..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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venerdì 27 dicembre 2019

Il partito della morte

Quando il lavoro prende il posto della raccolta delle risorse che la terra, l'acqua, le foreste, il vento, il sole, la luna, le stagioni offrono all'ingegnosità umana, esso sostituisce alla relazione simbiotica degli uomini e della natura un rapporto di violenza. L'ambiente e la vita che ne deriva scadono al rango di paesi conquistati e da riconquistare senza sosta. Il produttore li tratta da ribelli da subdoli nemici.
La natura ha conosciuto la stessa sorte della donna, ammirabile come oggetto, disprezzabile come soggetto. E' stata violentata, strapazzata, saccheggiata, spezzettata in proprietà, mortificata giuridicamente, esaurita fino alla sterilizzazione. Il corpo allenato al va e vieni dei muscoli e alle ridondanze dello spirito non è forse il trionfo della civiltà sui "bassi istinti!, cioè sulla ricerca dei piaceri?.
È risaputo come tante virtù che governano la felicità abbiano propagato il gusto di distruggere e di distruggersi. Quando la fabbrica del lavoro universale non assorbiva l'energia libidica, l'eccedente si sfogava in conflitti di interesse e di potere che le grandi Cause, tanto diverse quanto sacre, portavano a passeggio di bandiera in bandiera. Tuttavia anche la natura umana si consuma e l'edonismo. che riduce la soddisfazione dei desideri al consumo di piaceri surgelati, è buon contemporaneo delle foreste moribonde, dei fiumi senza pesci e dei miasmi nucleari.
Il lavoro ha talmente separato l'uomo dalla natura e dalla sua natura che ormai niente di vivente si può investire nell'economia senza che prenda il partito della morte. È concepibile che appaiono altre direzioni e che la gratuità, un tempo tacciata di irrealismo sia ormai la sola realtà da creare.

martedì 24 dicembre 2019

Stragi di Stato: da Ferrero a Pinelli. Gli anarchici non dimenticano.


Torino, 18 dicembre 1922. Le squadracce fasciste al comando di Pietro Brandimarte, torturarono e assassinarono sindacalisti, anarchici, socialisti. Tra loro Pietro Ferrero, della Unione Anarchica Italiana, segretario della FIOM. 
Umiliato e pestato sotto la Camera del Lavoro in via Cernaia, venne legato ed un camion e trascinato sino al monumento a Vittorio Emanuele. Lì, più morto che vivo, venne finito dai fascisti. 
La strage di Torino fu l’atto finale di una lunga ritorsione, cominciata dopo l’occupazione delle fabbriche. 
I padroni avevano avuto paura, paura che gli operai in armi passassero all’insurrezione, espropriando le fabbriche e continuando a far sa se. 
Pietro Ferrero era nato a Grugliasco (Torino) il 12 maggio 1892. Durante la Prima guerra mondiale era stato attivo nelle lotte operaie culminate prima nell’insurrezione contro la guerra del 1917 in Barriera di Milano, poi nel biennio rosso. Fu attivo nella CGL contro l'ala riformista del sindacato, militando nella corrente rivoluzionaria. Nel 1917, insieme ai compagni anarchici della Barriera di Milano, partecipò ai moti di Torino contro il padronato e la guerra; nel 1919 venne eletto segretario della sezione torinese della FIOM. Nell'aprile 1920 fu attivo nello "sciopero delle lancette" contro la decisione unilaterale della Fiat di spostare l'orario di lavoro dall'ora solare a quella legale e negli eventi che porteranno all'occupazione delle fabbriche nel settembre 1920, durante il biennio rosso. Con Garino si opporrà all’abbandono delle fabbriche voluto dalla gran parte della dirigenza della FIOM. 
Sapeva che se avessero mollato, il prezzo sarebbe stato durissimo. Licenziamenti, reparti confino, pestaggi, omicidi. 
In piazza XVIII dicembre, di fronte alla vecchia stazione di Porta Susa, c’è una lapide che ricorda le vittime dello squadrismo fascista. 
Pochi sanno è che nel dopoguerra Brandimarte venne reintegrato nell’esercito e seppellito con gli onori militari. 
Nulla di cui stupirsi. Il comunista Togliatti, ministro della giustizia del primo dopoguerra, amnistiò i fascisti, che aveano imprigionato, torturato e ucciso partigiani e antifascisti. 
Gli antifascisti imprigionati per aver combattuto il fascismo fuori dalle date ufficiali della Resistenza, restarono in carcere per decenni. La Resistenza venne imbalsamata quando ancora era nell’aria la polvere da sparo, quando viva era la memoria degli anni di Salò, dei deportati e degli uccisi.  
L’Italia democratica imprigiona i partigiani, libera e onora i fascisti.  
Milano, 15 dicembre 1969. L’anarchico Pino Pinelli viene ucciso nei locali della questura di Milano e gettato dal quarto piano per simulare un suicidio. Tre giorni prima una strage di Stato, eseguita da fascisti agli ordini del governo, aveva fatto 16 morti nella sede della banca dell’agricoltura in piazza Fontana a Milano. La questura e i media puntarono il dito sugli anarchici: Pietro Valpreda farà tre anni di carcere prima che la pressione delle piazze porti alla sua liberazione.  
Questore di Milano era Marcello Guida, già capo del confino di Ventotene, dove vennero rinchiusi centinaia di antifascisti, molti dei quali anarchici.  
Per quella strage non ci sono colpevoli, l’omicidio di Pinelli venne archiviato come “malore attivo”. Lo Stato non processa se stesso.  
Il fascismo non finisce il 25 aprile del 1945. La Repubblica teme che i semi sovversivi piantati durante la resistenza germoglino: i funzionari, poliziotti e giudici fascisti restano al loro posto. 
Nel 1969 un vento di libertà scuoteva le fabbriche, le scuole, i quartieri. La strage di piazza Fontana, preparata dall’Ufficio affari riservati del ministero dell’Interno, fu la risposta di chi sperava in una clima di terrore, per imporre una svolta autoritaria. 
Non ce la fecero. Tutti sapevano chi era STATO. 
Fascisti vecchi e nuovi furono la manovalanza di una trama tessuta da chi temeva che i movimenti di quell’anno potessero prendere una piega sovversiva.
Quando i movimenti sociali fanno paura, lo Stato reagisce con la violenza.
La democrazia reale ammette il dissenso, purché resti semplice opinione, mero esercizio di eloquenza, banale gioco di parola. Se il dissenso diviene attivo, se si fa azione diretta, se rischia di far saltare le regole di un gioco feroce, la democrazia reale mette in campo ogni arma per piegare chi ne nega la legittimità.
Quando vengono messi in pericolo proprietà privata, gerarchia, tribunali e polizia lo Stato democratico colpisce a fondo.
A volte bastano le regole di un gioco truccato alla partenza, a volte servono squadracce e fascisti con le bombe. A volte basta un carabiniere con una pistola, come a Torino il 18 dicembre del 1922, a Milano il 15 dicembre del 1969, a Genova il 20 luglio del 2001.

