..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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giovedì 30 giugno 2016

I refrattari

C'è nella città, segnatamente nelle grandi, una specie di viventi, che stanno fra la borghesia e il proletariato, e non appartenendo propriamente né a questa né a quella classe, sono veri enti fuori-classe: decasses li chiamano in Francia, o bohemes, ovvero, secondo l'espressione di Jules Vallès, refrattarii; in Italia si chiamano spostati. Orbene: è degno di nota che fra costoro non ci sono vere e genuine associazioni, precisamente come non ci sono fra i proletari delle campagne: punto di rassomiglianza da non dimenticarsi mai! Sotto codesto aspetto il boheme è il contadino delle città.
Donde traggono questi spostati il loro peculiare carattere distintivo? Lo traggono, ci pare, dall'accozzamento di varii e disparati elementi: un po’ dalla classe da cui escono sdegnosi, un po’ dalla classe a cui si accostano per simpatia. Scienti od inscienti, in fondo sono socialisti …. non associati! C'è qualche cosa in essi che ha dell'enigmatico, del nebuloso. Perchè infatti, non è un individualismo accompagnato a tendenze socialistiche? Badiamo però ad una cosa: ed è che cotesti individualisti, in generale, sono del resto tutt’altro che egoisti: amano il piacere, ma sentono istintivamente e con molta vivacità anche la solidarietà morale della sventura, e i loro passi corrono ovunque c'è il tramestio e la lotta delle sofferenze: sono palle di moschetto che fischiano e divorano gli spazii, ma non sono - come si direbbe in stile guerresco - palle incatenate l'una all'altra: scorazzano dispersi, sbrigliati, scapigliati, ma se per caso giungono a costituire qualche squadra volante, allora guai ai pellottoni che loro stanno di fronte!
I loro nidi prediletti sono i grandi centri cittadineschi.
Il più moderno interprete delle loro anime frastagliate è Giulio Vallès.
Ma che razza di socialismo può essere, quello di costoro? mi domanderete voi.
É un socialismo negativo. Sbarazzano a modo loro, le vie, sulle quali poi correrà più spedita la locomotiva del progresso e con essa le associazioni emancipatrici; ma essi però non si associano; forse lo faranno in seguito. E invero: perchè essi dovrebbero associarsi? Hanno capitali da tutelare o da far fruttare essi? Ma non vedete che sono in fallimento permanente? Hanno forse legittimi diritti politici da esercitare o da difendere? Ma che! la loro politica è tutta illegittima: di legittimo non hanno che l'avvenire; di esercibile non hanno che la speranza. A loro manca perfino, come simbolo per associarsi, una determinata che li sfrutti: ognuno di essi si sente sfruttato, ma il loro sfruttatore è un ente che oggi è qui, domani è là; è un qualche cosa di indefinito che sfugge sempre e non si può acchiappar mai: finiscono allora naturalmente coll'odiare ciascuno per conto suo la società, questo quid impersonale e tiranno, che li molesta, li importuna, li bistratta, e che scivola continuamente dalle loro mani come un'anguilla.
Potrebbero però associarsi in circoli di divertimenti!
Meno che meno! Come si fa ad ammassare il denaro delle ricreazioni, delle veglie, dei festini colla siccità quasi perenne delle loro tasche?
V'ha chi li crede spensierati e gaudenti. È un errore d'apparenza. Le loro ricreazioni, le loro veglie, i loro festini non saranno mai i passatempi ove tutto va col figurino, col compasso dell'etichetta, coll’abbecedario diplomatico. In disciplinabili per natura, hanno tutte le audacie, tranne quella dell'oro.
