..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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domenica 30 aprile 2017

1° Maggio 2017: ricordiamo i martiri di Chicago

“Raccogliamoci, noi demolitori, noi gl’incendiari del Vecchio mondo pestilente.
Prima uno, poi otto .... quelli di Chicago, quindi molti ..... Sono sementa che come grano, fecondato col fumo, e che non aspetta molto tempo per dare i suoi frutti.
Riuniamoci; essi. dall'alto della loro forca
hanno aperto l’orizzonte della nuova era anarchica. Celebriamo l’anniversario di questi morti gloriosi. Colui che combatte per la libertà, salva i molti, coloro che muoiono per essa aprono una breccia nel cuore della vecchia e maledetta bastiglia.
 Le parole servono a poco, i fatti soltanto danno consistenza! Chi è capace di raggiungere la gloria di questi martiri della giustizia borghese?
Tutto il nostro amore verso l’umanità. Torna odio per l’oppressione; l'odio soltanto è abbastanza potente per calmarla; odio a tutto ciò che è sommissione per gli uomini, che gli rende istrumenti di macello. o immensità di dolori e di miserie.
Si, celebriamo la loro morte! La morte apre il cammino. É semenza pei giorni tumultuosi che attraversiamo.
L’ora delle battaglie eroiche è giunta. Salute ai giustizieri! Salute ai martiri!
Noialtri che tanto bene comprendiamo cos’è giustizia egualitaria, che domandiamo il benessere di tutti, dobbiamo mantener vivo e nutrito il fuoco delle battaglie contro la società capitalista.
ed essa. si sfascerà il giorno tanto desiderato che sarà chiamata a rendere i conti; ed allora l’umanità sarà libera.
In quel momento nessuna defezione codarda avvenga, nessuna vendetta personale, come nessuna oscillazione o debolezza nella lotta; e vedremo spuntar l'alba della redenzione di tutti gli oppressi”.
Louis Michel.


È curioso il fatto che il Primo Maggio sia la festa del lavoro? No, non è curioso, è terribilmente normale, anzi, normalizzato, mutato a tarallucci e vino, trasformato in qualcosa di completamente diverso. Lo stato è abilissimo a voltare le frittate a proprio vantaggio. Un'istanza eminentemente anarchica che passa attraverso i violenti filtri del sistema può avere vari destini: rimanere nascosta, essere presentata con un volto violento, oppure diventare strumento dell'autoreferenza padronale. Per il Primo Maggio non è bastato un solo filtro, tutte e tre le strategie di filtraggio sono state applicate, e ciò che ne è uscito fuori è un falso ideologico pro-patria, un teatrino, una festa-fiera appunto.
Il martirio degli anarchici di Chicago è stato confinato nella sezione censura (primo filtro) o relegato nelle stanze degli addetti ai lavori, dove si rinchiudono anche le vicende legate alle lotte operaie, abilmente criminalizzate tutte le volte che sono state portate avanti dagli anarchici (secondo filtro), come in questo caso, negli USA del XIX secolo. Condannati a morte perché anarchici e animatori delle lotte per le otto ore, gli anarchici di Chicago oggi sono diventati cantanti in piazza. Ma ciò che sfugge di più è la logica originaria delle cose: a Chicago, come a New York e in altre città, quella degli operai non era stata una lotta per il lavoro, ma contro il lavoro, contro lo sfruttamento, contro il ricatto padronale, contro l'ingiustizia del sistema schiavista. E queste cose sono ben lungi dall'essere state abolite, al contrario, il regime continua a propagare il suo verbo biforcuto attraverso una ricorrenza festosa che inneggia al lavoro salariato, allo schiavismo, allo sfruttamento padronale, complici i sindacati che fingono e fungono da cuscinetto ammortizzatore e sfogatoi.
Se in origine l'abbassamento dell'orario lavorativo rappresentava il primo passo verso la progressiva liberazione dalle catene, oggi il regime fa l'apologia di quelle catene spacciandole per libertà e diritto. Tutti contenti, è festa. Ma gli anarchici non dimenticano questi uomini condannati a morte in un processo farsa, ma neppure le 600 donne in sciopero, e gli altri 50 mila lavoratori, e i 25 mila convenuti all'assemblea della Central Labor Union, tutti uniti per cominciare a prendersi qualche ora di libertà dalla schiavitù del lavoro. Ci sono riusciti, ma ci avevano anche detto 'ora continuate voi, finché a queste barbare catene non verranno sostituite da un sistema umano e libero di vivere e di operare'. Questo ci avevano detto. Invece qualcuno ha voluto che queste catene vengano oggi festeggiate. Noi non festeggiamo e continuiamo a lottare per l'emancipazione dalla schiavitù. Domani è il 1° maggio … ricordiamo i martiri di Chicago!