giovedì 19 dicembre 2019

Valpreda è colpevole


Pietro Valpreda è colpevole di NON aver messo le bombe della strage di Milano, ma i suoi crimini sono molto più gravi dell’assassinio di sedici persone innocenti: la Repubblica Italiana lo ha già condannato senza possibilità di appello né di riabilitazione.
Pietro Valpreda è nato colpevole. Colpevole come tutti quelli che nascono in una famiglia, in una casa, in un quartiere poveri di una città industriale, colpevole come tutti i figli degli sfruttati. Ma Pietro Valpreda ha voluto trasformare questa condizione di colpevolezza in una scelta criminale rifiutando la propria condizione di sfruttato, rifiutando di passare dalla parte degli sfruttatori e dei loro servi. Pietro Valpreda è colpevole. Pietro Valpreda è la belva umana colpevole di aver scelto la povertà. Colpevole di avere i capelli lunghi. Colpevole di non avere amicizie influenti. Colpevole di non portare la cravatta. Colpevole di non timbrare un cartellino. Colpevole di non essere una spia. Colpevole di essere un ballerino. Colpevole di non essere un ballerino famoso. Colpevole di non essere un violento. Colpevole di vivere le proprie idee. Colpevole di non avere in tasca la tessera di un partito. Colpevole di credere nella rivoluzione proletaria. Colpevole di essere un anarchico. COLPEVOLE DI ESSERE UN UOMO.
Cosa importa se non è lui che ha messo le bombe, cosa importa? Pietro Valpreda è il mostro che deve essere schiacciato: un insulto, una provocazione vergognosa che lo stato borghese deve cancellare, per cercare di cancellare tutto quello che Valpreda rappresenta.
Non ci sono inchieste, libri, petizioni, interpellanze parlamentari, giudici integerrimi che possono far riconoscere l’innocenza di Pietro Valpreda. Sta a noi compagni gridare così forte da fermare per la paura la mano del boia. Noi non vogliamo celebrare un altro martire, noi ti vogliamo tra di noi, colpevole tra i colpevoli, compagno tra i compagni per continuare la lotta, per continuare la vita. La vita di Pietro Valpreda e dei compagni che lo stato italiano sta assassinando.
(Tratto da A Rivista Anarchica Anno II N.2 Febbraio 1972)

lunedì 16 dicembre 2019

Lunedì 16 dicembre. Strage di Stato. 50 anni di criminalità del potere


Sono passati 50 anni dalla strage di piazza Fontana.
Il 12 dicembre 1969 una bomba esplose alla Banca Nazionale dell’Agricoltura: uccise 17 persone e ne ferì 88.
Il 1969 fu l’anno in cui lo scontro di classe fu il più intenso e radicale nella storia della Repubblica.
Quella di piazza Fontana fu una strage di Stato, la prima delle tante che negli anni successivi insanguinarono l’Italia.
Dopo la strage si scatenò una durissima repressione contro gli anarchici: centinaia di compagni furono fermati e trattenuti in questura.
Uno di loro, Giuseppe Pinelli, precipitò dal quarto piano della questura di Milano. La polizia liquidò la faccenda come suicidio, per coprire l’assassinio di Pino.
Pietro Valpreda, accusato della strage, venne liberato dopo tre anni di prigione.
Oggi in tanti provano a riscrivere quella storia.
La verità su quella vicenda, che spezzò per sempre qualsiasi illusione sulla Repubblica nata dalla Resistenza, è patrimonio di una memoria resistente che i movimenti continuano tenacemente ad alimentare.
Oggi come allora sappiamo che “la strage è di Stato – Pinelli è stato assassinato – Valpreda è innocente”!
Oggi le stragi di Stato continuano… Nel Mediterraneo, per le strade delle nostre periferie, nei cantieri dove si muore di lavoro, sulle montagne dove muoiono i migranti…
Ne parliamo con Massimo Varengo, testimone e protagonista di quei giorni
alle ore 21 alla Federazione Anarchica in corso Palermo 46

