione dei soccorsi, onde i veri proscritti russi non ne fossero defraudati da codesti russi... d'occasione.

Luisa, dopo avere ascoltato con deferenza l'autore dei Miserabili, gli chiese con quel suo fervore traboccante di ingenua pietà:

«Posso io domandare alla miseria che invoca aiuto, la carta di nazionalità?»

Il poeta sorrise, e la sua fronte radiosa si chinò perplessa. Da quel giorno però non si parlò più di controllare la nazionalità degli indigenti – anche a costo che qualche mariuolo sfruttasse il fondo raccolto per la Russia fuggiasca e martire.

 

Adesso la motovedetta solca il Mediterraneo Centrale, un’opera d’arte galleggiante che con i suoi quasi 30 nodi di velocità massima arriverà con il motore avanti tutta sui barconi in difficoltà, dando filo da torcere alla cosiddetta guardia costiera libica per soccorrere migranti in fuga dalla Libia.

Ieri la nave, nella quale sono coinvolti attivisti internazionali, ha iniziato la sua missione umanitaria e ha già fatto il suo primo salvataggio. Nel tardo pomeriggio la "Louise Michel" ha avvistato un barchino in vetroresina con sette persone a bordo. In realtà non ha potuto prenderli a bordo ma, dopo aver chiesto aiuto alle autorità competenti, che non hanno risposto, si è rivolta alla Sea Watch 4 che ha subito provveduto al salvataggio, prendendoli in carico.

Il rapporto tra la Louise Michel e la Sea Watch sarebbe stretto, visto che nella nuova umanitaria ci sarebbero alcuni soccorritori che prima hanno collaborato con la Ong tedesca.

Un’operazione, quella della Louise Michel, che sarebbe dovuta rimanere ancora segreta: la sua prima missione è stata a circa 30 km dalla costa tra Tripoli e Al-Zawiya. E, invece, la notizia è trapelata subito.

Nei prossimi giorni si apprestano ad arrivare nell’area anche Mare Jonio, della missione italiana Mediterranea, e il veliero Astral di Open Arms.

Nelle settimane scorse una delle volontarie aveva spiegato alla stampa d’Oltralpe che si tratta di “una piccola squadra internazionale di circa dieci marinai, professionisti del settore marittimo e del soccorso”. La motovedetta “è stata recentemente acquistata a Saint-Malo da un mecenate che per ora vuole rimanere anonimo ma che vuole creare un team di soccorritori professionali”. Tuttavia “non siamo associati a nessuna Ong o organizzazione. Siamo solo una buona squadra pronta ad uscire e ad aiutare in mare".

Non si sa ancora esattamente chi la finanzi: è certo che usi fondi privati, che non dipenda da organizzazioni internazionali e che ha acquistato la nave da «un mecenate che vuole restare anonimo». Forse Banksy stesso? Chissà. Basta guardare le sue opere per capire quanto l’artista sia, da sempre, sensibile al tema dell’immigrazione.

Adesso, la nostra compagna Louise Michel non verrà solo ricordata negli ambienti dell’anarchismo, ma il suo spirito rivoluzionario verrà riconosciuto dal mondo intero.

giovedì 20 agosto 2020

Lo Stato non può garantire ordine, pace, giustizia e libertà

“La gente comune confonde spesso l'anarchia con il caos e la violenza; non sa che il termine, che letteralmente significa “senza governo”, non indica la vita senza regole, ma uno stato di cose, un ordine sociale assai organizzato, senza dominatori, senza “principe”. L'uso peggiorativo non è forse una conseguenza diretta dell'idea per cui la libertà del popolo era ed è terrorizzante per chi detiene il potere?”

Noam Chomsky


Anche alla luce delle verità storiche, verità celate da chi detiene il controllo del sistema culturale, educativo e informativo, l'affermazione di Chomsky non soltanto è vera, ma si mostra in tutta la sua concretezza nelle moltissime realtà anarchiche sparse su tutto il pianeta, in ogni tempo.

Se il sistema statale e gerarchico intende far credere che l'anarchia sia disordine e caos, allora le continue manifestazioni di attrito, di crimine, di ingiustizia, di corruzione, di omofobia che registriamo ogni giorno con l'attuale gestione statale dovrebbero invece essere ritenute ordine, giustizia, pace, uguaglianza, libertà. In verità, usando un minimo di logica consequenziale, è esattamente il contrario. È proprio in questo status che vive, pasce e si perpetua il crimine, il disordine, la tensione continua, l'oppressione. Lo constatiamo tutti i giorni, e la Storia è una finestra aperta sul fallimento dello Stato e sulla sua ipocrisia.