Verso un 1° maggio di lotta - Un manifesto al giorno - 8


giovedì 27 aprile 2017

Se la sicurezza diventa decoro…

Le nuove leggi sulla “sicurezza” del governo scrivono un nuovo capitolo della guerra ai poveri.
Hai perso la casa, vivi in strada, ti arrangi con qualche lavoretto? Cerchi riparo alla stazione, ti siedi sulle panche, ti infili nella sala d’aspetto di un ospedale? Il sindaco e il prefetto possono multarti e cacciarti dal tuo quartiere, dalla tua città, dall’angolo dove dormi, perché sei un problema per il “decoro” cittadino.
Chi si arricchisce sfruttando il lavoro altrui è invece un lustro per la città.
Nelle nostre periferie tanti non ce la fanno a pagare il fitto e il mutuo e finiscono in strada. A Torino si moltiplicano gli sfratti, mentre ci sono migliaia di appartamenti vuoti.
Chi occupa, oltre alle solite denunce, verrà allontanato dal proprio quartiere o dalla propria città.
Per il governo chi occupa una casa vuota offende il decoro, i proprietari che affittano a prezzi altissimi sono invece bravi cittadini.
Scrivi la tua su un muro? Oltre a denunce e galera potresti avere il Daspo dal tuo quartiere. Chi suona la musica di padroni e governanti in giornali, radio e tv, è invece uno stimato e ben pagato professionista.
L’intento è chiaro: la città deve diventare una vetrina lustra per i grandi eventi, i poveri vanno mandati via, nascosti alla vista, messi sotto ricatto.
Il governo colpisce i poveri e tutti quelli che lottano perché teme che possano ribellarsi, alzare la testa per farla finita con chi sfrutta e comanda.
Contro Stato e padroni azione diretta e autogestione!

Verso un 1° maggio di lotta - Un manifesto al giorno - 5


mercoledì 26 aprile 2017

Ilio Baroni

Ilio Baroni è stato un operaio anarchico e un partigiano. Nonostante il Partito Comunista e i suoi accoliti lo abbiano spesso definito comunista, in realtà Ilio Baroni fu un militante del movimento anarchico torinese.
Emigrato con la sua famiglia a Piombino, nel primo dopoguerra fa le sue prime esperienze politiche militando nel movimento anarchico e nel 144° battaglione degli "Arditi del Popolo" contro il fascismo nascente. Nel giugno 1925 si trasferisce a Torino per sfuggire alla repressione e va ad abitare nel quartiere Madonna di Campagna, per passare poi in via Desana.
Assunto come operaio alla Fiat Ferriere, mantiene stabili contatti specialmente con i compagni detenuti. Costantemente sorvegliato dalla polizia per la sua attività politica, nell'estate del 1936, a seguito dello scoppio della guerra civile spagnola, lascia la penisola insieme ad altri compagni per aggregarsi ai repubblicani spagnoli ma tutti vengono fermati alla frontiera dalla gendarmeria francese e rimpatriati in Italia. Rientrato a Torino, installa un'antenna clandestina che gli ha permette di ascoltare radio Barcellona e seguire direttamente gli sviluppi della guerra rivoluzionaria. Quando era nuovamente pronto a dirigersi verso la Spagna, gli eventi delmaggio 1937 e l'omicidio degli anarchici per mano degli stalinisti spagnoli gli fecero cambiare idea. Nel dicembre del 1937 viene arrestato a Torino e nel giugno seguente viene condannato a cinque anni di confino nell'isola di Tremiti per attività di propaganda antifascista ed anarchica.
Tornato in libertà il 6 dicembre 1942, riprende il lavoro alle Ferriere e diviene autorevole membro del Comitato di Agitazione torinese, contribuendo al successo degli scioperi nelle fabbriche del 1943-1944. Dopo l'occupazione della città da parte delle truppe tedesche, aderisce immediatamente alla resistenza prendendo il comando della 7ª brigata Squadre d'Azione Patriottica (SAP) "De Angeli" con il nome di battaglia di "Moro" (Nelle SAP militavano partigiani provenienti da diverse realtà politiche. Esse si proponevano l'obiettivo di difendere le industrie, sabotare la produzione fascista e rafforzare la coscienza antifascista con la propaganda.). Dal mese dell'ottobre 1944 é uno dei primi sottoscrittori del giornale «Nuova Era» - a cura di Fioravanti Meniconi, Dante Armanetti, Antonio Garin e Italo Garinei i cui primi tre numeri saranno distribuiti nelle fabbriche torinesi.
Il 26 aprile Baroni e i suoi attaccano la stazione Dora con successo, ma quando giunge una richiesta di aiuto dalla Grandi Motori, dove infuriava una battaglia tra partigiani e nazi-fascisti in fuga, egli non esita a fornire nuovamente il suo appoggio cadendo sotto il fuoco tedesco. Il giorno dopo la città sarà completamente liberata dai fascisti.
«Baroni sa di rischiare tutto, ma come nel passato mette a repentaglio la sua vita per proteggere quella degli altri. Ecco Baritono che cerca di recuperare l'automezzo del suo distaccamento; Baroni è ora completamente allo scoperto e lo protegge, ma una raffica colpisce in pieno Baritono; Baroni continua a sparare, poi, d'un tratto, tutto tace; la sua arma non canta più; Baroni è morto; si è accasciato sulla sua arma; è caduto da eroe. (Fabbri).»