domenica 15 dicembre 2019

Giuseppe Pinelli

Nasce a Milano il 21 ottobre 1928 da Alfredo e Rosa Malacarne. Nel 1944, sedicenne, partecipa alla Resistenza antifascista come staffetta della BGT Franco, collaborando con un gruppo di partigiani anarchici, che costituiscono il suo primo tramite con il pensiero libertario. Nel 1954 entra nelle ferrovie come manovratore. Nel 1955 si sposa con Licia Rognini. Nei primi anni ’60 si costituisce a Milano un gruppo di giovani anarchici (Gioventù libertaria). Nel 1965 dopo una decina di anni senza sede, se ne apre una in viale Murillo, Pinelli è tra i fondatori del circolo Sacco e Vanzetti. In seguito ad uno sfratto, gli anarchici milanesi cambiano sede e il primo maggio del 1968 viene inaugurato il circolo anarchico Ponte della Ghisolfa, sito in piazzale Lugano, nel periferico quartiere operaio della Bovisa. Siamo nel ’68 e il vento della contestazione che soffia dalla Francia arriva anche a Milano. L’ambiente anarchico milanese è in pieno fermento, in molte scuole superiori nascono nuclei libertari, anche nelle fabbriche ci sono operai anarchici e frequenti sono i volantinaggi di primo mattino. Gli anarchici milanesi sentono la necessità di una seconda sede, questa volta nella zona Sud di Milano. Tra i più impegnati nella sistemazione e nell’apertura del Circolo di via Scaldasole c’è il Pinelli. Il 25 aprile 1969 due attentati colpiscono la Stazione Centrale e la Fiera. Le indagini si indirizzano verso ambienti libertari e alcuni anarchici vengono arrestati: è l’inizio di una campagna di criminalizzazione, che trova nuova linfa in agosto, quando alcuni attentati ai treni vengono ancora attribuiti agli anarchici. Pinelli e il gruppo Bandiera Nera danno vita sull’esempio della Black Cross inglese di quei mesi e della Croce Nera russa degli anni ’20, alla Crocenera anarchica, specificatamente dedita alla solidarietà concreta con i compagni detenuti, ma anche alla pubblicazione di un bollettino di controinformazione. Pinelli è l’anarchico più in vista e frequentemente è in questura per richieste di autorizzazione ecc. il suo interlocutore è perlopiù un giovane commissario di polizia, informale nei modi: Luigi Calabresi. Così, quando nel tardo pomeriggio del 12 dicembre 1969, subito dopo l’attentato di piazza Fontana, Calabresi si presenta al Circolo di via Scaldasole e invita Pinelli a recarsi in questura, questi acconsente senza problemi.
In questura Pinelli incontra, in un grosso salone, gran parte degli anarchici milanesi, fermati come lui per chiarire il proprio alibi. Entro 48 ore, limite massimo concesso dalla legge di allora per il fermo di polizia, molti fermati vengono rilasciati, alcuni spostati nel carcere di San Vittore. Pinelli invece viene trattenuto in questura aldilà del limite legale. Viene interrogato. Poi intorno alla mezzanotte tra il 15 e 16 dicembre, il suo corpo vola da una stanza dell’Ufficio politico al quarto piano e si sfracella a terra. Pinelli muore a Milano all’Ospedale Fatebenefratelli nella notte tra il 15 e 16 dicembre 1969. La vicenda politico giudiziaria del suo assassinio, intrecciata con l’intera storia della strage di piazza Fontana, in particolare con il caso Valpreda, diventerà negli anni un vero e proprio boomerang per il potere. I maldestri tentativi di mettere a tacere il tutto, culminati nella tesi del malore attivo proposta dal giudice Gerardo D’Ambrosio, non faranno che evidenziare quella verità che non hanno ancora trovato spazio nelle carte ufficiali.


mercoledì 11 dicembre 2019

Perché le bombe (12 dicembre 1969)

Il 12 dicembre 1969 le forze di sinistra scoprono che in Italia c’è la repressione.
È infatti in quella data che i cortei e le manifestazioni gridano lo slogan tardivo la repressione non passerà mentre purtroppo era già passata e le bombe ne erano l’apice.
La repressione era già iniziata in modo chiaro e inequivocabile. Gli anarchici, colpiti per primi dalle manovre reazionarie con gli arresti dei compagni incarcerati per gli attentati del 25 aprile 1969, avevano capito cosa stava accadendo. Già nel giugno 1969 sul numero uno del bollettino dell’organismo assistenziale per le vittime politiche “Crocenera anarchica” scrivevano che lo scopo delle bombe fasciste camuffate da anarchiche era di: suscitare la psicosi dell’attentato sovversivo per giustificare la repressione poliziesca e l’involuzione autoritaria; gettare discredito sugli anarchici e su tutta la sinistra. Essenziale per ottenere il secondo risultato e utile anche per il primo è di fare qualche ferito innocente o meglio ancora qualche morto. Nel numero di agosto approfondendo l’analisi, la Crocenera si domandava: “Dove vige un regime autoritario, alla vigilia della visita di qualche importante uomo di stato vengono effettuati dei controlli particolari, teste calde, sediziosi ed anarchici vengono trattenuti dalla polizia, chi per accertamenti, chi per pretesi crimini. Ci si domanda allora, in questo terribile 1969 chi diavolo sta arrivando in Italia?” La risposta era una sola: “Non ragioniamo certo come coloro che pensano ad un colpo militare alla greca, perché in Italia il colpo di stato è già stato attuato in maniera più italiana e consona allo stato delle cose”. Ma il discorso si spingeva più a fondo e coerentemente all’analisi sviluppata coglieva, purtroppo, nel segno indicando l’unica alternativa che restava alla classe dominante: creare la situazione di emergenza, la situazione intollerabile e lo stato di necessità in cui qualsiasi nefandezza è legale, creare la disperazione che faccia salutare come liberazione la perdita di libertà.
Queste parole si persero però nell’indifferenza e sempre sul bollettino della Crocenera anarchica, subito dopo le bombe, gli anarchici scrivevano: “La strage di Piazza Fontana non ci è giunta del tutto inattesa. Da molto tempo prevedevamo e temevamo un attentato sanguinario. Era nella logica dei fatti. Era nella logica dell’escalation provocatoria iniziata il 25 aprile. Per giustificare la repressione, per seminare la giusta dose di panico, per motivare la diffamazione giornalistica e scatenare l’esecrazione pubblica ci voleva del sangue. È il sangue c’è stato”.
Purtroppo come avevamo previsto, la repressione mascherata da democratica tutela dell’ordine contro gli opposti estremismi ha continuato la sua marcia.