Ma essi sono istruiti; e se si associano agli scienziati, perché questi proletarii del pensiero non possono associarsi anch'essi? Sta bene l'istruzione: ma qual è l'istruzione e la scienza di questi paria della penna? É la scienza che non ha leggi scolastiche, è la scienza che non ha disciplina, è la scienza che fugge dalle Università e dalle Accademie come da tante prigioni I professori possono benissimo sotto l'accettata influenza delle leggi accademiche addentellarsi l'uno all'altro e formar corpo, ma come lo possono questi sbrigliati, la di cui istruzione è un mugolo d'idee in balia ai quattro venti? Un congresso, di dottori lo si capisce: c'è un campanello autoritario a cui si obbedisce: c'è una tesi accademica; c'è una tradizione da rispettare; ci sono i paracarri per non sviare; si discute con tutto l'attiraglio parlamentare; si propongono emendamenti; si lima; si arrotonda; si transige; si castra; si vota; si dogmatizza a colpi di maggioranza e la maggioranza ha sempre ragione, anche quando ha torto. Ma coi refrattarii tutto ciò è impossibile: un loro congresso sarebbe un, turbinìo. Chi avrebbe la faccia da imporsi coll'autorità a capo? Questi refrattarii non si commuovono rispettosi e obbedienti che a una sola campana alla campana  a stormo.
Le loro tesi nascono mai sui tappeti verdi, ma scattano dall'anima e vanno a librarsi negli spazii del cielo come stelle, e per discuterle, bisogna prima dar loro la scalata come ad un' alta rocca e prenderle d'assalto. La loro tradizione è quella dei Titani e di Luciferi. Come l'aquila, essi non conoscono vie tracciate. La vaporiera che striscia sulla superficie della terra è di già diventata per essi un regresso: figuratevi ora cosa può essere per costoro il pesante carriaggio delle Accademie. Exoelsior! excdsior! è il loro grido. Se si riuniscono è unicamente per trovarsi insieme attorno a una specie di fuoco sacro e per scaldare alla sua fiamma le forze intirizzite al contatto della gelida società, in mezzo alla quale sono pur costretti a vivere. Il solo emendamento possibile per tutti loro è l'emendamento che va addirittura alle radici. La votazione non la fanno fra essi le palle bianche o le palle nere: non ce n'è bisogno: essa è già fatta, e da tempo, dal sentimento della loro irritata esistenza.
Ma se essi sono poveri come gli operai, perchè, come gli operai, non si sforzano di migliorare coll’associazione la loro sorte?
Migliorare la loro sorte! … É certo che d'un miglioramento hanno bisogno, come d'un miglioramento hanno bisogno gli operai, ma il miglioramento di questi ultimi ha, per cosi dire, dei criteri positivi, determinati, fissi. Gli operai non foss’altro, sanno d'onde cominciare: possono domandare meno ore di lavoro, maggior salario, e un po’ d'istruzione. Ma non è così per i bohemi, per questi poveri zingari dell' intelligenza. Dov’è essi possono trovare il perno attorno a cui avvolgere la fila di associazione? Nel salario? Ma essi, o non sono salariati, o i loro salari non si ripartiscono a categorie e quindi non offrono basi uniformi per costituirvi sopra delle associazioni. L'istruzione forse? Ma essi l'hanno e talora è perfìn soverchia, ma disordinata sempre. Faranno questione d'orario? Ma di che? Del resto, per essi il tempo ordinariamente non ha misura: oggi vola rapido e vivace come il vento; domani è lungo, infinito, Come quello della fame; doman l'altro si immobilizza nello sbadiglio, nel languore, nella noia. Tutto cospira per mantenerli sbrancati come cervi … e pericolosi come leoni.
Osvaldo Gnocchi-Viani
 Tratto da “Cronaca sovversiva (Barre, Vermount, U.S.A.), 25 giugno 1904”

