..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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martedì 28 luglio 2020

Uomo naturale e uomo economico


Tutto lascia supporre che un essere che viva secondo natura e non conosca altre frontiere se non i limiti della sua erranza, non si comporti affatto come un coltivatore, trasformato in produttore di ricchezze materiali e spirituali, condannato a restare al di qua del segnale, di un campo, di un villaggio, di una città, di uno Stato.
Il raccoglitore di piante e di selvaggina. che disponeva gratuitamente delle risorse naturali, non per un profitto calcolato, ma per il suo semplice godimento, presentava senza dubbio nelle sue abitudini, la sua mentalità o la sua composizione psico somatica pochi tratti comuni con il contadino obbligato a sfruttare una terra altrettanto ostile verso di lui di coloro che ne traevano profitto e titolo di proprietà. Eppure da questo contadino produttore, sfruttatore e sfruttato, hanno estratto l'essenza dell'uomo; a tal punto che al parossismo della libertà immaginativa, nelle loro utopie, opera poetiche romanzi , scienze chimeriche, non hanno mai - eccettuati La Boétie , Holderlin e Fourier - concepito una società che non sia incatenata alla guerra, al denaro, al potere.

giovedì 23 luglio 2020

Classe virtuale


La borghesia era una classe fortemente territorializzata, il cui potere si fondava sulla proprietà di beni fisici, e sul fatto di appartenere ad una comunità stabile. L'etica protestante era fondata sulla relazione di lungo periodo alla comunità religiosa dei lavoratori e dei consumatori che condividevano nel tempo lo stesso luogo di abitazione e lo stesso destino. Ma oggi la borghesia è scomparsa. Dalla deterritorializzazione emerge una post-borghesia che non ha relazione con il territorio né con la comunità, dal momento che domani può spostare il suo business in un luogo distante del mondo, e dal momento che il profitto ricavabile degli investimenti finanziari dipende da transazioni che si compiono nell'arco di nanosecondi, non di anni o di mesi. Possiamo chiamare questa classe la classe altrove, dal momento che essa sposta continuamente la posta del suo investimento. Ma possiamo anche chiamarla classe virtuale, per due ragioni. perché è la classe che accumula i suoi profitti grazie alla attività virtuali come il net trading, e alla rete della produzione immateriale ad alta tecnologia. Ma anche per una seconda ragione: si tratta di una classe che non esiste realmente, che non si può identificare perché coloro che investono nel mercato finanziario sono un pulviscolo vastissimo di piccoli azionisti, piccoli risparmiatori che attendono tutti un ritorno economico dai loro micro-investimenti perché tutti sono in qualche misura costretti a dipendere dall'investimento finanziario, anche se nella grande maggioranza saranno fregati.
La classe altrove ha ristabilito la logica economica del reintier, dato che il profitto non è più legato all'espansione della ricchezza esistente, ma è legato al mero possesso di un bene invisibile: il denaro, anzi il credito.
Il denaro si è dematerializzato. Un tempo gli ufficiali della Federal Reserve Bank di New York trasferivano lingotti d'oro su dei carrelli e li trasportavano da un caveau a un altro del paese. Oggi circa 1.3 trilioni di dollari sono trasferiti ogni giorno senza prendere forma tangibile. Il denaro divenuto etereo, volatile ed elettronico. Null'altro che un insieme di uni e di zero che corrono lungo migliaia di chilometri di fili, su autostrade di fibra ottica, spediti su dei satelliti e irraggiati da una stazione di microonde ad un'altra. Questo denaro è un'ombra. Non ha dimensione tattile, non ha massa né peso. È un immagine.