(Tratto da A Rivista Anarchica, anno I numero 7, settembre-ottobre 1971)

martedì 10 dicembre 2019

Il termine COMPAGNA/O


Dal XIII secolo fino alla rivoluzione francese, il termine compagno, o compagna, di arte indicava l'artigiano operaio che, dopo aver terminato il suo apprendistato di parecchi anni al servizio di un maestro artigiano-operaio, aveva dimostrato le sue capacità realizzando un "capolavoro". La storia del compagnonnage, lunga e molto confusa, ha ben poca importanza per la conoscenza delle origini del socialismo e dell'anarchismo - salvo per quanto l'anarchismo individualista ha trovato un alimento in taluni concetti (specie economici) venuti direttamente dalla tradizione del lavoro artigianale e della sua organizzazione. L'apparizione delle manifatture, e poi delle fabbriche, facendo nascere prima gli operai proletari e poi una classe operaia, ha respinto il compagno-artigiano o verso la piccola borghesia commerciante, o verso le cooperative di produzione della piccola borghesia commerciante,o verso le cooperative di produzione della piccola industria d'arte e marginale, dato che questi due ambienti si sono dimostrati particolarmente favorevoli a un certo umanesimo individualista. L'operaio artigiano ha dei compagni d'arte, l'operaio proletario ha dei compagni, dei camerati. Questi dividono con lui la sua camera (dallo spagnolo camerada); gli altri dividevano il pane. Bisogna segnalare che la differenza tende a sparire. La compagna è la donna con cui si vive. L'uso di questa parola, praticamente abbandonata dai comunisti francesi dagli anni 30, permette: 1) di negare le categorie borghesi (moglie, amante); 2) di inserire nel linguaggio la nozione di uguaglianza dei componenti la coppia.

venerdì 6 dicembre 2019

Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell'uomo


Il movimento operaio tutte le volte che ha saputo fuggire alla demagogia ha fondato le rivendicazioni dei lavoratori sulla dignità del lavoro. Proudhon osava scrivere: "Il genio del più semplice artigiano è altrettanto superiore ai materiali che egli utilizza dello spirito di un Newton rispetto alle sfere inerti di cui calcola le distanze, le masse e le rivoluzioni"; Coloro, che pongono al centro della questione sociale la dignità del produttore in quanto tale, si ricollegano alla stessa corrente di pensiero. Nell'insieme, possiamo essere fieri di appartenere ad una civiltà che ha portato con sé il presentimento di un ideale nuovo. E' impossibile concepire qualcosa di più contrario a questo ideale della forma che ai giorni nostri ha assunto la civiltà moderna, al termine di una evoluzione durata parecchi secoli. Mai l'individuo è stato così completamente abbandonato ad una collettività cieca, e mai gli uomini sono stati più incapaci non solo di sottomettere le loro azioni ai loro pensieri, ma persino di pensare. I termini di oppressori e di oppressi, la nozione di classe, tutto ciò sta perdendo ogni significato, tanto sono evidenti l'impotenza e l'angoscia di tutti gli uomini dinanzi alla macchina sociale, Diventata una macchina per infrangere i cuori, per schiacciare gli spiriti, una macchina per fabbricare incoscienza, stupidità, corruzione, ignavia, e soprattutto vertigine. La causa di questo doloroso stato di cose è molto chiara. Viviamo in un mondo dove nulla è a misura dell'uomo; c'è una sproporzione mostruosa tra il corpo dell'uomo, lo spirito dell'uomo, e le cose che costituiscono attualmente gli elementi della vita umana; tutto è squilibrio.

sabato 30 novembre 2019

La banda Bonnot (da piccoli)

Jules Bonnot, da ragazzo colleziona furtarelli di poco conto, abbassa la cresta a qualche galletto di quartiere e fa la pelle a un losco individuo il cui cadavere viene ripescato nella Moselle. Viene imprigionato dopo aver usato un tirapugni americano sulla faccia dei gendarmi di quartiere. Quando esce dal carcere ha una lite violenta con il padre perché non la pianta di fargli prediche e scenate. Nonostante sia diventato conducente e meccanico di Sir Arthur Conan Doyle, continua con le sue bravate. Diventa bravo a rubare bici e motocicli, a far circolare alcool di contrabbando, a trafficare automobili, a fabbricare monete false per macchinette a gettoni, poi banconote false, a forzare casseforti con la fiamma ossidrica e ad assaltare treni.
Jules Bonnot a 20 anni