giovedì 23 giugno 2016

Smettere di servire per liberarci autonomamente

Tutto ciò che è immutabile, o che si vuol rendere tale, è contrario alla natura e al suo principio di dinamismo costitutivo. Niente è statico in natura, nemmeno le montagne. Parlare di “status” in natura è un controsenso, imporlo è un crimine. Quando ci accorgiamo che le cose vanno al contrario di come dovrebbero andare, quando diciamo che non c’è più umanità, è sbagliato attribuirne immediatamente la colpa alla natura degli esseri umani, è un errore crederlo o ipotizzarlo. Dovremmo invece comprendere che da pochi millenni esiste un progetto preciso, voluto da pochi e perpetuato dai molti, un progetto di immutabilità che va contro natura. Non è la natura che ha creato lo stato, ma un gruppo di uomini colonizzatori dell’Europa antica che hanno visto nell’uso delle armi e nell’addomesticamento dei cavalli un modo efficace per impossessarsi di ogni privilegio, dato dalla riduzione in schiavitù forzata delle comunità pacifiche e libere.
Col tempo questo progetto è diventato “sistema culturale”, cioè un insieme di valori e di credenze acquisite e riconosciute più attraverso l’abitudine e l’oblio dell’antica libertà che per il loro effettivo merito, valori e credenze intrinsecamente ingiuste e pedagogicamente perpetuate fino ad oggi. Perciò penso sia più corretto accusare l’uomo culturale piuttosto che l’uomo naturale, che ormai è sparito sotto le sovrastrutture culturali imposte e ritenute ancora efficaci, nonostante dimostrino tutta la loro crudeltà e ingiustizia di fondo. Se vogliamo ritrovare l’uomo naturale dobbiamo distruggere l’uomo culturale, l’uomo politico, la cultura dello stato, i valori che questa cultura ci ha trasmesso e la loro presunta immutabilità. Perciò cambiare governi non serve a niente, la riproduzione dello status si avvale proprio di loro e di chi, legittimandoli e perpetuandoli, crede ancora che siano necessari. Come diceva De la Boétie, è sufficiente che le persone la smettano di servire perché si liberino autonomamente. Cooperare, stringere liberi accordi per autogestirci la vita senza servi né padroni, quindi tornare ad essere pienamente esseri umani, è ciò che serve per liberarci ed emanciparci.

sabato 18 giugno 2016

Kropotkin e il sistema rappresentativo

 Il sistema rappresentativo, scrive Pietro Kropotkin, è un sistema elaborato dalle classi medie per guadagnar terreno rispetto al sistema monarchico (o repubblicano che sia), mantenendo il proprio dominio e nello stesso tempo ed aumentandolo sui lavoratori. Il sistema rappresentativo è la forma caratteristica del dominio delle classi medie. Ma neppure i più ardenti ammiratori di questo sistema hanno mai seriamente sostenuto che un parlamento o un corpo municipale rappresenti proprio una nazione o una città: i più intelligenti tra di essi comprendono benissimo che ciò è impossibile. La rappresentanza nazionale è una finzione. Il delegato non rappresenta che se stesso, perché vota secondo la propria volontà e non secondo la volontà dei suoi mandatari. Può dire “si” quando questi direbbero “no”, e lo farà nel più gran numero dei casi.
Provano il referendum e scoprono che non vale; blaterano di rappresentanza proporzionale, di rappresentanza delle minoranze e d’altre utopie. Il referendum non risolve il problema della democrazia. Il popolo è chiamato a pronunciarsi su proposte formulate da piccoli gruppi di interessi e di partiti speciali, è tenuto a dire col voto se li approva o li respinge, ma non ha facoltà di modificare quelle proposte; e quando queste sono accettate dalla maggioranza, il governo ad imporre a tutti il rispetto, anche alle minoranze avverse, interpretandole, s’intende, coi suoi particolari criteri di gruppo dominante.
Sostenendo il governo parlamentare le classi medie hanno semplicemente cercato di elevare una diga fra se stesse e il monarcato o fra se stesse e l’aristocrazia terriera, senza accordare la libertà al popolo. È tuttavia evidente che, a mano a mano che gli uomini acquistano la coscienza dei propri interessi e la varietà di tali interessi aumenta, il sistema rappresentativo si rivela inadeguato. Questa è la ragione per cui i democratici di tutti i paesi si affannano a cercare palliativi o correttivi che non riescono a trovare.In una parola cercano l’impossibile, cioè un modo di delegazione che rappresenti l’infinita varietà degli interessi di una nazione; ma sono forzati ad ammettere che sono su di una falsa strada e la fiducia nel governo rappresentativo a poco a poco svanisce.