E se da un lato lo Stato produce crimini (e le condizioni perché questi si manifestino), dall'altro lato illude il popolo con la sua esclusiva proposta di salvezza cui siamo tutti obbligatoriamente sottoposti (per legge), circonvenzionando i cittadini con la sua finta “sicurezza” parolina magica che funge da specchietto per le allodole (o allocchi). Perciò siamo di fronte a un circolo vizioso che tutti gli analisti sociali ben conoscono: tanto maggiore è la coercizione della legge, quanto maggiori saranno i crimini. Tanto maggiore è la presenza dello Stato, quanto maggiore saranno la violenza e il caos.

In questa messinscena, in cui i valori opposti vengono ribaltati di 180°, la propaganda statale fa la parte del leone. E infatti non sono pochi quelli che cadono nel tranello e dicono: “ma nelle zone dove c'è un alto tasso di criminalità è evidente che manchi lo Stato”. Queste persone non sanno che è proprio lo Stato che ha creato quelle zone ad alto tasso di criminalità, non con la sua assenza, ma con l'assillante presenza delle sue leggi. Può sembrare un paradosso, ma vediamo di far luce.

Le persone che pensano nel modo virgolettato sopra confondono per prima cosa lo Stato (inteso come organismo burocratico di controllo), con le persone che eseguono gli ordini di quell'organismo: le cosiddette “forze dell'ordine” (per “ordine” s'intende ordine gerarchico dello Stato, non certo la pace come molti pensano). Allora quelle persone che non vedono in giro sbirri proprio in quei quartieri definiti “a rischio” dicono: “non c'è lo Stato, perciò il crimine prospera”. Ma lo Stato c'è, c'è sempre, perché è un sistema, è la legge. La legge statale esiste a prescindere dalla presenza o meno di sbirri sul territorio. E allora, se manca l'opera violenta e coercitiva dello sbirro, è evidente che qualsiasi azione liberatoria dell'individuo diventa fuorilegge, quindi crimine. Anche rubare una mela per liberarsi dalla fame diventa crimine, prima per la legge, poi per gli sbirri. Ma può mai l'azione oppressiva dello sbirro portare pace e giustizia? No! Lo Stato, la giustizia, gli sbirri, la galera, la pena di morte, non hanno mai reso l'essere umano un tantino più giusto. È un dato di fatto che non si può ignorare. E allora cosa dobbiamo concludere? Perché Chomsky, in merito all'anarchia, parla di “ordine sociale” per giunta “assai organizzato?”

Oggi, per opera della cosiddetta crisi, in molti hanno già capito che “è un delitto il non rubare quando si ha fame” (De Andrè.), ma di fronte ai crimini più violenti è difficile far capire alle persone che è proprio lo Stato la causa degli stessi. Essendo lo Stato un sistema che impone una precisa piega alla vita di tutti, bisogna chiedersi quale sia questa piega. Si tratta di una piega eminentemente autoritaria, gerarchica, fascista. Lo Stato forgia gli individui a propria immagine e somiglianza: autoritari, gerarchi, fascisti. Esistono piccoli stati in ogni settore della società, là dove ci sono padroni e sudditi, presidenti e sottoposti, gerarchie d'ogni tipo. Ovunque. Naturalmente anche nella famiglia e, molto subdolamente, nella scuola tradizionale. Essendo questo, dicevamo, un sistema, sembra perciò a tutti di vivere in una condizione di normalità. È normalità, quindi, la condizione di sopraffazione, di dominio, di aggressività, ma, a questo punto, è normalità anche l'azione opposta del riscatto, della voglia di liberazione. Ma non abbiamo forse detto che qualsiasi atto di riscossa e di liberazione vengono dalla legge considerati dei crimini? Ecco allora che, più l'atto di liberazione e di riscossa (anche verso altre persone) è forte, più diventa grave il crimine. È evidente che più l'anello al naso è grosso e stretto, più occorre forza per liberarsene. Ripetiamo: la liberazione è considerata un crimine da questo sistema (salvo quando deve mandare la gente a morire in guerra, in quei casi il sistema si fa chiamare 'patria', e parla di libertà ed eroismo).