Octave Garnier, già da quando lavorava sullo sdoppiamento della linea Dieppe-Pontoise, fomentava scioperi ed esortava all’eliminazione dei gallonati di qualunque specie. Chiamato alle armi, diserta. Accampato insieme a Callemin nei locali del giornale l’Anarchie, dove c’è perfine una postazione di tiro al bersaglio. All’insaputa del responsabile del luogo Victor Serge, si mette a stampare banconote false e carte da ispettori di sicurezza. Con Carouy, e spesso Metge il cuciniere, ruba macchine da scrivere, statuine stoffe pregiate e organizza razzie negli uffici postali, nelle esattorie e nelle verande degli ufficiali.
Octave Garnier

Raymond Callemin, poi Raymond la Scienza, fin da piccolo era imbattibile nel rubare leccornie per poi gustarle sui tetti del Palazzo di Giustizia di Bruxelles. Pizzicato a 17 anni durante una delle sue imprese illegali non trova più nessun tipo di lavoro. Quindi la strada del banditismo lo travolge: di volta in volta viene accusato di furto nei locali pubblici, di percosse e lesioni su persone addette alla sorveglianza, di frode ferroviaria, di pestaggio contro il padrone di un cantiere.
Raymond Callemin

Andrè Soudy, a 13 si fa un mese per aver sostenuto degli scioperanti con dei volantini del sindacato dei droghieri. L’anno dopo per resistenza e oltraggio agli agenti che viene nuovamente incarcerato. Torna nuovamente in carcere per furto e ricettazione. I suoi soggiorni nelle patrie galere gli danno tutto il tempo per leggere Stirner e Nietzsche.
Andrè Soudy


domenica 24 novembre 2019

Lunedì 25 novembre. Presidio contro la violenza patriarcale

Lunedì 25 novembre
ore 16 in via Po 16
Ti amo da (farti) morire
Presidio contro la violenza patriarcale.
Oltre il genere, le nostre identità erranti spezzano l’ordine. Morale, economico, sociale.
Wild C.A.T – Collettivo Anarcofemminista Torinese

Lo Stato e l’Azione Diretta

L'essenza stessa dello Stato è l'esercizio monopolista del potere, con l'effetto di disarmare l'autonomia del popolo e di farla da esso delegare a una serie di istituzioni che ideologicamente e culturalmente lo Stato mistifica - elezioni, parlamento, etc. - facendo credere che sia il popolo a decidere ed a esercitare pienamente il potere. Questo è falso e serve solo a disarmare politicamente e ideologicamente le masse lavoratrici, ponendo ad esse un freno nella costruzione dei suoi propri strumenti rivoluzionari di lotta che permettono di intravedere una trasformazione radicale della società
La borghesia attraverso la globalizzazione ha generato un'ampia ondata di disinteresse e di egoismo nel popolo. Le mistificazioni create dallo Stato per potere perpetuare il monopolio del potere, generano nel popolo una sensazione di passività, fanno vedere che determinati strumenti in precedenza di lotta si istituzionalizzano, passando ad essere parte costitutiva del complesso tessuto degli apparati di dominazione sociale. (vedi un certo Sindacato).
Il confronto diretto contro il potere statale richiede non solo un impegno politico e ideologico determinato, ma anche una correlazione fra esso ed il metodo utilizzato o propugnato per poter cominciare a edificare dalla base il potere popolare, e uno degli strumenti metodologici propri dell'anarchismo è l’Azione Diretta, che è un a specie di cammino su due percorsi che non si escludono fra di loro, bensì l'uno è la condizione dell'altro: critica e confronto contro il sistema capitalista.
Questa critica e questo confronto col sistema capitalista tradotti nell'azione diretta non sono solo un concetto di carattere negativo, bensì anche positivo, giacché plasma una proposta che costituisce un principio basilare dell'anarchismo: la non delegazione del potere, il che significa acquistare coscienza ed agire in forma diretta vuol dire volontà di azione. L'Azione Diretta è il rifiuto delle mediazioni politiche, delle minoranze illuminate che impostano la delega de potere popolare a determinate istanze organizzative. L'indelegabilità del potere è l'esercizio pratico della libertà ed uno strumento di insurrezione contro l'attuale stato di cose di tutti gli oppressi organizzati.
Insieme all'azione diretta i libertari proclamano anche la lotta per distruggere lo sfruttamento della persona sulla persona. La base per distruggere la disuguaglianza in seno al popolo è data dalla proprietà comune dei mezzi di produzione e la costruzione di organizzazioni economiche e sociali basate sui principi di uguaglianza e di autogestione.