giovedì 16 giugno 2016

Anarchia e violenza

Avete sentito parlare di anarchismo come una diavoleria medievale di cospiratori cavernicoli, dinamitardi, sanguinari, spietati, negatori e disprezzatori di tutto ciò che può costituire un valore morale della vita. Ma l'anarchico è costituzionalmente ed è essenzialmente un non violento, anche se taluno può aver fatto gratuitamente, quanto spropositatamente, l'apologia della violenza. Questa è il momento passionale della reazione; essa è inevitabile come la reazione. Non solo, ma talvolta è sacra come il diritto alla vita. E le sue conseguenze ricadono sulla responsabilità di chi ne è stato la causa.
La violenza è madre di violenza. E alcune volte è sacra, dicevo. Sacra è stata la violenza dei partigiani contro i nazi-fascisti; sacra è stata la violenza dei popoli colonizzati contro i colonizzatori, sacra è la violenza di un popolo che vuole liberarsi dai tiranni, dagli oppressori e dai dittatori; sacra sarà ogni violenza capace di evitare un male maggiore di quello che essa stessa costituisce. Ma il tema della violenza non rientra in quello dell'anarchismo, bensì interessa il raggio più ampio della storia e della legge dell'antagonismo insito nella natura di tutte le cose. Noi anarchici, anzi, siamo tali in quanto negatori della violenza su cui si basa a tutt'oggi la società umana.
Le favole inventate sul conto degli anarchici e quel certo alone di timore che ancora ci circonda sono un documento storico della criminalità dell'umanità inferiore, manifestatesi attraverso i criteri di governi e di polizie che trovano leciti, legittimi e legali i mezzi della malafede, della menzogna, della calunnia e del bavaglio per colpire chi costituisce una minaccia perenne per chi vive di parassitismo, di rendite sulle refurtive sociali.
La violenza può essere contro-violenza, espressione di legittima difesa e di coraggio che irrompe anche col rischio della vita. Non credete che strappare un debole dalle mani di chi lo aggredisce sia un bisogno spirituale, prima che un dovere di protezione verso se stesso? Il bene e il male fatto agli altri ritornano indirettamente su noi stessi. Ogni azione è come una pietra gettata sulla superficie di uno stagno in cui siamo sommersi: le onde circocentriche, anche se diventate impercettibili, ci raggiungono prima o poi. Ebbene, non è diverso il sentimento di chi vuole strappare gli indifesi (o se stesso) all'oppressione, allo sfruttamento ed al sarcasmo dei padroni. Vi è un'esplosione dell'azione liberatrice e vendicatrice, tanta passione e tanta poesia quanto basta per dire all'uomo che la solidarietà dei suoi simili non è morta e che egli ha motivo di sperare e di riconciliarsi con la vita.
Vero è che l’anarchismo ha fatto il suo ingresso nella storia "ufficiale" con scoppio di bombe, ma ciò va inquadrato e spiegato nella situazione politica del tempo. Vi era da un lato una repressione sistematica e spietata, da parte della polizia, di chiunque semplicemente si proclamasse anarchico o fosse sospettato d'esserlo, ma nel caso specifico, si tratta comunque di "note singole e singolari" che non conferiscono la fisionomia dell'ideologia anarchica. Non solo, ma anche l'idea "anarchica" ha avuto il suo progresso di maturazione ed oggi essa si può presentare scevra da ogni infantilismo d'origine. La violenza fisica è solo un episodio marginale, individuale e contingentale dell'anarchismo e non mai una posizione sistematica di principio, che è propria di un movimento specificamente terroristico.
D'altronde recita una canzone anarchica (La ballata del Pinelli):
« […]
Anarchia non vuol dire bombe
ma uguaglianza nella libertà
[…] »