Senza poi contare l'apporto di Erich Fromm. Che c'entra il famoso psicanalista-sociologo? C'entra eccome, dal momento che è stato lui a individuare scientificamente le cause dell'aggressività umana, che non sono naturali, ma caratteriali. C'è una grossa differenza. L'Uomo non nasce aggressivo per natura, lo diventa caratterialmente solo per colpa del sistema in cui vive. Ed è per colpa di questo sistema che l'Uomo, anche sano di mente, è arrivato persino a commettere gravi omicidi, perché il senso dell'odio e della vendetta lo ha acquisito per imprinting dall'ambiente culturale che genera odio, violenza, caos, disordine. L'unico modo per riottenere la nostra natura solidale e cooperativa è l'anarchia. L'anarchia è il sistema di organizzazione sociale entro cui gli esseri umani hanno vissuto per centinaia di migliaia di anni, senza conoscere conflitti. Il sistema statale ha solo 3000 anni, e da quando è stato imposto (con la forza e con l'inganno) gli esseri umani e il loro ambiente non hanno mai conosciuto pace, ordine, giustizia, libertà.


lunedì 17 agosto 2020

17 agosto 1944: l'assalto al treno e la Resistenza novarese

L'estate 1944 è nel nord Italia una stagione di grandi offensive partigiane, è la stagione delle zone libere, della controffensiva e dell'intensificarsi dell'operazione di guerriglia. 

Nella città di Novara numerosissime sono le azioni di sabotaggio che si susseguono, notte dopo notte, e che esasperano sempre più gli occupanti tedeschi ed i loro scagnozzi repubblichini.

La sera del 17 agosto, alle 23.15, una cinquantina di partigiani al comando del comandante Jean Taglioretti, del distaccamento Renato Topini della Brigata Osella, intraprendono un'azione di sabotaggio, partendo dalla stazione di Romagnano Sesia. Gli antifascisti, messo fuori uso l'impianto telegrafico della stazione, salgono sul treno 1302, composto dalla locomotiva e due vagoni, e si dirigono verso Novara.

Ad ogni stazione del percorso bloccano il telegrafo, lasciando un piantone di guardia, con l'intenzione di recuperarlo al ritorno.

Il treno giunge alla stazione di Novara alle 00.40, dove è in corso lo sgombero a causa di un allarme aereo: con il favore delle tenebre, i partigiani irrompono negli uffici ferroviari, e dopo un breve conflitto a fuoco immobilizzano tredici uomini del personale e un vigile del fuoco, e prelevano sei repubblichini e un sottufficiale tedesco.

In pochi minuti i partigiani caricano i prigionieri sul treno e ripartono verso Ghemme, dove però, a causa del grande trambusto dovuto a un rastrellamento delle Fiamme Nere avvenuto quella stessa mattina, gli ostaggi riescono tutti a fuggire e a fare ritorno ai propri Comandi.

I partigiani, trovato rifugio in alcuni magazzini degli attrezzi agricoli tra le vigne di Ghemme, vengono svegliati la mattina dopo da un accerchiamento di tedeschi e intrapreso un conflitto a fuoco, riescono a fuggire, ma tre garibaldini restano a terra.

Una settimana dopo, il 24 agosto, viene messa in atto una nuova operazione di sabotaggio, denominata "i due ponti", con cui i partigiani intendono bloccare i movimenti dei treni blindati nemici sulla direttiva Omegna-Varallo Sesia- Novara. Il compito dei sessanta garibaldini è difficile, ma viene espletato con successo: i due ponti e la strategica cabina di smistamento saltano senza provocare vittime.

La reazione delle forze nazifasciste non si farà attendere: alcuni giorni dopo, un rastrellamento interesserà tutta la zona fino a Romagnano Sesia.

Tredici giovani disertori, che avevano ignorato l'ordine di arruolarsi nelle fila di Salò, che da alcuni giorni erano prigionieri nelle Carceri di Novara al Castello, faranno da capro espiatorio per la ritorsione fascista.

La mattina del 26 agosto i tredici vengono portati nel comune di Vignale e fucilati davanti alla popolazione, costretta a presenziare all'eccidio.