martedì 25 aprile 2017

Per una vera liberazione

Il mio auspicio è per un 25 aprile ogni giorno, non nella sterile celebrazione, ma nella prospettiva concreta di un vero cambiamento.
Molta gente crede nei meravigliosi valori della libertà, della giustizia sociale, nella pace, nella fratellanza, nella solidarietà... insomma, in un'etica di vita armonica che sta alla base della natura. È un peccato vedere la stessa gente contraddire i principi in cui crede mentre abbraccia quelli di un partito o di un'ideologia fondata sull'ordine gerarchico, sui capi e sui sottoposti. Appoggiare le teorie ancorché umane ma proposte da un partito, che essendo tale ha solo mire sistemiche di sfruttamento, vuol dire disertare i valori di cui sopra, è gioco-forza.
Ogni struttura piramidale è autoritaria e rinnega quei valori. Li rinnega nei fatti. Il partito è di per sé un concetto divisionista che si fa concreto, spacca, divide, crea inevitabilmente dissidio, competizione, discriminazione interna ed esterna, e stimola le menti a ragionare dogmaticamente, ad adattarsi nel campo delimitato a posteriori dal padrone, il quale non desidera altro che avere uno stuolo di seguaci per essere portato a spalla fin dentro il cuore del sistema. Allora i leaders giocano di demagogia, ed è un gioco sporco, alle loro belle parole dottrinali non fanno mai seguito le azioni, il sistema non può mai essere dispensatore di pace, di giustizia, di libertà, perché proprio questi valori il sistema li ruba al popolo, sono il suo cibo. Chiunque crede nei savi valori umani dovrebbe anzitutto evitare di consegnarli al sistema, al partito, al leader, a una qualsivoglia gerarchia.
Per concretizzare davvero le belle parole e i principi di giustizia, la pratica dev'essere antiautoritaria, deve essere libertaria, egualitaria, orizzontale, non gerarchica. E infatti l'anarchia è rimasta la vera e unica forza popolare che mette in pratica quei valori in cui molta gente crede, lo fa nonostante tutti i bastoni tra le ruote, come potete immaginare. Ma poiché il sistema ha fatto in modo di divulgare sciocchezze in merito all'anarchia, nascondendone a tutti il pensiero e la pratica, il suo autentico impulso umano, la gente se ne tiene a ragguardevole distanza, inebriandosi così di informazioni di regime, di partito, di regole imposte dall'alto che portano inevitabilmente a sciogliere nell'acido del sistema ogni principio di libertà, di giustizia, di pace, di fratellanza. P
Le parole stanno sempre a zero, anche queste, l'unica cosa è sperimentare, scoprire, avere il gusto e la gioia della curiosità per capire le cose, ma per fare questo c'è solo una cosa da fare in prima istanza: essere disposti a ragionare con la propria testa, senza rimanere legati ai pregiudizi, alle dicerie, alle convinzioni, o a un disdicevole “cosa dice il capo?”. Bisognerebbe essere disposti ad accogliere altri elementi cognitivi per poter affrontare una scelta che sia davvero tale e consapevole. Porre dubbi. La questione non è tanto avere simpatia verso nuove idee, quanto sapersi staccare da quelle vecchie. Allora direi davvero che non può esserci liberazione se non ci liberiamo anzitutto dai soliti schemi e dai modelli imposti, che sono tutti automatismi mentali che rigenerano all'infinito l'esistente. Questo è il mio auspicio, che sarà sicuramente disatteso, ma ho sentito il desiderio di raccontarvelo lo stesso.

lunedì 24 aprile 2017

Liberi da chi e da cosa?

Ci siamo quasi. Le alte cariche dello stato si stanno preparando per riempirsi le bocche in pompa magna con le parole resistenza e democrazia. TV e giornali a caratteri cubitali parleranno delle eroiche gesta dei tempi che furono, le alte cariche dello stato in doppio petto e tailleur si presenteranno alle varie cerimonie solenni organizzate in tutto il paese, mani dietro la schiena e capo chino per ricordare chi ha lottato per la libertà, pronunceranno belle parole, ci parleranno di democrazia e faranno sicuramente qualche riferimento alla costituzione,la migliore del mondo come è stato detto e ribadito più volte. Ma questa democrazia è forse mai esistita? Certo che si, è proprio quella che stiamo subendo da allora, in maniera più viscida e subdola, prima si chiamava fascismo e oggi si chiama democrazia, basti solo pensare a quelle persone che fino alla vigilia del 25 aprile indossavano la camicia nera e dal giorno dopo l’hanno riposta per indossare quella rossa, ma non solo, grazie all’amnistia di Palmiro Togliatti la quale riabilitò oltre cento prefetti su 115. Ma di quale libertà, di quale costituzione, ma di quale democrazia stiamo parlando. É proprio grazie a quella democrazia che il fascismo ha potuto proseguire sotto spoglie meschine e subdole, basta pensare che esistono ancora leggi in vigore risalenti agli anni 30 ed applicate nei confronti di chi cerca di resistere oggi, come le pene pecuniarie e detentive per chi pratica il dissenso, come i fogli di via, come i reati di devastazione e saccheggio, come l’adunata sediziosa e molti altri reati contestati a chi dissente da un regime autoritario che non ha niente a che vedere con la parola democrazia. Proprio una bella parola, ma come suona bene; come suonano altrettanto bene  uguaglianza e parità di diritti; quando queste vengono pronunciate il popolo si scioglie, va in brodo di giuggiole, ignaro del fatto che l’illusione della democrazia gli viene proposta continuamente per richiamarlo al voto e perpetuare questa situazione tragicomica all’infinito. Ripartiamo dalle scuole, è da li che lo stato inizia il suo processo di fascistizzazione.
25 aprile: liberi quindi da chi e da che cosa?

