..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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martedì 24 maggio 2016

Vietato vietare

«Vietato vietare» era uno slogan del ’68. anche se rivolto contro il sistema dell’epoca, sintetizzava lo spirito con cui tale tema era trattato. Massima libertà ma anche massima responsabilità. Molti divieti oggi in vigore sono strettamente connessi con la società in cui siamo costretti a vivere. Pensiamo all’assurdo divieto di circolazione imposto agli immigrati, che li rende perciò clandestini, privi di diritti, e che li costringe a viaggi ad alto rischio. Oppure il divieto di ingresso in una “proprietà privata”, che può essere anche una strada, un giardino, un cortile, un bosco, una spiaggia … Vi sono poi dei divieti morali, egualmente pesanti: il divieto di fare sesso propugnato dalla Chiesa ai giovani non ancora sposati, il divieto di usare anticoncezionali. Ci sono divieti legati alla condizioni di disuguaglianza sociale, come il divieto di rubare: applicato a chi vive in condizioni di povertà e di indigenza è un controsenso (De Andrè cantava in «Nella mia ora di libertà» … “[…] Ci hanno insegnato la meraviglia verso la gente che ruba il pane, ora sappiamo che è un delitto il non rubare quando si ha fame […]”) un vero accanimento repressivo che porta alla carcerazione di chi ruba un pacco di biscotti, mentre i grandi ladroni delle società finanziarie e delle multinazionali, che lasciano sul lastrico milioni di famiglie, la fanno sempre franca.
Nella società attuale, come è organizzata oggi, il divieto punisce chi commette l’infrazione ma non elimina la causa che l’ha generata. Facciamo un esempio che può sembrare duro, assurdo, ma vi prego non fraintendete: divieto di stuprare, ovvero costringere una persona a soggiacere ad un’altra. Anche se inconsciamente possiate ritenere giusto questo divieto, chiedetevi perché un individuo dovrebbe costringere un altro con la forza a cedere alle sue voglie sessuali? Una sana educazione sessuale, una serena e libera padronanza del proprio corpo e dei propri impulsi sarà sufficiente a dominare, a controllare, autogovernate i propri desideri e ad esprimerli liberamente. Altro esempio: vietato fumare nei locali pubblici. Anche in questo caso una sana educazione civica, una presa di coscienza di non arrecare danno e fastidio agli altri, fa si che si capisca che il fumo, otre a far male, può non essere gradito da altri. Potremmo continuare così all’infinito. Nella società liberata la maggior parte dei divieti attuali, se non addirittura tutti, non avrebbe più alcun senso perché ne cadrebbero i presupposti; l’educazione borghese e sessista, la povertà e i privilegi, il concetto di proprietà e via di seguito … Ogni altro tipo di divieto sarebbe oggettivo e ovvio, in quanto la libertà di ognuno dovrebbe rapportarsi con la libertà degli altri, senza entrare in collisione, ma realizzandosi e complimentandosi in essa.