domenica 17 novembre 2019

Bon anniversaire

Buon compleanno

Happy birthday

Alles gute zum geburtstag

Feliz cumpleaños

Bon anniversaire


giovedì 14 novembre 2019

L'Occidente oggi è un moribondo che uccide

L'Occidente, la nostra civiltà, ormai si è sposato con la morte, oggi è un moribondo che uccide e la sua agonia sarà terribile - guerra sociale e guerra culturale. Tutte le civiltà sono strutture storiche, contingenti, con un principio e una fine. Nascono un giorno e muoiono un altro. Il capitalismo occidentale non farà eccezione. La decadenza di una civiltà di solita è accompagnata da turbolenze, drammi, conflitti. All'Occidente sta succedendo la stessa cosa.
I segnali della crisi del Capitalismo, della sua vecchiaia irreversibile sono clamorosi: la cosiddetta "cancellazione delle ideologia", una verità parziale e l'ascesa di uno scetticismo menomato, di un pragmatismo a-teorico con quel che comporta in termini di rinuncia al pensiero (non-pensiero), di prostrazione dell'immaginazione critica e dell'impulso creativo; l'esaurimento di tutte le arti e l'anemia della produzione culturale; l'astensionismo politico e un discredito della dinamica elettorale difficile da nascondere; l'invasione della povertà; la certezza di un collasso ecologico che può essere solo posticipato; eccetera. Negando l'evidenza di questa crisi, si direbbe che i pensatori ex-contestatori facciano propria, realmente, una prospettiva di fine della storia, come se la nostra civiltà fosse stata premiata con l'onorificenza dell'eternità e il nostro Sistema costituisse la realizzazione perfetta della Ragione, la meta verso cui, con ostinazione, si incammina l'Umanità; come se non sopravvivesse da nessuna parte il seme di una alternativa (anche se ciò fosse vero, non si potrebbe ricavarne un certificato di buona salute del capitalismo: le culture iniziano a morire prima che venga rivelato il volto del loro erede, prima che si profilino i contorni delle civiltà che le sostituiranno), come ci rimanesse solo un compito, un esercizio plausibile, una dedizione rispettosa: prenderci cura dell'esistente, ripararlo, aggiustarlo, universalizzarlo. Commettono, dunque, lo stesso errore in cui incappò il Comunismo: immaginare di aver già attraversato la soglia del Paradiso e che finalmente sia giunta l'ora di abilitarlo e difenderlo; sognare che la storia, avendo dato il suo frutto (il liberalismo globalizzato), la smetta di procuraci dei fastidi, di darci degli scossoni.
Probabilmente stiamo arrivando davvero alla Fine; ma non alla "fine della storia", quanto ai rantoli di una civiltà incredibilmente presuntuosa, pateticamente innamorata di sé.

lunedì 11 novembre 2019

Discontinuità tra le società senza Stato e quelle fondate sullo Stato

Non si può realizzare il desiderio di comandare senza il correlato desiderio di obbedire. Noi diciamo che le società primitive, in quanto società indivise, impediscono al desiderio di potere e a quello di sottomissione di realizzarsi: sono macchine sociali, rette dalla volontà di permanere nel proprio essere indiviso, che si istituiscono come luoghi di repressione dei cattivi desideri. Ai quali non viene lasciata alcuna possibilità. I selvaggi non ne vogliono sapere.
Non si può non sottolineare come incida la consuetudine nel consolidare l'atteggiamento servile, come da un iniziale snaturamento si transiti ad una nuova identità, come dalla libertà si passi ad un dominio costante del uomo sull'uomo. In sostanza, per comprendere bene queste dinamiche per coglierne la vera portata, è necessario rinunciare ad assumere una concezione evoluzionista della storia, riconoscendo chiaramente la radicale rottura che avviene nel passaggio dalle società primitive a quelle cosiddette civile ed evolute. Questa rottura profonda e drammatica separa le società in cui i capi sono senza potere dalle società in cui la relazione di potere è costitutiva delle varie comunità, introduce cioè una discontinuità netta tra le società senza Stato e quelle fondate sullo Stato.
Il rifiuto di una obbedienza non è affatto, come credevano missionari ed esploratori, un tratto del carattere selvaggio, ma l'effetto a livello dei singoli individui dei meccanismi sociali, il risultato di un'azione e di una decisione collettiva.

giovedì 31 ottobre 2019

Questo mondo è un mostro di forza


Friedrich Nietzeche
Questo mondo è un mostro di forza, senza principio, senza fine, una quantità di energia fissa e bronzea, che non diventa né grande né più piccola, che non si consuma, ma solo si trasforma, che nella sua totalità è una grandezza invariabile, un'economia senza profitti né perdite, ma anche senza incremento, senza entrate, circondata dal nulla come dal suo limite; non svanisce né si sperpera, non è infinitamente esteso, ma inserito come un'energia determinata in uno spazio determinato, e non in uno spazio che in qualche punto sia vuoto, ma che è dappertutto pieno di forze, un gioco di forze, di onde di energia che è insieme uno e molteplice, di forze che qui si accumulano e là diminuiscono, un mare di forze che fluiscono e si agitano in se stesse, in eterna trasformazione, che scorrono in eterno a ritroso, un mondo che ritorna in anni incalcolabili, il perpetuo fluttuare delle sue forme, in evoluzione dalle più semplici alle più complesse; un mondo che da ciò che è più calmo, rigido, freddo, trapassa in ciò che è più ardente, selvaggio, contraddittorio, e poi dall'abbondanza torna di nuovo alla semplicità, dal gioco delle contraddizioni torna al gusto dell'armonia e afferma se stesso anche nell'eguaglianza delle sue vie e dei suoi anni, e benedice se stesso come ciò che deve eternamente tornare, come un divenire che non conosce né sazietà, né disgusto, né stanchezza.