sabato 22 aprile 2017

Un modello d'apprendimento quotidiano della libertà

A distanza di un secolo resta ancora intatta la freschezza che animava il percorso di sperimentazione seguito da Pouget, il tentativo di uscire da una stagione di sconfitta cercando linguaggi e strategie nuove che rinnovassero la capacità di fare fronte alle nuove modalità del conflitto capitalistico insieme ad una nuova abilità nel costruire consenso attorno alle proprie battaglie. In un'epoca, come quella attuale, in cui l'attenzione ossessiva riposta sui mezzi di lotta sembra voler sopperire alla debolezza di contenuti e prospettive sui fini, ritrovare questa memoria e recuperarne la fantasia può aiutare ad uscire dalla maledizione di un dibattito che ha trasformato la scelta dei metodi di lotta in un paralizzante dilemma ideologico attorno al quale definire la propria identità. L'attuale precarizzazione e individualizzazione delle condizioni e dei rapporti di lavoro ha notevolmente accentuato la pressione sui lavoratori. Mentre la contrattazione collettiva subisce un ridimensionamento sempre maggiore, i nuovi modelli di management sviluppano politiche di coinvolgimento totale e d'implicazione intima dell'individuo nel processo lavorativo, Alla disciplina militare del taylorismo si sostituisce la «valorizzazione della personalità» e la mobilitazione del «saper essere» del dipendente. Un discorso sulla supposta autonomia dell'individuo e sull'investimento nelle risorse umane che riposa, in realtà, sulla introiezione dei vincoli e degli obblighi che gravano sul lavoratore, fino ad arrivare ad una vera e propria colonizzazione padronale del suo cervello.
Sabotare, allora, può voler dire innanzitutto cominciare a non pensarla più così, a non lasciarsi implicare dai linguaggi suadenti e truffaldini della nuova etica del capitale, scopiazzati da filosofie critiche che egli ha saputo intelligentemente integrare. Sabotare vuol dire rilanciare una cultura conflittuale e antagonista che possa agire come modello d'apprendimento quotidiano della libertà, a partire innanzitutto dai luoghi di lavoro. Infatti, se c'è un limite fino ad ora espresso dalla cultura della disobbedienza in uso nei movimenti, esso riguarda innanzitutto la sua eccessiva estraneità dai posti di lavoro, quasi che sia stata integrata una sorta d'intangibilità della estrazione di plusvalore unicamente a vantaggio del consumo rivolto nei confronti di marche multinazionali.