venerdì 17 luglio 2020

Riflessioni sul movimento operaio


Il movimento operaio del Novecento non è stato schiacciato dalla repressione fascista né corrotto dai transistor e dai frigoriferi, ma si è autodistrutto in quanto forza di cambiamento, poiché esso mirava a conservare la condizione proletaria piuttosto che a superarla. Il fine del movimento operaio era quello di impadronirsi del vecchio mondo e di gestirlo in modo nuovo: mettere gli improduttivi al lavoro, sviluppare la produzione, instaurare la democrazia operaia. Soltanto una piccola minoranza, «anarchica» o «marxista», affermava che una nuova società avrebbe dovuto implicare la distruzione dello Stato, della merce e del lavoro salariato, benché soltanto raramente abbia definito tale distruzione come un processo, rappresentandosela, piuttosto, come un programma da mettere in pratica attraverso la conquista del potere.
Come detto, la storia delle rivoluzioni operaie è stata una storia di fallimenti e di sconfitte; non solo nella misura in cui esse furono schiacciate dalla controrivoluzione capitalista, ma perché le loro stesse «vittorie» finirono per assumere i contorni della controrivoluzione: instaurando dei sistemi sociali che ponevano a proprio fondamento lo scambio monetario e il lavoro salariato, esse non riuscirono ad andare oltre il capitalismo.
Ogni «periodo di transizione» era visto, dunque, come intrinsecamente contro-rivoluzionario, non soltanto nella misura in cui esso implicherebbe una struttura di potere alternativa che finirebbe col «conservarsi declinando» (si pensi alle critiche di parte anarchica alla «dittatura del proletariato»), né semplicemente in quanto manterrebbe inalterati, nei loro aspetti fondamentali, i rapporti di produzione attuali; ma anche perché il «potere operaio», sulla base del quale tale transizione si dovrebbe realizzare, veniva adesso visto come un elemento estraneo alle lotte. Il potere operaio non è che l’altra faccia del potere del capitale, il potere di riprodurre gli operai in quanto operai. A partire da questo momento, l’unica prospettiva rivoluzionaria concepibile diventa quella dell’abolizione di questo rapporto di reciproca implicazione.
Dagli anarco-sindacalisti agli stalinisti, tutto l’ampio spettro del movimento operaio riponeva le proprie speranze di rovesciamento del capitalismo e, in generale, della società divisa in classi, nell’ascesa al potere della classe operaia all’interno del modo di produzione capitalista; a un dato momento, il poter operaio si sarebbe dovuto impossessare dei mezzi di produzione, dando avvio ad un «periodo di transizione» verso il comunismo o l’anarchia – una fase che non avrebbe visto l’abolizione della condizione operaia, bensì la sua generalizzazione. In tal modo, il fine ultimo della soppressione della società di classe coesisteva con una larga varietà di mezzi rivoluzionari fondati sulla sua perpetuazione.
L’Internazionale Situazionista ereditò dai surrealisti questa opposizione tra i mezzi politici concreti all’emancipazione del lavoro e il fine utopico della sua abolizione. Il suo merito principale fu quello di ricondurre un’opposizione esteriore, mediata dal programma socialista, ad un’attività interna, più adeguata alla propria concezione della rivoluzione. Quest’ultima consisteva in una rielaborazione radicale della liberazione del lavoro, attraverso la quale si sottolineava il rifiuto di ogni separazione tra l’azione rivoluzionaria e la trasformazione totale della vita – un’idea già presente, seppure in modo implicito, nel progetto originario della «costruzione di situazioni». L’importanza di questo sviluppo non deve essere sottostimata, nella misura in cui la «critica della separazione» implicava sia una negazione di qualsivoglia iato temporale tra mezzi e fini (e dunque dell’idea stessa di «periodo di transizione»), sia il rifiuto – incentrato sulla partecipazione universale, diretta, democratica all’azione rivoluzionaria – di ogni mediazione sincronica. In virtù di questa capacità di ripensare lo spazio-tempo della rivoluzione, il superamento da parte dell’IS dell’opposizione tra liberazione e abolizione del lavoro si sostanziava, in definitiva, nella riunificazione dei due poli in un unità immediatamente contraddittoria, che trasponeva l’opposizione tra mezzi e fini in una opposizione tra forma e contenuto.