venerdì 20 maggio 2016

Émile Henry

Émile Henry nacque il 26 settembre 1872 a Barcellona. Cresciuto in un ambiente aristocratico liberale, suo padre, comunardo ed uno dei primi comunisti francesi, fu condannato a morte dopo la repressione della Comune, ma riuscì a fuggire in Spagna dove nacque Émile e il fratello Fortuné (anche lui diverrà anarchico). Già da giovane constatò con i propri occhi le profonde ingiustizie del mondo, per questo aderì al movimento anarchico nel 1891. Influenzato probabilmente dal fratello maggiore, abbracciò l’ala più intransigente dell'anarchismo: l'anarchismo insurrezionalista.
Subito messo sotto sorveglianza dalla polizia, il 30 maggio 1892 fu fermato dopo una riunione pro-Ravachol e rilasciato dopo la perquisizione del suo domicilio. L'8 novembre 1892, Émile collocò una bomba davanti alla sede della società miniere di Carmaux, come gesto di solidarietà in favore dei minatori. La bomba fu però trovata prima che esplodesse da un poliziotto imprudente, che addirittura la portò in commissariato: fu una strage (6 morti).
Rifugiatosi immediatamente in Gran Bretagna, a Londra, ma poi rientrò clandestinamente a Parigi alla fine del dicembre 1893 ed iniziò a fabbricare esplosivi.
Nel dicembre del 1893, Auguste Vaillant fece esplodere una bomba contro la Camera dei deputati francese. L'attentato non fece alcuna vittima, ma sparse il terrore: era ormai evidente che gli anarchici potevano colpire al cuore il potere (infatti l'anno successivo Sante Caserio riuscì a far fuori il presidente Carnot pugnalandolo). Vaillant venne condannato a morte. Fu dunque per vendicarlo che Émile Henry, il 12 febbraio 1894, una settimana dopo la condanna di Vaillant, gettò una bomba al Cafè Terminus, alla Gare St. Lazare. Tentò la fuga, ma fu inseguito e catturato dalla polizia.
Il processo contro Émile Henry si tenne a Parigi ed iniziò il 27 aprile 1894. Il giudice non gli diede alcuna attenuante, che peraltro nemmeno cercava.
Orgogliosamente rivendicò le sue azioni, e rivolgendosi alla corte e alla giuria che lo condannò alla ghigliottina dichiarò:
“[…] Io sono anarchico da poco. Solo verso la metà del 1891 mi sono lanciato nel movimento rivoluzionario. Prima ero vissuto in ambienti completamente imbevuti della morale attuale. Io ero abituato a rispettare ed anche ad amare i princìpi della patria, famiglia, autorità e proprietà.
Ma gli educatori della generazione attuale dimenticano troppo frequentemente una cosa, che la vita, con le sue lotte e le sue delusioni, con le sue ingiustizie e le sue iniquità, si incarica, l'indiscreta, di aprire gli occhi agli ignoranti e di aprirli alla realtà. È ciò che mi è accaduto, come accade a tutti. Mi avevano detto che questa strada era facile e largamente aperta agli intelligenti e agli energici, e l'esperienza dimostrò che solo i cinici e le persone servili possono trovarsi un buon posto al banchetto.
Mi avevano detto che le istituzioni sociali sulla giustizia e l'uguaglianza, e non provo intorno a me e che menzogne e furberia. Ogni giorno che passava mi toglieva una illusione. Dove andavo erano testimone degli stessi dolori presso gli uni, né gli stessi godimenti presso gli altri. Dove andavo erano testimone degli stessi dolori presso gli uni, degli stessi godimenti presso gli altri. Non tardai a capire che le grandi parole e mi avevano insegnato a venerare: onore, devozione, dovere, non erano che una maschera che nascondeva le più vergognose turpitudini.
L'industriale che costruiva una fortuna colossale sul lavoro dei suoi operai i quali, invece, mancavano di tutto, era una persona onesta. il deputato, Il ministro le cui mani erano sempre aperte alle bustarelle, erano devoti al bene pubblico. L'ufficiale che sperimentava un nuovo modello di fucile sui bambini di sette anni, aveva fatto il suo dovere e, in pieno parlamento, il presidente del Consiglio gli faceva le sue felicitazioni. Tutto quello che ho visto mi spinse alla rivolta e il mio animo si dedicò alla critica della organizzazione sociale. Questa critica è stata fatta troppo spesso perché io la rifaccia. Mi basterà dire che diventa il nemico di una società che giudicavo criminale.
Attirato per un momento dal socialismo, non tardai ad allontanarmi da quel partito. Avevo troppo amore per la libertà, troppo rispetto per l'iniziativa individuale, un nell'esercito alto del quarto Stato. D’altra parte mi accorsi che, in fondo, il socialismo non cambia niente all'ordine attuale. Esso mantiene il principio autoritario, e questo principio, nonostante ciò che ne possono dire i pretesi liberi pensatori, non è che un vecchio rimasuglio della fede in una potenza superiore.
[…] Nella guerra da noi dichiarata alla borghesia non chiediamo pietà. Diamo la morte e sappiamo subirla. Per questo attendo con indifferenza il vostro verdetto. So che la mia testa non sarà l'ultima che taglierete. Aggiungerete altri morti alla lista sanguinosa dei nostri morti. Impiccati a Chicago, decapitati in Germania, garrotati a Xerès, fucilati a Barcellona, ghigliottinati a Montbrison e a Parigi, i nostri morti sono numerosi; ma voi non siete riusciti a distruggere l'anarchia. Le sue radici sono profonde. Essa è nata nel seno di una società putrefatta e vicina alla sua fine; essa è una violenta reazione all'ordine stabilito; essa rappresenta le aspirazioni di uguaglianza e libertà che distruggono l'attuale autoritarismo. Essa è dovunque. Questo la rende indomabile, per questo finirà coll'uccidervi”.
Fu condannato a morte e ghigliottinato il 21 maggio 1894 all'età di 21 anni.

martedì 17 maggio 2016

Contro guerra, sfruttamento, TAV e salvabanche ... la soluzione è la lotta!