giovedì 9 giugno 2016

I nostri atti







“I nostri atti non sono necessariamente anarchici perché anarchici siamo noi che li compiamo, ma noi siamo tanto più anarchici quanto più conformi al nostro ideale sono i nostri atti e la nostra condotta”.

Luigi Galleani


martedì 7 giugno 2016

Il 7 giugno 1914 ad Ancona

La mattina del 7 giugno il maltempo impedì ad Ancona la parata militare. Verso le 8 le truppe si erano concentrate nella piazza Cavour sotto un cielo livido e quando il comandante del VII corpo di armata, il generale Barattieri, si apprestava a passare in rivista i reparti, un nuovo violento acquazzone costrinse a sospendere la manifestazione. Le truppe furono ricondotte in caserma anche perché l’acqua aveva disperso il pubblico. La contemporanea manifestazione antimilitarista vietata dal prefetto prevedeva, secondo il programma originario, l’assembramento davanti alla Casa del Proletariato in Via Nazionale e quindi un corteo sino alla piazza del Plebiscito ove avrebbe dovuto svolgersi un comizio ma verso le 9,30 Malatesta ed altri furono fermati e condotti in questura. Appena si sparse la notizia un vivo fermento si diffuse fra coloro che già erano convenuti alla Casa del Proletariato ma Malatesta già posto in libertà dopo una severa diffida fece inaspettatamente il suo ingresso nei locali dove l’assemblea aveva indetto per il pomeriggio alle ore 17,00 nella sede repubblicana di Via Torrioni, la cosiddetta Villa Rossa, un comizio privato che gli eventi della mattina non avevano consentito si svolgesse all’aperto. La questura emanò immediatamente un ordine di servizio per impedire che al termine del comizio i partecipanti si riversassero nella sottostante Piazza Roma ove doveva essere tenuto un concerto della Banda del Buon Pastore e successivamente della Banda Militare. 
All’ora stabilita in circa 500 convennero alla Villa Rossa dove parlarono Alfredo Pedrini per la Lega dei Muratori e della Camera del Lavoro di Ancona, Pietro Nenni direttore del Lucifero, Errico Malatesta, Ercole per i socialisti, Sigilberto Pelizza per la Camera del Lavoro e Livio Ciardi per i ferrovieri. Alla 18,35 tutto era concluso e gli intervenuti cominciarono a defluire alla spicciolata dalla Villa Rossa. In circa 200 formarono una colonna che cantando rese manifesto il proposito di recarsi in Piazza Roma trovando però la via bloccata da quattro file di carabinieri mentre più su, in via Ad Alto una ventina di questurini sbarravano il passo per l’unico altro accesso che avrebbe consentito di raggiungere piazza Roma. A questo punto l’ordine impartito dalla questura di bloccare il corteo provocò lo sbandamento dei partecipanti racchiusi in un budello quale era la salita stretta e ripida. I dimostranti respinti dai carabinieri ma non intenzionati a disperdersi per la campagna circostante furono costretti in un moto istintivo e spontaneo a converge sull’unica piccola porta di ingresso della Villa Rossa attorno alla quale si posizionarono anche i militari che presidiavano via Ad Alto. Accadde tutto in un attimo: carabinieri e questurini furono investiti da una pioggia di mattoni, sassi e zuppi di terra mentre dalla terrazza della Villa stava per essere calato in basso un pesante barile. Esposti ad una fitta sassaiola e alla vista del barile uno degli agenti estrasse la rivoltella e sparò quattro colpi in aria mentre i carabinieri contagiati dai colpi aprirono da sotto il fuoco a raffica. Fuggi fuggi generale con due corpi rimasti a terra, uccisi: Attilio Ciambrigoni anarchico di 21 anni e Antonio Casaccia di 24 anni. Gravemente ferito morirà il giorno dopo Nello Budini, repubblicano di 17 anni.
Sul terreno erano rimasti anche una decina di feriti. Mentre una atmosfera cupa avvolgeva la città veniva proclamato lo sciopero generale e, due giorni dopo i funerali dei caduti si svolsero alla presenza di migliaia e migliaia di partecipanti. Il sogno dell’insurrezione diventava realtà e avrebbe avvolto mezza Italia con punte significanti nella città di Fabriano e nel Ravennate. Sciopero generale a Roma, Milano, Firenze, Napoli, Torino … 