giovedì 20 aprile 2017

Teresa di Calcutta

Per cominciare, Madre Teresa di Calcutta (1910-1997) non era madre, non si chiamava Teresa e non era originaria di Calcutta. la “santa” era albanese e portava l’impronunciabile nome di Anjëzë Gonxhe Bojaxhiu è passata alla storia per le sue pretese “opere di bene”, talmente sublimi che nel 1979 ha ricevuto il Nobel per la pace e nel 2003 il “produttore di santi” Giovanni Paolo II l’ha fatta beata e ora Papa Francesco la fa santa. Come spesso avviene nell’universo cattolico, tuttavia, è sufficiente grattare un po’ alla superficie e rimuovere la debole patina del mito per scoprire che certe “verità” sono sempre relative.
Dalle ricerche (Hitchens), emerge con forza l’immagine di un’opportunista, che negli anni seppe costruire e sfruttare un’immagine di santa e benefattrice per raccogliere fondi finalizzati alla diffusione di un’ideologia religiosa intollerante, grazie al costante appoggio di certi partiti di destra, come i teocon statunitensi, del dittatore haitiano Jean-Claude Duvalier (dal quale accettò onorificenze e denaro) e del banchiere statunitense (nonché pregiudicato) Charles Keating.
Questa vasta operazione fu degnamente supportata dalla manipolazione mediatica messa in atto a favore di madre Teresa e grazie alla quale ella poté propagandare in ogni angolo del mondo le sue idee etico-religiose, che, come moltissima gente non sa, prevedevano un secco “no” all’aborto, alla contraccezione, al divorzio e ai rapporti pre-matrimoniali. Per contro, la “santa” si dichiarò sempre convinta del potere salvifico della sofferenza umana (ben inteso solo di talune parti dell'umanità) per l’espiazione dei peccati (Hitchens); l’angelica santona è stata strumento nelle mani della chiesa per il perseguimento dei suoi obiettivi politici e teologici: in altre parole, una di quelle colossali operazioni di marketing alle quali il Vaticano ci ha abituati da anni (almeno, per chi abbia l’occhio abbastanza attento da accorgersene).
In sintesi, la buona donna utilizzò i contributi in denaro (che, assai cattolicamente, non disdegnava affatto) per aprire conventi, più che ospedali, quantunque le donazioni fossero state elargite a questo secondo scopo. Quanto al suo “amore per i poveri”, madre Teresa si oppose a “misure strutturali" per porre fine alla povertà, in particolare quella che avrebbe elevato la condizione sociale e culturale delle donne. Non a caso, in una conferenza stampa del 1981, alla domanda se insegnasse ai poveri ad accettare il proprio destino, rispose: Penso che il mondo tragga molto giovamento dalla sofferenza della povera gente...
Madre Teresa consolava e sosteneva i ricchi ed i potenti, permettendo loro ogni sorta di lassismo, mentre predicava l’obbedienza e la rassegnazione ai poveri.
Le cure mediche fornite negli ospedali di madre Teresa furono a dir poco costantemente inadeguate, più volte riviste scientifiche parlarono di riutilizzo degli aghi delle siringhe, di pessime condizioni igieniche, di cattive condizioni di vita, di terapie approssimative, di esaltazione della sofferenza e di una constante rinuncia a vere diagnosi sistematiche.

lunedì 17 aprile 2017

L'omicidio di Tonino Micciché

17 aprile 1975, ore 19 , quartiere operaio della periferia nord di Torino. Un gruppo di compagni e compagne del comitato di lotta per la casa della Falchera sta sistemando la sua nuova sede appena liberata. Tra loro c'è Tonino Micciché, 25 anni, emigrato siciliano, ex operaio Fiat licenziato per motivi politici. Un uomo col soprabito si avvicina al gruppo. Cammina tranquillo. Quando si trova a un metro da Tonino estrae una calibro 7.65, di quelle in dotazione alle guardie giurate, e spara. Dritto in fronte: Tonino muore all'istante.
Emigrare al nord per trovare lavoro significa rinunciare alla propria terra, alla vicinanza degli affetti, alla casa. Perché i grandi industriali del Piemonte si sono scordati, nei loro piani di produzione, di pensare che quelle migliaia di operai che risalgono la penisola, abbiano anche bisogno di un tetto sotto il quale passare le poche ore che separano un turno dal successivo. Così nascono le speculazioni. Il centro storico è pieno di soffitte in cui i letti vengono condivisi da tre o più persone, "che quando arrivi per coricarti devi svegliare il compagno che ti liberi il posto". La risposta della Fiat all'emergenza abitativa sarebbe quella di sistemare le maestranze in vecchi stabilimenti della cintura torinese isolati dalle città, che vengono pubblicizzati come "fiore all'occhiello, con tutti i comfort, con attorno giardini verdi, dove i buoni operai [potrebbero] rigenerarsi dalle fatiche della catena di montaggio e liberare il corpo e lo spirito al contatto con la natura". Addirittura Cgil, Cisl e Uil si oppongono a quelli che definiscono "villaggi di concentrazione".
Le case popolari esistono, e formano veri e propri ghetti fuori dalle "mura" della Torino bene. Sono stati fatti costruire interi quartieri dormitorio alla periferia estrema della città, e alla Falchera e Mirafiori lo IACP (Istituto Autonomo Case Popolari) inizia ad edificare nuovi lotti per un totale di 20.000 abitanti. Le pratiche per l'assegnazione sono lente e sempre più famiglie si trovano strette nella morsa di affitti esorbitanti e alloggi fatiscenti.
Da queste premesse iniziano le occupazioni, che se nascono in modo molto spontaneo, non tardano a convergere in percorsi politici di appositi comitati di quartiere. Alla Falchera, quartiere costruito negli anni '50 in barriera di milano, si assiste al fenomeno più ampio. Centinaia e centinaia di famiglie arrivano da tutta la città e si organizzano per occupare e amministrare le case non ancora assegnate. La risposta istituzionale non si fa attendere. Immediatamente lo IACP riprende a piena lena le assegnazioni degli alloggi, in modo da mettere assegnatari e occupanti gli uni contro gli altri. Dal canto loro i giornali iniziano subito a spendersi per dipingere il fenomeno come parte della tanto comoda "guerra tra poveri".
Nel comitato di occupazione della Falchera, Tonino Micciché diventa presto una figura tra le più importanti: è lui che va a parlare con le istituzioni quando è necessario, ed è lui che spesso si prende la briga di assegnare gli alloggi alle nuove famiglie di occupanti. È lui che viene eletto dai suoi compagni "il sindaco della Falchera". Il motivo del suo omicidio va ricercato nel clima di tensione che l'IACP ha tentato di creare tra occupanti e assegnatari.
Nonostante la maggior parte degli assegnatari condivida con gli altri le esperienze di lotta e la militanza nei comitati, restano comunque alcuni, pochi, che dal loro status di "privilegati" vogliono trarre il massimo. Tra questi ultimi anche Paolo Fiocco, guardia giurata iscritta alla CISNAL, che si è preso un box auto in più oltre a quello già assegnatogli dall'Istituto. In quel box il comitato per la casa vorrebbe fare le sue riunioni, e non valendo a nulla le richieste di liberarlo fatte a Fiocco, decide di prenderselo quel 17 aprile 1975.