Crisi, guerra, migrazioni ci sono imposte da chi governa il mondo! Scelte attuali dei potenti per confermare e accrescere il loro dominio e i loro profitti. Scelte i cui costi di distruzione, impoverimento, precarietà e insicurezza pesano oggi sempre più su tutti e sul proletariato globale. Anche noi che viviamo nell'occidente sviluppato siamo sempre più investiti da processi di impoverimento.
Quando ci parlano di crisi ci dicono che la deriva dell'economia è causata dal fatto che non garantiamo sufficiente flessibilità, dal costo delle pensioni, dal debito pubblico che va affrontato con tagli ai redditi, alla sanità, alla scuola. Noi siamo i colpiti, ma nel nome degli interessi generali e dell'Europa gli interventi dei governi sono tutti volti a aprire ulteriori spazi a possibili speculazioni della finanza piratesca, a salvare le banche che hanno truffato ed espropriato i piccoli risparmiatori, a regalare ad industriali e petrolieri possibilità di accumulare con l'incremento dello sfruttamento e dei ricatti di chi lavora e sul depredamento e inquinamento di acqua, aria e terra.
Quando ci parlano di esportare la democrazia intendono aprire nuovi scenari di guerra e distruzione per favorire destabilizzazioni e l'insediamento o la permanenza di grandi gruppi multinazionali dell'energia, delle materie prime e degli alimenti. Il quadro mediorientale e africano sono diventati da decenni territori da conquistare da spartire e da depredare. Ma i costi umani ed economici di queste distruzioni pesano sulle popolazioni colpite, ma dobbiamo anche pagarli noi. Le spese per gli armamenti, per le missioni incrementano fortemente il debito pubblico che poi imporranno di ridurlo con ulteriori tagli che influiranno sempre sulle nostre condizioni di esistenza.
Quando parlano di minacce per i confini sanno benissimo che i grandi flussi migratori odierni sono causati, dal sostegno che i governi offrono alle oligarchie e ai governi autoritari che opprimono i ceti subalterni dei paesi dominati, dalle attuali guerre e dalle depredazioni che sconvolgono, sradicano e cacciano masse sempre più enormi di popolazioni ridotte alla fame e alla distruzione di quanto avevano e della loro stessa vita. Tutti sanno benissimo che il rancore e l'odio provocato producono volontà di rivalsa, nuove ideologie e nuovi fanatismi che si possono poi concretizzare in attentati e terrorismi e fondamentalisti. Ma se poi le carneficine avvengono nei luoghi in cui vive la gente comune I potenti sanno di poter utilizzare ogni minaccia per accrescere il controllo e la militarizzazione delle metropoli e dei territori, per imporre nuovi giri di vite destinando risorse a garantire "la sicurezza" e queste scelte accrescono ancora la potenza degli apparati finanziari e militari.
La politica di chi domina mira oggi gestire le crisi incrementando le contrapposizioni tra i territori e le classi subalterne. La produzione di mobilitazioni mediatiche costruendo falsità e minacce inesistenti genera inevitabilmente insicurezze e timori che portano a credere che il nostro malessere sia dovuto alla presenza degli stranieri che "ci rubano il lavoro" e minacciano la nostra sicurezza.
Si vuole fomentare le contrapposizioni tra poveri per evitare che il malessere sociale si organizzi e si contrapponga alle istituzioni e agli assetti dominanti che sono responsabili del nostro impoverimento e della nostra precarizzazione.
A due anni dalla nascita del governo Renzi i giochi si sono svelati chiaramente. Dietro le promesse di cambiamento sono emerse politiche razionalizzatrici che hanno sostenuto fortemente gli interessi dei ceti finanziari ed industriali. Grandi opere, soldi alle banche, distruzione dei territori e dell'ambiente.
Mai la disoccupazione giovanile è stata cosi alta, mai i processi di esclusione e di impoverimento hanno toccato così tante parti della popolazione e dei territori del nostro paese.
Mai i processi di repressione sociale sono stati cosi forti: sfratti, pignoramenti, sequestri di case, tagli dei servizi e dei sussidi, aumento delle tariffe, dei costi del­la sanità. Mentre gli Enti Locali erogano sempre meno servizi.
Mai processi di repressione giudiziaria hanno colpito così tante persone che partecipano ai conflitti sociali: solo a Torino più di trenta giovani sono stati arrestati, processati, fatti oggetto di misure giudiziarie perché si sono contrapposti a sfratti o a manifestazioni di fascisti e razzisti.
Bisogna far maturare nel paese la giusta avversità contro le Istituzioni che garantiscono ormai solo gli interessi di pochi privilegiati ed elargiscono soldi per salvare le banche che espropriano i piccoli risparmiatori, fanno vincere appalti milionari ai parenti dei ministri mentre impediscono ai giovani di accedere al reddito necessario per vivere e riprodursi. Impedire la realizzazione delle grandi opere, impedire gli sfratti, impedire la segregazione degli immigrati e la marginalizzazione dei giovani non può che avvenire tramite la costruzione di nuove e forti forme di conflitto e contrapposizione.
Guerra, Crisi ed espulsioni si fermano solo costruendo una forte mobilitazioni contro le istituzioni: locali, nazionali ed Europee.
Impariamo a identificare e a combattere i nostri veri nemici: Renzi, Salvini, Hollande, Merkel, Draghi sono i più visibili.... Bene! Incominciamo a contrastarli!

Anarchismo come antidoto di ogni potenza

L’anarchismo non avrebbe ragion d’essere se non ci fossero oppressori e padroni, in una sola parola dei “potenti”. Esso è l’antidoto  di ogni “potenza”, perché ogni potenza è violenza contro gli uomini. Essere anarchico è come essere in uno stato di difesa/offesa: non la difesa/offesa della vita animale, ma l'azione/reazione razionale/sentimentale della coscienza umana che non perde di vista, assieme al proprio, il bene altrui. L'uomo diventa anarchico tra gli uomini, proprio perché vuole diventare ed essere Uomo, che è, in ultima istanza, il superamento dello stesso anarchico.
Tutti gli uomini sono in lotta contro i propri simili, mentre gli uni (la maggior parte) riportano in campo sociale i conflitti della giungla, cioè si comportano secondo un'analogia animalesca e quindi non umana (perciò anti- umana), gli altri, i più evoluti (pochini, in verità) lottano per redimere se stessi e tutti gli altri, cioè per eliminare le cause dei conflitti.
I primi sono i fautori (in quanto profittatori o perché "suggestionati") dalla proprietà e dall'autorità, dietro cui si barricano, diventando essi stessi causa di conflitti. La proprietà e l'autorità rispondono alla morale animalesca della legge del più forte. L'origine della proprietà è bottino di guerra, furto, insomma di appropriazione indebita, di accaparramento. In atto, è sottrazione al patrimonio comune di beni e mezzi. Se la proprietà è utenza di cose, l'autorità è utenza di persone. L'una e l'altra sono il diritto del più forte ad abusare di cose e di uomini. Sono quindi le due facce dello stesso fenomeno, che è l'animalità civilizzata, trasportata, cioè, dalla giungla al comunità umana. Nella giungla non esistono autorità e proprietà, ma solo la forza bruta: gli uomini hanno dato un'intelligenza a questa forza, non per superarla, ma per impiegarla razionalmente; così l'hanno civilizzata. La proprietà e l'autorità sono state "legalizzate" anzi "legittimate" giungendo fino alla democrazia, che significa (ma non è) governo di popolo, ma i fatti non cambiano, perché la realtà ci mostra sempre ed ovunque dei vincitori e dei vinti, dei padroni e dei succubi, dei profittatori senza scrupoli e degli impossibilitati da far pietà, degli armati fino ai denti di proprietà e di autorità resi temerari dalla loro corazza di mezzi di difesa/offesa senza cerimonie, e dei disarmati resi pavidi e vili dal loro stato di indigenza.