sabato 4 giugno 2016

Muhammad Alì: Leggero come una farfalla, pungente come un’ape

Stanotte se ne è andato uno dei più grandi uomini di sport e (perché no) un uomo che se non si fosse avvicinato allo sport sarebbe diventato, con certezza, un rivoluzionario.
Sarebbe troppo facile affermare che Muhammad Alì ha perso il match più difficile della carriera, quello con il morbo di Parkinson, di cui soffriva da oltre 30 anni e che all'ospedale di Phoenix, dove era stato ricoverato due giorni fa per problemi respiratori, ha posto fine alla sua straordinaria esistenza all'età di 74 anni. Certo, ormai da tanto tempo le sue parole non erano i proiettili lanciati nelle sue grandi battaglie, sul ring e per i diritti civili, ma l’intensità dello sguardo era rimasta sempre la stessa nonostante quel velo calato impietoso. Alì ha battuto anche la malattia, usando le sue idee di libertà e giustizia per danzare come una farfalla e pungere come un'ape.
Quel morbo maledetto irriso già ad Atlanta nel 1996 quando, tutto tremante, accese la torcia olimpica facendo piangere di commozione un intero stadio. Non combatteva da 15 anni, ma forse quella sera fu il round più bello della vita: Parkinson messo alle corde da quel coraggio di mostrarsi malato, dalla fragilità avvolta in un commovente tremolio per un uomo che aveva avuto il mondo in pugno.
In una nazione americana sensibilmente razzista, da subito il piccolo Cassius Marcellus Clay capì che avrebbe dovuto lottare per far valere i propri diritti, il carattere era già combattivo ma il pugilato ancora lontano.
Tutto iniziò con una bicicletta rubata e molte cose per cui valeva la pena fare a pugni nella vita. Agitava le braccia per la strada urlando contro il ladro come avrebbe fatto anni dopo sul ring sbraitando contro una montagna di muscoli finita al tappeto alla settima ripresa :”Alzati vigliacco, alzati, combatti” urlava l’allora Cassius Clay il pugile ragazzino che rea dato 1 a 7 contro Sonny Lyston, ubriacone, avanzo di galera controllato dalla mafia e campione dei pesi massimi da due anni.
Fu un poliziotto, tale Joe Martin, che ne intuì le possibilità, o quanto meno ne indirizzò l’esuberanza caratteriale portandolo in una palestra. Fu l’inizio della leggenda.
Cassius Clay, sul ring, in quel piccolo, grande mondo racchiuso tra le dodici corde, trovò la sua dimensione, il talento sbocciò, dando anche modo di esprimere attraverso esso la sua protesta, di far sentire la sua voce. Il fisico lo portò a combattere nei pesi medio massimi prima e massimi dopo ma, nonostante la categoria «pesante», egli impostò il suo pugilato sull’agilità e la leggiadria dei movimenti. “Vola come una farfalla, pungi come un’ape” fu il mantra coniato da un suo secondo, Drew Brown, che accompagnò la prima parte della sua carriera che lo portò fino alla nazionale olimpica statunitense che partecipò ai Giochi di Roma del 1960, vincendo l’oro e facendosi conoscere al mondo. Sembrò una vittoria che potesse schiudergli le porte di una vita sportiva “normale”, in realtà il colore della sua pelle continuava ad essere fonte di discriminazione, tanto da indurlo, in un moto di rabbia dopo che un cameriere bianco si era rifiutato di servirlo, a gettare nel fiume Ohio la sua medaglia olimpica, ritenendo inutile vincere per quel paese che ancora non gli riconosceva equi diritti.