sabato 15 aprile 2017

Un'insurrezione

Un'insurrezione, non vediamo nemmeno più da dove possa iniziare. Sessant’anni di pacificazione sociale, di sospensione di tutti i ribaltamenti storici, sessant’anni di anestesia democratica e di gestione degli eventi hanno indebolito in noi una certa percezione sconnessa del reale, il senso partigiano della guerra in corso. È questa percezione che bisogna ritrovare, tanto per cominciare. Non c’è da indignarsi che si applichi ormai da tempo una legge notoriamente anticostituzionale come quella sulla Sicurezza quotidiana. È vano protestare legalmente contro l’implosione compiuta del quadro legale. Bisogna organizzarsi di conseguenza. Non c’è da impegnarsi in tale o tal’altro collettivo di cittadini, in quella o quell’altra impasse di estrema sinistra, nell’ultima impostura associativa. Tutte le organizzazioni che pretendono di contestare l’ordine presente hanno loro stesse, in versione più posticcia, la forma, i costumi e i linguaggi di Stati miniaturizzati. Tutte le velleità difare politica alternativa non hanno mai contribuito,sino ad oggi, che all’estensione indefinita dei presupposti statali. Non c’è più da reagire alle novità del giorno, ma comprendere che ogni informazione è un operazione in un terreno ostile di strategie da decifrare nell’informazione apparente. Non c’è più da attendere: un fulmine, la rivoluzione, l’apocalisse nucleare o un movimento sociale. Aspettare ancora è una follia. La catastrofe non è quella che arriva, è quella in corso. Noi siamo situati, d’ora innanzi, dentro il moto di inabissamento di una civiltà. È qui che bisogna prendere parte. Il non attendere, significa in un modo o nell’altro, entrare nella logica insurrezionale. Tutti gli atti di governo non sono null’altro che un modo di non perdere il controllo della popolazione. Noi partiamo da un punto di estremo isolamento, di estrema impotenza. Tutto è da costruire in un processo rivoluzionario. Niente sembra meno probabile di un insurrezione, ma niente è più necessario.

mercoledì 12 aprile 2017

Che cos’è un uomo in rivolta?

Che cos’è un uomo in rivolta? Un uomo che dice no. Ma se rifiuta, non rinuncia tuttavia: è anche un uomo che dice di sì, fin dal suo primo muoversi. Uno schiavo che in tutta la sua vita ha ricevuto ordini, giudica ad un tratto inaccettabile un nuovo comando. Qual è il contenuto di questo “no”?
Significa, per esempio, “le cose hanno durato troppo fin qui sì, al di là no”, “vai troppo in là” e anche “c’è un limite oltre il quale non andrai". Insomma, questo no afferma l’esistenza di una frontiera. Si ritrova la stessa idea di limite nell’impressione dell’uomo in rivolta che l’altro “esageri”, che estenda il suo diritto al di là di un confine oltre il quale un altro diritto gli fa fronte e lo limita. Così, il movimento di rivolta poggia, ad un tempo, sul rifiuto categorico di un’intrusione giudicata intollerabile e sulla certezza confusa di un buon diritto, o più esattamente sull’impressione, nell’insorto, di avere “il diritto di…”.
Non esiste rivolta senza la sensazione d’avere in qualche modo, e da qualche parte, ragione. Appunto in questo lo schiavo in rivolta dice ad un tempo di sì e di no. Egli afferma, insieme alla frontiera, tutto ciò che avverte e vuol preservare al di qua della frontiera. Dimostra, con caparbietà, che c’è in lui qualche cosa per cui “vale la pena di…”, qualche cosa che richiede attenzione. In certo modo, oppone all’ordine che l’opprime una specie di diritto a non essere oppresso al di là di quanto egli possa ammettere.
L’uomo in rivolta vuole essere tutto, identificarsi totalmente con quel bene di cui a un tratto ha preso coscienza e che vuole sia riconosciuto e salutato nella propria persona – o niente, vale a dire trovarsi definitivamente scaduto per opera della forza che lo domina. Al limite, accetta quella estrema caduta che è la morte, se dev’essere privo di quella consacrazione esclusiva che chiamerà, per esempio, la propria libertà.
Piuttosto morire in piedi che vivere in ginocchio.