sabato 14 maggio 2016

Contro tutti gli eserciti per un mondo senza frontiere

Dal 11 settembre 2011: New York, Madrid, Londra, Parigi, Bruxelles... hanno avuto il loro quarto d'ora di celebri­tà. Ma quindici minuti è il tempo che serve a telecamere e riflettori ad andarsene, lo stato di guerra rimane. Leggi speciali, limitazione delle libertà, censura, check point; tutto l'occidente compatto schiera il suo apparato repres­sivo. In Italia, dove attentati fin ora non se ne sono visti, ci siamo abituati a vedere blindati militari per le strade, e non ci stupisce che un giovane arabo venga arrestato perché due anni prima ha dichiarato che ISIS gli stava simpatico. Lo stato francese ha approfittato dello shock post attentato per instaurare lo stato di guerra, con perquisizioni e arresti verso tutti i dissidenti, anche quelli lontani dall'Islam. Le manifestazioni di protesta sono state bloccate, mentre i grandi eventi sportivi continuavano ed i centri commerciali rimanevano aperti. I grandi assembramenti di consumatori, sono stati inspiegabilmente considerati sicuri. 
La verità è che questi dispositivi di controllo sono inutili nella lotta al terrorismo, che può ben poco di fronte ad azioni individuali e suicide. In questo clima di terrore l'uomo della strada si sente più sicuro con la canna del mitra di un alpino puntata in testa. Lo spauracchio del terrorismo permette la costruzione di un conflitto culturale, di una logica del 'noi e loro', utile all'ascesa di forze estremiste ed intolleranti. La nostra società viene presentata come la migliore immaginabile, nella quale cristianità e capitalismo avrebbero favorito benessere, giustizia so­ciale, diritti civili e libertà. Dimenticando volutamente che, solo mezzo secolo fa, l'Europa era segnata da un bigottismo cattolico integralista: in Italia delitto d'onore e matrimonio riparatore sono stati aboliti solo nel 1981. Dimenticando volutamente che i diritti presentati come insiti nella cultura occidentale sono stati ottenuti con lunghe stagioni di conflitto, che hanno lasciato dietro di sé decine di morti. I nostri regnanti ricordano molto bene la storia e per rimangiarsi una ad una queste concessioni innalzano la bandiera della "tradizione occidentale", che non è umanistica e illuminista ma bigotta e conservatrice.
Questa logica del "noi o loro", è la stessa usata da ISIS nella costruzione del consenso e obbliga tutti i musulmani presenti in Europa a schierarsi: da un lato hanno una dittatura fascista che si arroga il diritto di essere la risposta per tutti i fedeli del mondo (sunniti) e che non esita a torturare e uccidere chi non sposa la parola del califfo; dall'altro ci sono le democrazie occidentali, raggiunte sognando benessere e spesso libertà, ma che presentano sempre più la faccia del capitalismo schiavista e razzista. Non importa che tu sia arabo o caucasico, cattolico o mussulmano, hai sempre qualcuno sopra la testa che ti insegna chi odiare, per imparare ad amare un po’ di più lui!
Sicuramente sganciare missili con scritto "from paris with love" contro i civili già schiacciati dalla dittatura Daesh non aiuta ad uscire da questa spirale di odio. L'unica soluzione è quella di smettere di dare legittimità a chi fa la guerra in nostro nome, smascherare guerre postcoloniali, dove testare alleanze e vendere armi, dove le vite di milioni di persone sono trasformate in pedine di un enorme risiko di affaristi.
Nel momento in cui il ministro degli affari esteri Gentiloni richiedeva al governo egiziano, con toni minacciosi, la "vera verità" per Giulio Regeni, l'azienda Thales Alenia Space (Finmeccanica) festeggiava un affare dal 600 milioni concluso con lo stesso governo di Al Sisi.
Mentre la Turchia foraggia apertamente l'ISIS e bombarda i curdi nel sud est del paese, riceve dall'Europa 6 miliardi di euro, per tenere chiuse le frontiere e allontanare così "pericolosi islamici" dall'occidente.
E la guerra continua, così come continua a prosperare chi produce armi o appalta la sicurezza nazionale, così come continuano a crescere risentimenti e odi tra culture diverse. Le uniche cose che non prosperano né in occidente né in oriente sono sicurezza e libertà. A Ventimiglia c'è un'ordinanza firmata dal sindaco che vieta di fornire sostegno alimentare ai migranti senza documenti regolari, un divieto utile solo a costruire odio. Solo nel momento in cui abbandoneremo il nazionalismo culturale saremmo tutti più al sicuro, al riparo da vendette e oppressioni, perché non c'è sicurezza nella guerra. Le fabbriche di morte sono dietro casa nostra, così come le caserme e gli apparati decisionali, solo nel momento in cui riusciremo ad inceppare questa macchina saremo tutti più al sicuro, perché non c'è sicurezza nella guerra.