Quando nel quella sera del 25 febbraio 1964 conquistò il titolo mondiale contro Sonny Liston, come l’esplosione di una «supernova» il mondo conobbe il nuovo re della box, quel giovane spaccone così linguacciuto che abbatté un picchiatore brutale, anche nella rivincita e in un solo round.
Diventò seguace di Malcolm X, e come lui si convertì all'Islam, come lui dichiarò che il suo nome era un nome da schiavo e da allora si fece chiamare Mohammed Alì e predicò la superiorità della razza nera in università e college, attirando su di sé gli sguardi straniti e ostili dell’America.
In un periodo in cui ai neri afro-americani veniva concesso qualcosa nel mondo dello spettacolo e nello sport a condizione che si adattassero alle condizioni dei bianchi tenendo la bocca chiusa, Alì la sua non la chiuse mai; la usò sempre per accusare il potere e le ingiustizie sociali, specialmente quelle contro gli afro-americani. Mai una banalità, ma un continuo bersagliare il perbenismo di una certa America, conservatrice. Diceva “Io sono l’America, quella parte di voi che non conoscete: nero e impertinente.”
La sua protesta continuò, clamorosa, quando fu renitente alla leva, rifiutando di andare a combattere in Vietnam; “Sei pronto ad andare in guerra?” gli chiese un giornalista; “A nessuna condizione andrò in guerra. Non ho niente contro i Viet Cong, nessuno di loro mi ha mai chiamato negro...” fu la sua risposta. Non una frase ad effetto, ma una coraggiosa scelta di coscienza che gli costò il ritiro della licenza di boxeur (che poi gli verrà restituita nel 1970), la perdita del titolo negli anni sessanta e una condanna a 5 anni di reclusione (diventati poi 3 per un errore nel processo), ma guadagnando il sostegno di tutti i movimenti contro la guerra.
Scontati quegli anni, nessun’arena volle farlo combattere, anche perché Muhammad Alì aveva cominciato a prendere a pugni l’America razzista, come fecero Martin Luther King e Malcom X.
Quando finalmente ritornò sul ring risorse come un’araba fenice diventando quel campione che tutti conosciamo.
Era solito saltellare sul ring e massacrare i timpani degli avversari con offese ed imprecazioni, prima di massacrarli coi pugni. Fu, infatti, l'inventore del trash talking. Vinceva gli incontri prima con le labbra e poi coi pugni. È passato alla storia il suo martellamento psicologico ai danni di George Foreman in occasione della Rumble into the Jungle, il più famoso incontro di pugilato combattuto nel Novecento, che vide Alì battere Foreman a Kinshasa, in Zaire.
Nel 1981 su ritirò e tre anni dopo dopo scoprì d’avere il morbo di Parkinson, la malattia che col passar degli anni gli tappò le sue ali e gli spezzò il suo pungiglione. All’inizio aveva cominciato a combatterla con la stessa forza e con la stessa passione con cui aveva lottato per oltre venti anni sul ring, dedicando la sua vita alla solidarietà ed alle iniziative umanitarie, schierandosi sempre in prima linea per la difesa dei diritti civili.
Muhammad Alì era stato a Bagdad da Saddam per scongiurare una guerra che Bush stava già preparando, e poi in Sud Africa per festeggiare un altro che aveva preso a pugni i pregiudizi e le ingiustizie: il suo amico Nelson Mandela.
Era leggero come una farfalla, pungente come un’ape, Muhammad Alì nato Cassius Clay, combattente sul ring e nella vita.