domenica 9 aprile 2017

Non è facile

Non è facile invecchiare con garbo.
Bisogna accertarsi della nuova carne, di nuova pelle,
di nuovi solchi, di nuovi nei.
Bisogna lasciarla andare via, la giovinezza, senza
mortificarla in una nuova età che non le appartiene,
occorre far la pace con il respiro più corto, con
la lentezza della rimessa in sesto dopo gli stravizi,
con le giunture, con le arterie, coi capelli bianchi all’improvviso,
che prendono il posto dei grilli per la testa.
Bisogna farsi nuovi ed amarsi in una nuova era,
reinventarsi, continuare ad essere curiosi, ridere
e spazzolarsi i denti per farli brillare come minuscole
cariche di polvere da sparo. Bisogna coltivare l’ironia,
ricordarsi di sbagliare strada, scegliere con cura gli altri umani,
allontanarsi dal sé, ritornarci, cantare, maledire i guru,
canzonare i paurosi, stare nudi con fierezza.
Invecchiare come si fosse vino, profumando e facendo
godere il palato, senza abituarlo agli sbadigli.
Bisogna camminare dritti, saper portare le catene,
parlare in altre lingue, detestarsi con parsimonia.
Non è facile invecchiare, ma l’alternativa sarebbe
stata di morire ed io ho ancora tante cose da imparare.

Cecilia Resio

venerdì 7 aprile 2017

Il popolo degli uomini

Nel 1804, quando la spedizione guidata dagli esploratori Lewis e Clark attraversò per la prima volta l’intero continente nordamericano dall’Atlantico al Pacifico, sul territorio che oggi chiamiamo Stati Uniti vivevano un milione di indigeni e galoppavano liberi almeno 50 milioni di bisonti.
Alla fine del secolo, quando il West fu vinto dagli emigrati europei, erano rimasti 1000 bisonti e 237.000 indiani. In 90 anni erano morti, in guerra o di malattia, il 75% degli indiani e quasi il 100% dei bisonti, che erano alla base della loro civiltà e della loro esistenza.
Fra le parentesi di questo doppio genocidio umano e animale sta la storia di una guerra e di un popolo: la storia della invasione europea del Nord America, dello sterminio dei Indiani delle Grandi Praterie del Nord.
Per noi figli del secolo successivo, del XX secolo, che abbiamo imparato a conoscere gli indiani nell'oscurità di una sala cinematografica o sulle pagine di fumetti sfogliati fino al disfacimento, l'immagine di quei popoli e dei loro capi è sempre stata violentemente distorta dalla fantasia commerciale dei registi e dei produttori di Hollywood. Dipinti prima come «ombre rosse», come primitivi urlanti e assetati del sangue dei pionieri, e poi, dopo gli anni Settanta, come vittime innocenti e mansuete della crudeltà imperialista dei bianchi, gli indiani sono intrappolati negli opposti stereotipi costruiti dalla cultura dei vincitori. Marionette, comparse, figurine di cartapesta plasmate e riplasmate secondo gli umori e le ideologie mutevoli del pubblico. Il Sioux buono di Balla coi lupi, o la principessina melensa di Pocahontas possono rispondere meglio alla nuova sensibilità, e ai nuovi rimorsi, di noi bianchi, ma sono in sostanza altrettanto falsi e distorti dei Sioux cattivi con le piume in testa e il tomahawk spacca cranio in pugno, impersonati da comparse messicane e raccontati dal cinema in bianco e nero di John Ford, Errol Flynn e John Wayne.
Nella nostra foga di demonizzare gli indiani prima, e di beatificarli poi per espiare le nostre colpe al modico prezzo di un biglietto di cinema, ci siamo dimenticati sempre di una verità tanto ovvia quanto fondamentale: che i Sioux, gli Cheyenne, i Corvi, gli Aràpaho, gli Apache, i Comanche, i Seminole e tutte le 500 nazioni indigene che popolavano il Nord America prima dell'arrivo di Colombo non erano né santi, né poeti, né scotennatori, né ecologisti ante litteram, ma esseri umani capaci di violenza e di tenerezza, di ingordigia e di generosità, di odio e di amore. Padri e madri, mogli e mariti, artigiani e cacciatori, guerrieri implacabili e fidanzatini timidi, secondo le circostanze conquistatori e conquistati, nell'implacabile ciclo della storia umana che non risparmia mai a nessun popolo la corona del martire e la spada del persecutore. Insomma erano semplicemente uomini.