giovedì 12 maggio 2016

12 maggio 1977. Ricordando Giorgiana Masi


Giorgiana Masi oggi avrebbe 58 anni. Invece ne ha sempre 19.
Era il 12 maggio 1977; quel giorno sono in tanti a Roma su Viale Trastevere, sul Lungo Tevere, in Piazza Gioacchino Belli. C’era una manifestazione promossa dai radicali, per ricordare la vittoria referendaria sul divorzio tenutosi il 12 e 13 maggio del 1974.
Dal Viminale (il ministro dell’Interno era Francesco Cossiga) viene un perentorio divieto, assurdo, immotivato. Non c’era alcuna minaccia all’ordine pubblico, i poliziotti per primi sapevano che quando a manifestare erano i radicali si può star tranquilli, al massimo resistenza passiva: ci rimettono sopratutto i vestiti dei manifestanti che vengono trascinati al “cellulare” e condotti al vicino primo distretto.
Ma quella manifestazione, proibita, divenne l’occasione per tanti per dire anche altro: un no proprio a quel divieto, che era stato imposto dal governo a tutti i cortei. Ecco perché quella manifestazione proibita e comunque confermata dal partito radicale divenne un evento di eccezionale importanza per l’Italia del 1977. 
I radicali avevano dato appuntamento alla popolazione per un concerto a piazza Navona: si voleva far festa, e raccogliere le firme per una raffica di referendum abrogativi di leggi autoritarie e criminogene.
Dalle 15 fino a sera il centro di Roma venne sconvolto da una vera e propria guerriglia. Solo che per stare sicuri, qualcuno del potere aveva predisposto non solo gli “antiguerriglieri”, ma anche i “guerriglieri”. Quel pomeriggio tutto il centro di Roma era blindato, poliziotti e carabinieri in assetto di guerra, era ben noto che quel giorno il ministro dell’interno Cossiga schierò migliaia di uomini in assetto di guerra, molti di loro camuffati, alcuni da “autonomi”.
Quel giorno i veri Autonomi si comportano da radicali nonviolenti, al massimo qualcuno, e dopo ore di provocazioni, cominciò a lanciare qualche sanpietrino. Ma a sparare sono agenti di polizia o carabinieri travestiti, come detto prima, da autonomi: agenti travestiti da lupi che qualcuno voleva fossero lupi, denunciò Marco Pannella; non era una presunzione, piuttosto una certezza: grazie a un filmato e decine di testimonianze poi raccolte in un libro bianco curato e pubblicato dal Partito Radicale, fu possibile provare che poliziotti infiltrati andavano a prendere ordini e forse a rifornirsi di proiettili in mezzo a riconoscibili funzionari.
Giorgiana era una studentessa del liceo Pasteur di Roma, una compagna del movimento e una femminista. Scendeva in piazza per gli stessi valori per cui tuttora lottano migliaia di giovani, di donne, di lavoratori: il diritto alla scuola pubblica, ad una casa, ad un lavoro non precario, ad una società non omofoba e non razzista. Lottava per una società in cui ci fossero uguaglianza, solidarietà e giustizia sociale.
Quel 12 maggio 1977, su ponte Garibaldi, mentre era in piazza nell’anniversario della vittoria del referendum sul divorzio, le squadre speciali mandate dal ministro dell’Interno Francesco Cossiga spararono e la uccisero.
La uccisero lì, vicino alla statua del Belli, con un colpo di rivoltella. Cadde a terra come se fosse inciampata, dissero i resoconti di allora.
Nonostante denunce, inchieste, processi non si è riusciti a dare un nome a chi , quel pomeriggio, sparò ad altezza d’uomo, per uccidere. E neppure i mandanti, chi volle quei lupi travestiti da lupi. Anni dopo Cossiga, che aveva sempre puntato il dito contro i settori di autonomia, ammise di essere stato ingannato. Da chi, come e perché sarebbe stato ingannato, è uno dei tanti misteri italiani.
Ecco quanto ha dichiarato anni dopo quel tragico evento l’ex presidente della commissione stragi, Giovanni Pellegrino: …”quel giorno ci possa essere stato un atto di strategia della tensione, un omicidio deliberato per far precipitare una situazione e determinare una soluzione involutiva dell’ordine democratico, quasi un tentativo di anticipare un risultato al quale per via completamente diversa si arrivò nel 1992-1993″.
Il 23 ottobre 2008 Francesco Cossiga, già ex Presidente della Repubblica, ha rilasciato le seguenti dichiarazioni in una intervista: «Maroni [nota: allora ministro dell’Interno] dovrebbe fare quel che feci io quand’ero ministro dell’Interni. Ritirare le forze di polizia dalle strade e dalle università, infiltrare il movimento con agenti provocatori pronti a tutto, e lasciare che per una decina di giorni i manifestanti devastino i negozi, diano fuoco alle macchine e mettano a ferro e fuoco le città. Dopo di che, forti del consenso popolare, il suono delle sirene delle ambulanze dovrà sovrastare quello delle auto di polizia e carabinieri. Le forze dell’ordine dovrebbero massacrare i manifestanti senza pietà e mandarli tutti in ospedale. Non arrestarli, che tanto poi i magistrati li rimetterebbero subito in libertà, ma picchiarli a sangue e picchiare a sangue anche quei docenti che li fomentano. Soprattutto i docenti. Non quelli anziani, certo, ma le maestre ragazzine sì».