venerdì 25 ottobre 2019

Rojava. Contro tutti gli stati, una solidarietà senza confini


Dal 9 ottobre, dopo aver ricevuto il via libera dal presidente statunitense Trump, lo Stato turco ha dato il via all’invasione del Rojava e intrapreso una nuova guerra contro la Federazione della Siria del Nord con bombardamenti indiscriminati e con l’attacco di forze di terra.
Per il governo turco è necessario annientare un pericoloso esempio di resistenza e di sperimentazione di libertà nella regione, basato su comunità che hanno deciso di abbracciare una rivoluzione confederale, femminista ed ecologista.
Bombardamenti di città, ospedali, acquedotti uccidono, mutilano, obbligano alla fuga centinaia di migliaia di persone. In quest’area ci sono città e villaggi cruciali per la sperimentazione sociale in atto nella regione. In questa zona sorge anche Kobanê, che fu liberata dall’assedio dello stato islamico nel gennaio 2015 grazie alla resistenza della popolazione, delle milizie YPG e YPJ, e alla solidarietà internazionale.
Una nuova guerra di espansione serve a Erdoğan, il presidente turco, per mantenere un consenso che mostra le prime vistose crepe. Come due anni fa durante l’invasione di Afrin, tutti i partiti parlamentari tranne l’HDP si schierano a sostegno dell’esercito turco e della nuova campagna militare. Questo permette a Erdoğan e al blocco di potere dell’AKP di ottenere anche il sostegno del principale partito di opposizione, il CHP, creando un blocco patriottico. L’attacco dell’esercito turco e delle milizie jihadiste ha spinto i vertici federali del Rojava a stringere un accordo con il governo di Damasco, ugualmente pericoloso per il confederalismo democratico.
Solo una forte movimento di solidarietà internazionale può sostenere la resistenza, un movimento antimilitarista e antiautoritario può fermare l’offensiva dello stato turco e fermare la guerra. Chiare sono le responsabilità delle potenze che hanno usato la Siria come un campo di battaglia per i loro interessi imperiali dagli: Stati Uniti di Trump alla Russia di Putin, dal regime autoritario di Assad all’ipocrisia dell’Unione Europea. Non ultimo lo stato italiano che che nonostante le dichiarazioni del governo di questi giorni sostiene apertamente la politica militare di Ankara. L’Italia e la Turchia sono entrambe nella NATO, e solo nel 2018 l’Italia ha venduto armi alla Turchia per un valore complessivo di 362,3 milioni di euro.
Negli ultimi tre anni le esportazioni hanno reso all’industria bellica italiana 890 milioni di euro. Si tratta di armi e sistemi d’arma: elicotteri da guerra, razzi, missili e software per la direzione del tiro, pistole, fucili e munizioni. Quest’anno, secondo i dati Istat le consegne effettive della categoria “armi e munizioni” hanno raggiunto un valore record. Cifra mai raggiunta (124 milioni di euro) anche per “aeromobili, veicoli spaziali e relativi dispositivi”.
Un buon business un business mortale.
Non solo. L’Italia mantiene una missione militare a supporto dell’esercito turco, proprio al confine tra Siria e Turchia con circa 130 soldati e una batteria antimissile.

Il 26 e 27 novembre 2019 si tiene a Torino “Aerospace & defence meeting”, mostra mercato internazionale dell’industria aerospaziale di guerra.
La convention, giunta alla sua settima edizione, ha quest’anno un focus sull’innovazione produttiva, la trasformazione digitale per l’industria aerospaziale 4.0.
Un’occasione per valorizzare le eccellenze del made in Italy nel settore armiero, in testa il colosso Leonardo, con un focus sulle aziende piemontesi leader nel settore: Thales Alenia Space, Avio Aero, UTC Aerospace Systems.
Nelle foto dei meeting passati si vedono alveari di uffici, dove persone eleganti vendono e comprano i giocattoli, che distruggono intere città, massacrano civili, avvelenano terre e fiumi. Giocattoli di guerra. Guerre combattute con armi costruite a due passi dalle nostre case.
Torino è uno dei principali centri dell’industria aerospaziale bellica.
L’Aerospace and defence meeting è un evento semi clandestino, chiuso, dove si giocano partite mortali per milioni di persone in ogni dove. Possiamo gettare un granello di sabbia per incepparne il meccanismo, per impedire che il business di morte celebri i suoi riti nell’indifferenza dei più.
Fermare i massacri in Rojava e l’invasione dipende anche da noi. Le fabbriche d’armi sono nelle nostre città, a due passi dalle nostre case. La rivolta morale non basta a fermare la guerra, se non sa farsi resistenza concreta.
Sempre a fianco di chi lotta e resiste ai bombardamenti, agli incendi, alle torture dell’esercito turco e delle milizie dello Stato Islamico.
Solidarietà alla resistenza in Rojava, solidarietà a coloro che hanno combattuto e combattono il fanatismo religioso e tutte le forme di autoritarismo!
Sempre con chi lotta per la libertà e l’uguaglianza, contro tutti gli stati