martedì 14 luglio 2020

BABEUF Gracchus François-Noël


Nacque a S. Quintino il 23 novembre 1760. Di umile condizione e di pochi studi, fu dapprima modesto impiegato, a Noyon, e poi, dal 1785 a Roye Commissaire à terrier. Subito dopo si trasferì a Parigi, visse poveramente di espedienti. Nel 1792, venuto in qualche rinomanza negli ambienti rivoluzionari, più per il suo giornale Le Tribun du Peuple,in cui si firmava Gracchus, che per il Cadastre, fu da prima membro del consiglio generale del dipartimento della Somme e poi amministratore del distretto di Montdidier. Ma quest'ultimo ufficio gli fu fatale, perché egli avrebbe sostituito un nome ad un altro nel procedere alla vendita di alcuni beni nazionali. L'accusa, quantunque oscura e mal documentata, fu così formidabile che il Babeuf fu condannato, il 23 agosto 1793, a 20 anni di ferri, in contumacia. Da allora, la storia della sua breve vita si confonde con quella delle sue dottrine rivoluzionarie.
In un libro pubblicato nel 1791, Du système de dépopulation, il Babeuf aveva attaccato Robespierre; poi, nel n. 33 del suo giornale, e più gagliardamente nel n. 35, espose e illustrò a lungo un programma comunista. Forse, senza la reazione termidoriana, le idee del Babeuf non sarebbero uscite dall'indeterminatezza propria di tutte le idee rivoluzionarie che fermentarono nell'età sua; ma dopo Termidoro, il Babeuf insorse perché i frutti della rivoluzione fossero conservati. "Poiché lo scopo della società è di raggiungere la felicità comune", bisogna impedire che tale felicità sia turbata, e bisogna che quelli i quali hanno spogliato i poveri siano costretti a dividere con i poveri il frutto delle spoliazioni. Bisogna inoltre che vi siano istituzioni capaci di "assicurare e mantenere inalterata l'eguaglianza di fatto" e di sostituire alla massima ipocrita: "rispetto alla proprietà", l'altra: "rispetto alle proprietà rispettabili". L'eredità, dunque, è ingiusta; tutte le forme di lavoro debbono essere egualmente rimunerate; tutte le terre debbono essere in comune e i prodotti del lavoro di tutti a disposizione di tutti. La rivoluzione francese "non è che l'avanguardia di una ben più grande rivoluzione, l'ultima delle rivoluzioni. Periscano, se necessario, tutte le arti, ma resti l'eguaglianza... Se sulla terra vi sarà un solo uomo più ricco degli altri, l'equilibrio sarà rotto e l'infelicità rispunterà certamente". In sostanza, una eguaglianza relativa è difficile a mantenere, mentre è facile mantenere l'eguaglianza assoluta, a conseguir la quale anche la guerra civile è giustificata. A questi principi fu ispirato il Manifesto degli Eguali, scritto da Sylvain Maréchal (l'autore del Dictionnaire des Athées) nel 1796, specie di statuto della setta comunista che faceva capo al Babeuf. E questi principi furono ribaditi durante il processo che seguì alla scoperta della cospirazione (dovuta a un delatore, certo Grisel) e all'arresto del Babeuf e dei suoi complici (maggio 1797). L'accusatore nazionale Viellart non aveva dunque, torto a dipingere il Babeuf come rivoluzionario autentico; condannato a morte, Babeuf s'inferse un colpo di pugnale al momento dell'esecuzione, il 27 maggio 1797.
"La proprietà è la sorgente più importante di tutti i mali che pesano sulla società ... Il sole brilla su tutti, e la terra non è di nessuno. Orsù, dunque amici miei, turbate, sconvolgete, buttate all'aria, questa società che non è per voi. Prendete, dove che sia, tutto ciò che vi abbisogna. Il superfluo appartiene di diritto a chi non possiede nulla".
"Sgozzate senza pietà i tiranni, i patrizi, il milione dorato, tutti gli esseri immorali che dovessero opporsi alla nostra felicità comune!"
"La Repubblica degli Eguali, il grande asilo aperto a tutti gli esseri umani. Sono giunti i giorni della restituzione generale. Famiglie gementi, venite a sedervi alla tavola comune eretta dalla natura per tutti i suoi figli."