martedì 10 maggio 2016

La menzogna del lavoro

Le profetiche parole dell'ex ministro Elsa Fornero "Il lavoro non è un diritto" sono vere. Certo, queste parole hanno avuto come scopo quello di giustificare i tagli sistematici alle garanzie di lavoratori, giovani e pensionati, ma nascondono una verità. Lavorare non è un diritto, come potrebbe esserlo? Farsi sfruttare, farsi sottrarre tempo, energie, vita per l'arricchimento di qualcun altro non può essere un diritto. I diritti sono quelli che i lavoratori hanno conquistato nel tempo per alleggerire e estinguere questo sfruttamento. Per decenni la retorica lavorista ha assediato la vita di tutti gli italiani: "Il lavoro qualifica, il sacrificio è necessario" ci dicevano. Ci hanno ingannato facendo del lavoro l'oggetto del contendere, invece che delle nostre condizioni di vita. Adesso la verità però è di fronte a tutti.
II Jobs Act e la Garanzia Giovani del governo Renzi ne sono una chiara dimostrazione. Nel 2015 il tasso di occupazione precaria ha raggiunto il 14% (dato massimo di quando esiste la statistica), i 764 mila posti di lavoro stabili che Renzi rivendica di aver creato grazie al Jobs Act non sono altro che 578 mila "trasformazioni" di contratto (a volte peggiorative?). 1186 mila contratti rimasti (somma tra nuove assunzioni e cessazioni) sono il frutto non tanto di questa riforma del lavoro quanto delle misure di diminuzione delle tasse alle imprese che però perderanno molto probabilmente effetto sul lungo termine. La decontribuzione delle tasse alle imprese è comunque costata circa 1,8 miliardi: una spesa enorme di fronte all'efficacia (186 mila posti, ripetiamo). Questi costi probabilmente saliranno a 12 miliardi nel biennio 2016/2017. La solita storia, sgravi alle imprese senza alcun tipo di ri­presa occupazionale. Alcune statistiche sostengono che appena l'1% delle nuove assunzioni sia frutto del Jobs Act. I nuovi contratti precari del 2015 sono 420 mila. I conti di quanto queste due riforme ab­biano fallito sono facili da fare.
La Garanzia Giovani a sua volta dimostra un'altra grande menzogna. La misura che doveva contribuire a diminuire la disoccupazione giovanile si è dimostrata com­pletamente inefficace. A fronte di 865 mila iscritti appena 32 mila hanno avuto un contratto. Per il 74% l'aiuto di questo dispositivo non va oltre il colloquio. Per gli altri 227 mila per lo più si tratta di tirocini e corsi di formazione. Tirocini dietro cui molto spesso si nasconde lavoro vero fino a quaranta ore settimanali con ritardi nei pagamenti e pochissime garanzie. In questo caso la spesa pubblica è stata di 1,5 miliardi. Più o meno 36 mila euro per creare un singolo posto di lavoro. I soldi anche questa volta vanno a finire in sgravi alle imprese, burocrazia, centri per l'impiego. Insomma speculare sui giovani disoccupati è un campo di affare per molti e il governo ha fornito uno strumento in più per farlo.
Per i giovani il disastro è evidente, ma anche per gli altri non si scherza. Generazione ottanta e seguenti in pensione a 75 anni? Fine pena mai. Tanto più se si considera i molti che lavorano in nero o conforme contrattuali che non concepiscono contributi. I molti impiegati in cooperative e nei sistemi degli appalti vedono continue ristrutturazioni del personale. I licenziamenti sono all'ordine del giorno specialmente li dove ci sono appalti pubblici. Gli ultimi due casi con vertenze in corso sono quelli dei lavoratori della Venaria Reale e dei bibliocooperativisti di Unito a Torino, ma molti altri non balzano all'onore delle cronache.
I sindacati ormai sono dei simulacri vuoti che proprio nel difendere un ipocrita diritto al lavoro hanno perso qualsiasi capacità di incidere sul reale, o meglio hanno scelto di non farlo compiacenti ai governi e agli sfruttatori. Pochi sono gli esempi virtuosi, come quelli dei lavoratori della logistica che in questi anni dopo aspre lotte stanno riuscendo a migliorare le loro condizioni di vita.
Eppure procede l'automazione tecnologica e la necessità reale di lavoro per soddisfare il fabbisogno comune è sempre più bassa. Dove sta dunque il problema? Nella distribuzione delle risorse che anche in questo caso finiscono nelle casse dei più ricchi.
Sull'esempio delle lotte in Francia contro la "Loi Travail" non rivendichiamo un "diritto al lavoro", ma una redistribuzione più giusta delle ricchezze che produciamo con il nostro sudore e la nostra fatica! Non accettiamo più il loro ricatto, non vogliamo morire sommersi dai curricula da distribuire o ormai anziani sul posto di lavoro. Riprendiamoci ciò che è nostro.

domenica 8 maggio 2016

L'invenzione della razza umana

La razza umana è una sola, i popoli che la compongono sono tantissimi. Questa diversità va salvaguardata in un quadro generale di fraternità e relazioni improntate alla solidarietà e al mutuo appoggio. Le lingue, le culture, le esperienze dei popoli sono la forza vitale che fa ricco l’uomo e l’umanità tutta, uniformarle sarebbe un delitto mostruoso. La storia umana ci insegna oltretutto che sin dall’epoca quaternaria quando i primi ominidi progenitori nostri sono andati via dall’Africa per colonizzare il mondo intero, continuando poi con l’Homo erectus e con l’Homo sapiens, nativi sempre in territorio africano, i popoli non sono mai stati fermi ma si sono sempre messi in movimento, o perché costretti da avvenimenti climatici e fenomeni collegati alle politiche di dominio degli stati (guerre, persecuzioni), o perché costretti dal fabbisogno alimentare e di terra, o per semplice attitudine al cambiamento. I popoli di oggi, fatte pochissime realtà in territori come le foreste amazzoniche o aree similari dell’Africa e dell’Asia, sono il prodotto finale di innumerevoli contaminazioni linguistiche, culturali e fisiche, e questo fenomeno non è mai cessato, come mostrano gli attuali flussi migratori dal Sud del mondo verso i paesi ricchi occidentali. Ogni contaminazione arricchisce e fa fiorire esperienze e realtà sempre nuove e sempre diverse.. Ma la diversità non giustifica affatto l’esistenza delle frontiere.
Le frontiere sono un’invenzione delle istituzioni autoritarie che governano i popoli. I confini naturali dovrebbero sostituirle: laghi, fiumi, catene montuose, mari, ognuno dovrebbe essere libero di varcarli e di raggiungere le terre che stanno dall’altra parte. Nel futuro utopico a cui tendiamo la libertà di movimento e di circolazione sarà garantita a chiunque, addirittura auspicata, poiché solo la conoscenza, l’incontro, l’esperienza in comune porta alla morte delle differenze reciproche, all’apertura verso l’altro, allo scambio e alla contaminazione, tutti fattori che fanno crescere più sano e robusto l’albero umano.
Si è vero, questa diversità può provocare contrasti insanabili, ma è un rischio che bisogna correre. Meglio far fronte ad eventuali contrasti che accettare divisioni a tavolino. Non si costruirà del resto un mondo nuovo dall'oggi al domani, sarà il frutto di sperimentazioni e sperimentazioni, di tentativi su tentativi, di errori anche, e guai se non lo fosse. Dagli esperimenti e dagli errori si impara a migliorare e migliorarsi. Eliminando uno degli elementi della discordia (il patriottismo, ma abbiamo visto che ne esistono molti altri, la proprietà privata in primo luogo) sostituito con l'amore del proprio territorio vissuto come rispetto per la terra (a partire da quella in cui viviamo), si toglierà di mezzo la causa dei contrasti insanabili che insanguinano l'umanità.
E poi, lasciatemelo dire, che cosa dovrebbe contrariare un contadino siciliano rispetto ad uno cinese? Per quale motivo dovrebbero odiarsi, combattersi? Per quale più alto valore, rispetto a quello dato dalla tranquilla e libera vita di campagna assieme ai propri cari, dovrebbero scegliere di lasciare affetti e attività per scannarsi a vicenda? Tutte le volte che questo è accaduto è stato per l'odio trasmesso loro dagli Stati, inculcato dalle religioni, imposto dai ricatti dei padroni e dei ricchi borghesi. Non fosse stato così, ognuno avrebbe vissuto la propria vita, avrebbe pensato all'altro come ad un essere simile; e se mai si fossero incontrati, la lingua differente non avrebbe rappresentato elemento di incomprensione insormontabile, ma fattore di curiosità e di avvicinamento. Con una zappa in mano e davanti ad un pezzo di terra, entrambi si sarebbero compresi benissimo.