Le vittime, quasi tutte diciottenni, sono: Giovanni e Natale Diotti, Fausto Gatti, Renato Crestanini, Erminio Sala, Secondo Passera, Iginio Mancini, Orione e Spartaco Berto, Antonio Denti, Pietro Molinari, Giuseppe Schiorlini e Angelo Saini.

venerdì 14 agosto 2020

Libertà e rivoluzione

L'obiettivo della rivoluzione è l'estirpazione del principio di autorità, comunque esso si manifesti, sia esso religioso, metafisico e dottrinario alla maniera borghese, o perfino rivoluzionario alla maniera giacobina, perché non ci interessa che l'autorità si chiami Chiesa, monarchia, Stato costituzionale, repubblica borghese, oppure dittatura rivoluzionaria.

La rivoluzione ha come scopo la radicale dissoluzione di tutte le organizzazioni, e istituzioni religiose, politiche, economiche attualmente esistenti, in modo tale che non rimanga pietra su pietra, in Europa e nel resto del mondo, del presente ordine di cose fondato sulla proprietà, sullo sfruttamento e sul dominio.

Noi intendiamo la rivoluzione come un rivolgimento radicale, come la sostituzione di tutte senza eccezione le forme della vita europea contemporanea con altre nuove, completamente opposte.

Noi vogliamo distruggere tutti gli Stati e tutte le Chiese, con tutte le loro istituzioni e le loro leggi religiose, politiche, finanziarie, giuridiche, poliziesche, educative, economiche e sociali, cosicché milioni di esseri umani ingannati, tenuti in servitù, torturati, sfruttati, possano respirare in completa libertà.

Ponendo l'esclusione assoluta di ogni principio di autorità e di ragione di Stato, noi miriamo per conseguenza alla abolizione delle classi, dei ceti, dei privilegi e di ogni specie di distinzione» e quindi, ancora una volta, all'abolizione,alla dissoluzione e alla bancarotta morale, politica, burocratica e giuridica dello Stato tutelare, trascendente, centralista, doppione e alter ego della Chiesa.

martedì 11 agosto 2020

Etica e scienza nell’anarchismo di Malatesta

L'anarchia, «è un'aspirazione umana, che non è fondata sopra nessuna vera o supposta necessità naturale, e che potrà realizzarsi secondo la volontà umana». Questa «aspirazione umana» si pone oltre ogni valenza razionale e teoretica perché deriva da «un sentimento, che è la molla motrice di tutti i sinceri riformatori sociali, e senza del quale il nostro anarchismo sarebbe una menzogna o un non senso. Questo sentimento è l'amore degli uomini, è il fatto di soffrire delle sofferenze altrui».

«Per spirito anarchico intendo quel sentimento largamente umano che aspira al bene di tutti, alla libertà ed alla giustizia per tutti, alla solidarietà ed all'amore fra tutti».

Detto in altri termini, l'anarchismo è prima di tutto un'etica che va al di là di ogni spiegazione razionale perché «è nato dalla rivolta morale contro le ingiustizie sociali». In quanto aspirazione umana verso la libertà universale, si pone oltre la necessità naturale, come ogni altra necessità storica o scientifica. L'anarchia infatti è una costruzione culturale e il concetto di libertà ne è la massima espressione, nel senso che testimonia la valenza tutta precaria e volontaria di tale conquista: «la libertà non si conquista e non si conserva se non attraverso lotte faticose e sacrifici crudeli, la libertà piena e completa è certamente la conquista essenziale, perché è la consacrazione della dignità umana».

In questo concetto di libertà come conquista, Malatesta rivela una visione dicotomica tra natura e cultura. La natura non è un luogo di armonia, bensì per molti versi un elemento ostile all'uomo, per cui questi è tanto più libero quanto più riesce a piegare le avversità esterne che lo circondano. Tale idea rivela il senso perfettamente anarchico della libertà come termine ultimo della storia. Infatti, l'uomo liberato dal principio di autorità, cioè l'uomo anarchico, «sta al culmine, non all' origine dell' evoluzione umana».

«Tutta la vita specificamente umana è lotta contro la natura esteriore, ed ogni progresso è adattamento, è superamento di una legge naturale.

Il concetto della libertà per tutti, che implica necessariamente il precetto che la libertà dell'uno è limitata dalla eguale libertà dell'altro, è concetto umano; è conquista, è vittoria, forse la più importante di tutte, dell'umanità contro la natura».