giovedì 2 giugno 2016

A proposito di elezioni e rappresentatività

Il sistema politico della rappresentatività è un inganno, è un espediente politico mediante il quale la borghesia tenta di realizzare il principio della sovranità popolare senza abdicare ai suoi privilegi di classe dominante. L'anarchismo, pratica di lotta sociale contro le istituzioni e l'autorità, è inconciliabile col sistema politico della delega che inibisce la partecipazione diretta degli individui alla gestione della vita sociale. La pratica sociale e di lotta di noi anarchici si basa essenzialmente sull'Azione diretta, condotta in prima persona, al di fuori di ogni forma di rappresentanza perché pratica della mediazione.
Lo strumento rappresentativo della delega é una ginnastica che abitua a demandare, a lasciar decidere altri per noi, a scegliere in definitiva chi ci deve comandare, e chi ha ottenuto il comando con un consenso di base, più o meno ampio, tramite le elezioni, ben difficilmente abbandonerà la poltrona sulla quale i suoi lettori, tanto gentilmente ed ingenuamente, lo hanno posto.
La rappresentanza è uno strumento atto ad assicurare il potere col consenso diretto delle masse, non certamente a preparare la strada per l'avvento della società libertaria. L'azione anarchica esclude la delega che si basa sulla partecip/Azione diretta e sulla gestione concordata tra le volontà degli individui, per cui è un suicidio accettare di partecipare a qualsiasi tipo di elezione.
L'astensionismo anarchico è un metodo costante di lotta globale contro ogni tipo di struttura imposta dall'alto. Astensionismo è per noi il rifiuto alla partecipazione ed alla gestione di tutto ciò che può, in un modo o nell'altro, di fare il gioco del potere o di chi vuole il potere. In definitiva l’astensionismo si realizza con l'applicazione di un metodo, cioè una la lotta dei mezzi funzionali alla fine.
Si tratta di identificare l'astensionismo con le lotte autonome è spontanee che i lavoratori hanno sempre espresso; lotte portate avanti dai lavoratori che vengono immediatamente boicottate dai sindacati che vogliono e non possono lasciare l'iniziativa delle scelte delle lotte direttamente ai lavoratori. Queste devono prima passare attraverso il filtro politico delle tattiche e delle strategie sindacali in quanto i sindacati, per la loro naturale dipendenza dal potere politico dei partiti, debbono in ogni caso essere in grado di controllarne lo sbocco, cioè di gestirle politicamente secondo i loro piani.
La posizione dei partiti e dei sindacati è chiara: essi negano la presa di coscienza individuale per una presa di coscienza di massa poiché quest'ultima è più facilmente strumentalizzabile e controllabile. E questo viene ottenuto col sistema delle elezioni e delle deleghe. In questa visione l'Azione diretta, all'autogestione e le altre forme di lotta che gli sfruttati trovano e mettono alla prova direttamente è l'esplicazione dell'astensionismo anarchico, cioè il rifiuto dei mezzi e degli strumenti di lotta che vengono imposti dalla prassi dedotta dai programmi politici dei partiti.
La presa di coscienza dell'individuo, facendo scattare le potenzialità di ribellione, lo porta ad associarsi liberamente con altri individui coscienti del loro essere sfruttati per la realizzazione della vera lotta rivoluzionaria: distruzione di qualsiasi potere, politico, economico e sociale per l'affrancamento dell'individuo e della collettività da ogni forma di sfruttamento.
Ecco perché, a nostro avviso l'atteggiamento che ognuno deve tenere, rispetto a qualsiasi tipo di elezioni o votazioni, é all'astensione, il rifiuto cioè di convalidare o di usufruire di uno strumento funzionale esclusivamente al sistema di potere.