domenica 12 luglio 2020

Che s'infranga la Legge di Henry David Thoreau


Se l'ingiustizia appartiene al necessario attrito della macchina di governo, sia pure, sia pure: può darsi che esso si attenuerà - certamente la macchina si logorerà. Se l'ingiustizia possiede in se la sua molla, o una puleggia, o una corda, o una manovella esclusivamente per se, allora si può forse considerare se il rimedio non sia peggiore del male; se però è di natura tale da richiedervi di essere di un agente dell'ingiustizia nei confronti di un altro, allora, io dico, che s’infranga la legge. Agite in modo che la vostra vita faccia da controattrito per arrestare la macchina. Ciò che devo fare è accertarmi, in tutti i casi, che non sto prestando al male che condanno.
Quanto all'adottare i sistemi che lo Stato ha predisposto per rimediare al male, io no ne conosco. Essi richiedono troppo tempo, e la vita intera di un un uomo se ne andrà nel frattempo. Ho altre faccende di cui occuparmi. Non sono venuto a questo mondo innanzi tutto per farne un buon posto nel quale vivere, ma per viverci, buono o cattivo che sia. Un un uomo non deve fare tutto, ma qualcosa; e poiché non può fare tutto, non è necessario che debba fare qualcosa di male. Non è affar mio presentare petizioni al governatore o alla Assemblea Legislativa, non più di quanto sia affar loro rivolgere petizioni nei miei confronti; e se non ascoltassero la mia petizione, cosa dovrei fare allora? In questo caso lo Stato non ha previsto nessuna soluzione: la sua stessa Costituzione è il male. Questo potrebbe sembrare sgradevole e ostinato e tutt'altro che conciliante, ma in realtà è trattare con la massima gentilezza e considerazione l'unico spirito che possa apprezzarlo o che possa meritarlo. Allo stesso modo avviene ogni cambiamento in meglio, come la nascita la morte che sconvolgono il corpo.

mercoledì 1 luglio 2020

Le Comuni


Nelle occupazioni delle università immaginazione, sessualità, politica si esprimono fuori dagli schemi che regolamentano la famiglia e i gruppi di appartenenza sociale e religiosa. La vita quotidiana si dilata travolgendo abitudini e difese: i giovani vivono un tempo denso di eventi che appartiene ad una intera collettività. L’esperienza vivifica la critica teorica che ha disvelato la natura autoritaria della famiglia, luogo in cui si scambiano ruoli ossificati, e stimola la voglia di vivere in gruppo anche fuori dalle università.
Nelle comuni del ’68 confluiscono l’esperienza delle comunità hippie e delle aggregazioni religiose, cristiane e orientali, nate qualche anno prima. Con esse il movimento sperimenta aggregazioni familiari più ampie non repressive e tenta di prefigurare la nuova società per la quale sta lottando. Il senso della proprietà di persone ed oggetti viene messo in discussione, si cerca di vivere senza competizione sviluppando solidarietà e cooperazione.
Se la famiglia è il luogo della necessità che immobilizza i suoi membri la comune è vissuta come libertà salvatrice: i rapporti possono essere autentici perché si vive con compagni scelti e gli affetti e i rapporti sessuali sono patti rescindibili in ogni momento tra persone non legate da dipendenza coatta.
La comune è dunque uno spazio entro cui può crescere un progetto di vita personale più ricco di senso e di relazioni, dove il tempo non è scandito da abitudini mortifere. Il bisogno di esprimere la propria personalità in un contesto ampio che superi l’isolamento della famiglia borghese si salda con lo slancio utopistico che vuole dimostrare la possibilità di instaurare rapporti liberi e solidali, senza attendere il Paradiso o la realizzazione del socialismo. La comune diventa allora comunità esemplare, embrione della Nuova Società.
Tra il 1965 e il 1973 ne nascono più di duemila comuni. Raccolgono il messaggio dei socialisti utopistici dell’800 – Fourier, Saint Simon, Owen – e suggestioni contemporanee assai diverse tra loro, come i kibbutz israeliani e le comuni agricole cinesi. Negli Stati Uniti, soprattutto in California e nel New England, e in Nord Europa si occupano case sfitte, a volte interi quartieri, fabbriche abbandonate vengono riattate, ettari di terra ospitano comunità variopinte. Il fenomeno arriva anche in Italia ma in forme più moderate. L’espansione si arresta a metà degli anni ’70. Per contraddizioni interne e mutamenti esterni. Si scopre la difficoltà di conciliare nella vita quotidiana esigenze personali e responsabilità collettive, che i ruoli sono duri a morire, che vivere in comune richiede attenzione intensa ed impegno costante. Fuori è cambiato il clima politico. Spazi sociali si chiudono, tornano prepotenti valori che esaltano competizione, la famiglia nucleare riprende fiato e ruolo. Molte comuni resistono altre si trasformano. Il neo – femminismo ne rompe parecchie ma ne fonda di nuove, tutte donne e bambini.
Dalla metà degli anni ’80 arrivano i Punk, gli Squatters e le case occupate, ma questa e tutta un’altra storia.