venerdì 6 maggio 2016

La protesta dello stomaco

Con l’intensificarsi dell’attacco dello Stato, alla fine del 1800, nelle varie città italiane dove molte erano le proteste e le lotte contro la fame e la miseria, anche la risposta degli anarchici e delle altre forze antigovernative, per nulla intimidite dalla repressione generalizzata, modificando la propria strategia, spostandosi progressivamente dal piano insurrezionale o cospirativo a quello della lotta di massa: dagli obiettivi di carattere politico ed istituzionale si passa così a quelli di carattere economico e rivendicativo, quali il miglioramento delle condizioni di vita e la conquista di nuovi diritti.
Dopo varie dimostrazioni in molte città italiane, che registrano l’abituale e luttuoso corollario di morti, anche a Milano l’8 maggio 1898 parte quella che Napoleone Colajanni, leader dei fasci siciliani, definì la “protesta dello stomaco”, che vede migliaia di cittadini manifestare per le strade del capoluogo lombardo per ottenere la riduzione del prezzo del pane, arrivato a livelli insostenibili per le loro povere tasche.
Come, e più di altre volte, lo Stato risponde in modo brutale, sparando sulla folla inerme con i cannoni. Ad eseguire gli ordini impartiti da Casa Savoia (dal cosiddetto “re buono” Umberto I), fu lo scrupoloso generale Fiorenzo Bava Beccarsi.
Eseguita la mattanza, il “buon”re Umberto I di Savoia consegnò una medaglia e la massima onorificenza, la Croce di Grande Ufficiale dell’Ordine dei Savoia, al fedele generale Bava Beccarsi, premiandolo così per la carneficina compiuta. Il generale aveva reso un “grande servizio alle istituzioni”.
Così notificava il re:
“Al Regio Commissario Straordinario Tenente Generale F. Bava Beccarsi
Roma, addì 5 giugno, ore 23,30
Ho preso in esame la proposta delle ricompense presentatemi dal Ministro della Guerra a favore delle truppe da Lei dipendenti, e col darvi la mia approvazione fui lieto ed orgoglioso di onorare la disciplina, l’abnegazione e il valore di cui esse offersero mirabile esempio.
A Lei poi personalmente volli conferire di motu proprio la Croce di Grande Ufficiale dell’Ordine dei Savoia, rimeritando il grande servizio che Ella rese alle istituzioni ed alla civiltà e perché Le attesti col mio affetto la riconoscenza mia e della patria.”
In quei giorni a Milano ci furono oltre un centinaio di morti, quattrocentocinquanta i feriti, c le condanne inflitte dai tribunali militari, condanne a pioggia per più di mille e quattrocento anni di carcere inflitti non solo agli organizzatori, ma anche ai tantissimi semplici cittadini incappati nelle retate senza aver commesso nulla.
Bava Beccarsi aveva reso un “grande servizio alle istituzioni”; Umberto era stato “orgoglioso di onorare” il suo carnefice. Uno sconosciuto tessitore di Prato emigrato a Paterson, nel New Jersey, aveva deciso di intervenire, da par suo, nel dibattito; il suo nome era Gaetano Bresci.
Pubblicava così “La Questione Sociale” nel dicembre del 1898:
“Al popolo lavoratore.
Ci rivolgiamo a te, o popolo, che la miseria cacciò lontano dal tuo paese e spinse qui attraverso l’Oceano, a lottar contro altra miseria non meno dura e non meno triste. Ci rivolgiamo a te che soffri, a te che sei sfruttato dai padroni e oppresso dai governi, a te che potresti essere libero e felice, che hai la forza di esserlo, solo che tu lo voglia, e che pur non lo vuoi.
I tuoi fratelli d’Italia e d’Europa sono ormai arrivati al colmo delle sofferenze. Ridotti a morir di fame, quando essi – spinti dalla disperazione – vollero ribellarsi contro la tirannia che li dissanguava, fu loro risposto con la mitraglia e colle stragi. Ed ora su tutto il bel paese grava il lutto della repressione feroce, selvaggia,, che non ha nemmeno il pudore della moderazione.
[...] Tu, o popolo lavoratore, pur vivendo lontano da essi, pur avendo forse rinunziato a ogni speranza di rivedere il luogo che ti vide nascere, non devi lasciare in abbandono i tuoi fratelli che lottano. Poiché la loro causa è anche la tua, e ogni vittoria ch’essi otterranno sarà la tua vittoria e il tuo trionfo.
[…] Noi vogliamo che – insorgendo – egli abbia sin d’ora innanzi agli occhi l’ideale luminoso di società avvenire nella quale egli potrà trovare la più completa espansione della sua libertà.”
Il resto è storia.