mercoledì 5 aprile 2017

4 aprile 1968: L’assassinio di Martin Luter King

4 aprile 1968: un proietille calibro 30-60 sparato da un fucile di precisione colpisce alla testa il leader nero Martin Luther King, uccidendolo sul colpo.
Nella stanza dell'albergo Lorrain Motel di Menphis, Tenessee, veniva così ucciso uno dei leader storici del movimento contro la segregazione e per i diritti dei neri.
King ,attivista e pastore protestante, dedicò la sua intera vita alla causa dei diritti civili della popolazione di colorei. Rappresentò e fu di fatto la guida di tutta quella l'area del movimento nero che abbracciava il metodo della non violenza e del riformismo, che da sempre si era opposta al resto del movimento che si poneva l'obbiettivo di una rivoluzione armata per la liberazione del popolo afro-americano contro il razzismo.
Nonostante la sua apparteneza all'area più moderata e istituzionale del movimento, collaborò con le organizzazioni comuniste giovanili statunitensi, e con il resto del movimento afro-americano.
Di fatto king e tutta l'area pacifista rappresentarono e furono una sponda per le istituzioni bianche del governo degli Stati Uniti: l'appoggio dei Kennedy e dei riformisti bianchi consacravano l'appartenenza di king alla piccola borghesia nera e tutta qualla parte di afroamericani che non avevano interessi in un'insurrezione armata dei neri e delle altre minoranze.
Il rifiuto della violenza, contestualizzato nel movimento di quegli anni, fu uno strumento uitilizzato dai riformisti per arginare la lotta messa in atto dalla stragrande maggioranza dei neri. Infatti negli anni '50, '60 e '70 furono numerosissime le esperienze di difesa armata dei ghetti neri, di attacco ai commissariati e alla polizia, il saccheggio dei negozi dei bianchi e gli attacchi ai quartieri benstanti.
Criticare la scelta storica della nonviolenza da parte di King, vuol dire restituire la giusta dignità spesso rubata dal revisionismo storico, alla lotta dei rivoluzionari neri che si offrirono in prima persona per riscattare la loro gente da più di quattrocento anni di sfruttamento e violenze da parte della borghesia bianca statunitense.
Il governo americano, in particolare l'amministrazione Kennedy, sfruttarono King e l'area pacifista del movimento per controllare indirettamente il movimento insurrezionale nero.
Nei giorni seguiti all'assassinio il presidente degli Stati Uniti si appellò al buon senso delle persone di colore, perchè non fosse la violenza la risposta all'omicidio compiuto dal razzista James Earl Ray. Di tutta risposta il movimento afro rispose con duri scontri nei ghetti, assalti ai quartieri benestanti bianchi, e attacchi alla polizia.
La rielaborazione storica della figura di King è stata strumentale a far apparire tutta la lotta afro-americana come pacifica e fatta di marce e sit-in, per cercare di relegare l'uso diffuso dello scontro e della violenza ad un'area minoritaria e "deviata" del movimento.
Aldilà delle rivisitazioni di comodo di chi è rimasto di fatto al potere e della borghesia nera che negli anni si è integrata bene nel sistema capitalista e consumista degli USA, quello che è sicuro è che il movimento nero e l'insurrezione degli afroamericani sono stati attraversati da una potente scossa di violenza manifestatasi in varie forme, e molte volte capace di essere strumento fondamentale per la lotta.

domenica 2 aprile 2017

2 aprile 1973: blocco a Mirafiori

Nei primi anni settanta si era andata delineando all'interno degli stabilimenti Fiat di Torino una conflittualità tale da provocare la risposta della direzione che si sviluppò sopratutto su due punti, ristrutturazione e riconoscimento del ruolo dei delegati sindacali come mediatori.
Durante il marzo del '73 si diffuse in tutte le fabbriche del torinese la lotta, già iniziata nel novembre del '72, caratterizzata da parole d'ordine nuove e dal rifiuto consapevole del lavoro, diffuso principalmente tra i giovani operai, che per non essere riconosciuti e licenziati si coprivano il volto con i fazzoletti rossi.
Il 29 la Fiat Mirafiori venne occupata per tre giorni, il giorno successivo il blocco si estese al Lingotto, alla Bertone, alla Pininfarina, alla Spa Stura, alla Carello, alle Fonderie di Carmagnola, alla Sicam di Grugliasco.
Lunedì 2 aprile 1973 il blocco a Mirafiori e a Rivalta riprese con maggior sicurezza e organizzazione da parte degli operai che riuscirono anche a respingere i tentativi dei delegati del PCI che, con miserabili scuse, volevano forzare i blocchi per riprendere controllo di una situazione che gli era ormai sfuggita completamente di mano. Contemporaneamente, nelle zone di Gruglisco, gli operai delle fabbriche scendevano in strada in corteo organizzando diversi blocchi del traffico. Il giorno successivo in tutte le officine di Mirafiori ci furono assemblee in cui i delegati cercarono di far riprendere il lavoro senza però riuscire a fermare la lotta che durerà anche i giorni successivi.
Il 4 aprile, durante un'assemblea di massa alle carrozzerie di Mirafiori, mentre inizia ad essere discusso l'accordo proposto dai sindacati,venne posta un'altra questione da parte degli operai: il rientro dei compagni licenziati. Sopratutto su questo punto, nei giorni successivi, verteranno le richieste operaie.
Con la firma dell'accordo il 9 aprile la mobilitazione operaia scemò e la FIAT ne approfittò per continuare con la ristrutturazione e l'uso politico della cassa integrazione per fermare la conflittualità.