lunedì 2 maggio 2016

Torino. Un normale Primo Maggio di lotta

Piove a dirotto e fa freddo in piazza Vittorio, dove parte il corteo del Primo Maggio. La piazza è spezzata in due, come sempre da qualche anno. La polizia si schiera all’inizio di via Po per bloccare il passaggio alle componenti più radicali, centri sociali, no tav, sindacati di base e lo spezzone anarchico.
Siamo in piena campagna elettorale e alcuni candidati giocano le loro carte anche nel giorno simbolo delle lotte dei lavoratori.
Il Partito Democratico per la prima volta da anni deve affrontare una partita difficile: i sondaggi confermano che la candidata pentastelluta Appendino, avrebbe un buon margine di consenso.
Appendino fa a gara con Fassino nel ballare con gli anziani di Barriera e nel promettere lo sgombero dei campi rom, che l’amministrazione di centro sinistra non ha ancora raso al suolo.
A fianco del candidato della “Sinistra”, Airaudo, passato dal sindacato di Stato alla caccia alla poltrona sono quelli di Terra del Fuoco, una delle associazioni che hanno fatto bottino sullo sgombero dei rom.
Sfileranno tutti in coda assieme al partitino comunista di Rizzo, a caccia di improbabili verginità dopo l’assenso alle bombe sulla ex Jugoslavia e le cariche a Torino contro chi si opponeva alla guerra.
Quando ormai la parte istituzionale del corteo è lontana, il cordone di polizia si apre e gli spezzoni più radicali attraversano via Po. In piazza Castello nuovo schieramento della celere per bloccare l’ingresso in via Roma. Due brevi cariche e qualche manganellata sono la risposta della questura a chi protesta e spinge per andare avanti.
Quest’anno CGIL CISL e UIL, organizzatori della manifestazione, hanno chiesto che nessun contestatore potesse entrare in piazza finché la manifestazione istituzionale non fosse terminata.
Nel parapiglia due manifestanti vengono fermati: uno dei due, uno studente diciottenne, finisce alle Vallette.
Quando il corteo riparte Fassino e i suoi hanno ormai lasciato la piazza. Questa volta sono riusciti ad evitare i fischi, che in altri anni avevano dato voce ai tanti che a Torino fanno fatica ad arrivare a fine mese, lottando contro precarietà e sfratti.
Un risultato ottenuto con l’ausilio della polizia e dei picchiatori prezzolati, che proteggono lo spezzone del PD da chi non è disponibile a piegare la testa, non è disponibile a rassegnarsi alle regole feroci del capitale.
Buona la partecipazione allo spezzone anarchico, aperto dallo striscione “Né Stato né padroni. Azione diretta!”. Sul furgone di testa è stato appeso lo striscione “PD, CGIL, CISL, UIL nemici dei lavoratori”.
Non ci stupiamo quindi che la questura abbia disposto un blocco per impedire che voci dissonanti turbassero la campagna elettorale.
Nonostante la pioggia i tanti torinesi assiepati a lato del corteo hanno ascoltato e plaudito i lunghi interventi dei compagni e delle compagne che hanno dato vita allo spezzone rosso e nero. Interventi in cui si sono intrecciati i fili delle lotte contro le fabbriche d’armi, la militarizzazione della città, il Tav, le leggi che tutelano i padroni e ammazzano i lavoratori.
La crisi morde sempre più forte, specie nelle nostre periferie, dove solo le pratiche di autogestione, riappropriazione e solidarietà pongono un argine alla guerra contro i poveri che i governi di centro sinistra e quelli di centro destra hanno promosso negli ultimi vent’anni.
L’affermarsi di una democrazia autoritaria è il necessario corollario a politiche di demolizione di ogni forma di tutela sociale. Se i meccanismi violenti della governance mondiale impongono di radere al suolo ogni copertura economica e normativa per chi lavora, la parola passa al manganello, alla polizia, alla magistratura. Se la guerra è l’orizzonte normale per le truppe dei mercenari tricolori dall’Afganistan alla Val Susa, la repressione verso chi si ribella non può che incrudirsi.
Ogni giorno cerchiamo di coniugare autogestione e conflitto, per costruire lottando e lottare costruendo. In una tensione che non si allenta ogni zona liberata, è una base per incursioni all’esterno. Parimenti ogni momento di conflitto oltrepassa la mera dimensione resistenziale quando si innesta in pratiche di riappropriazione diretta di spazi politici e sociali.
La crisi della politica di Palazzo ci offre una possibilità inedita di sperimentazione sociale su vasta scala di un autogoverno territoriale che si emancipi dai percorsi istituzionali.
Il Primo Maggio torinese ha mostrato nei fatti la distanza tra chi pratica l’autogestione e il conflitto e chi fa il gioco delle poltrone.
Anche questo Primo Maggio i supermercati erano aperti, anche in questo primo maggio ci sono case vuote e gente in strada, anche in questo primo maggio c’è chi lavora troppo per molto poco e chi non lavora affatto, anche in questo primo maggio truppe tricolori sono in guerra dal Mediterraneo ai quartieri popolari delle nostre città.
In piazza abbiamo ricordato le lotte durissime degli operai di Chicago che nel lontano 1886 si battevano per le otto ore.
Cinque di loro vennero impiccati per stroncare quella lotta. Ma i padroni e i governanti dovettero pentirsene, perché la loro morte accese fuochi in ogni dove. Quei fuochi ardono ancora.
Dopo il corteo pranzo e festa alla Federazione Anarchica Torinese, per un benefit lotte sociali, dove ciascuno ha contribuito secondo le proprie possibilità: un pizzico di anarchia.