martedì 22 ottobre 2019

Anarchia e Comunismo Carlo Cafiero

Il suo scritto più originale, Anarchia e comunismo del 1880, muove dalla convinzione che la rivoluzione sia una legge che regola la storia dell’umanità e che rende possibile il progresso dei popoli nel corso del tempo: “la rivoluzione è causa ed effetto di ogni progresso umano, è la condizione di vita, la legge naturale dell’umanità: arrestarla è un crimine; ristabilire il suo corso è un dovere umano”. Non è difficile scorgere in questa affermazione, un’eco marxiana. Cafiero era convinto che la società borghese dell’Ottocento fosse profondamente ammalata e che per essa non vi fosse speranza di guarigione se non attraverso una rivoluzione, della cui necessità il proletariato cominciava a rendersi conto, come gli scioperi, le manifestazioni di protesta e le rivolte sempre più frequenti in tutti gli stati europei dimostravano eloquentemente. La mèta a cui bisogna tendere è la libertà, che non può consistere nel semplice riconoscimento dei diritti borghesi, incapaci di incidere sulle condizioni di vita dei lavoratori e di soddisfare le loro esigenze più importanti; la via a cui ricorrere per liberare l’umanità da ogni catena è la rivoluzione violenta. Fin qui, egli concorda con Marx ed Engels. Per questo motivo, Cafiero è contrario al socialismo ufficiale che persegue il proprio disegno nel rispetto pieno della legalità, attraverso una via evoluzionistica (l’attuazione graduale di una politica di riforme a vantaggio del proletariato), e giudica il passaggio di Andrea Costa nel 1881 dall’anarchismo al socialismo e all’azione parlamentare un vero tradimento della causa del proletariato. Per Cafiero non c’è vera libertà senza l’anarchismo, come non può esserci effettiva uguaglianza tra gli uomini senza il comunismo. Infatti l’anarchia viene concepita come la condizione del libero sviluppo sia dell’individuo che della società e il comunismo viene considerato come riappropriazione, da parte dell’umanità nel suo complesso, di tutte le ricchezze della terra, delle quali era stata espropriata ad opera di una minoranza: anche qui l’influsso marxiano è fin troppo evidente. Il suo pensiero, per il quale accetta le definizioni di collettivismo e di comunismo, che considera sinonimi, ha sulla scia di Bakunin, un orientamento nettamente anti-individualistico:
 “non solo si può essere comunisti; bisogna esserlo, a rischio di fallire lo scopo della rivoluzione una volta ci dicevamo "collettivisti" per distinguerci dagli individualisti e dai comunisti autoritari, ma in fondo eravamo semplicemente comunisti antiautoritari, e, dicendoci "collettivisti" pensavamo di esprimere in questo modo la nostra idea che tutto dev’essere messo in comune, senza fare differenze tra gli strumenti e i materiali di lavoro e i prodotti del lavoro collettivo.... Non si può essere anarchici senza essere comunisti. Dobbiamo essere comunisti, perché nel comunismo realizzeremo la vera uguaglianza. Dobbiamo essere comunisti perché il popolo, che non afferra i sofismi collettivisti, capisce perfettamente il comunismo. Dobbiamo essere comunisti, perché siamo anarchici, perché l'anarchia e il comunismo sono i due termini necessari della rivoluzione”.

lunedì 14 ottobre 2019

Principio rivoluzionario della libertà


Due sono i caratteri fondamentali della libertà: positivo e negativo.
La libertà positiva denota lo stato di godimento della libertà, la libertà negativa quello della lotta contro il suo massimo impedimento: il principio di autorità. La rivolta dell’individuo contro ogni autorità divina e umana, collettiva e individuale rimanda infatti proprio al principio di autorità: ogni autorità, infatti, non può altro che significare il principio di autorità. Contro di esso pertanto non può che ergersi il principio opposto, il principio rivoluzionario della libertà.
La libertà è rivoluzionaria non quando attacca un’autorità storicamente determinata, nella sua materiale e finita esistenza, ma quando ne demolisce il principio informatore, la cui natura non può che essere metafisico-universale in quanto essa, per l’appunto, è ravvisabile in ogni particolare concretezza storica. Il principio informatore, ovvero il concetto sottoteso dell’esistenza specifica di  ogni realtà storicamente data. Ecco perché Bakunin si pone contro i due massimi archetipi dell’autorità: l’archetipo divino e quello mondano, ovvero Dio e lo Stato. Essi non sono due entità ideali, ma due principi attivi, reali, sono le colonne sulle quali si regge l’ordine gerarchico che governa il mondo. Perciò solo assaltando il supremo principio metafisico del cielo e della terra diventa possibile demolire ogni sua fenomenologia materiale e dunque avviare la dissoluzione di tutte le organizzazioni e istituzioni religiose, politiche, economiche e sociali attualmente esistenti.

giovedì 10 ottobre 2019

Lettera aperta della famiglia di Orso in merito all'invasione turca del Rojava

Lorenzo, nostro figlio e fratello, è morto il 18 marzo 2019 in Rojava combattendo a fianco dei curdi e delle forze confederate della Siria contro l'ISIS e gli ultimi resti il califfato.
La sua storia, la storia di un giovane che partendo da Rifredi, quartiere di Firenze, aveva deciso di lasciare tutto, la sua città, casa, lavoro, famiglia, amici... per sostenere il popolo curdo in questa lotta ha emozionato molte persone.
Vi scriviamo per chiedervi: volete abbandonare chi ha combattuto l’Isis?
Lorenzo è stato riconosciuto come un esempio di partigiano internazionalista e antifascista, che ha scelto da che parte stare e di schierarsi concretamente andando a combattere dove c'era bisogno di lottare per sradicare il fascismo che in quelle aree si stava affermando nelle forme dell'Isis e delle forze che lo sostengono.
Attraverso la sua scelta di vita e la sua morte ha fatto conoscere a tanti la realtà che si sta costruendo nel Rojava, nella zona nord-est della Siria, dove la democrazia che nasce dal basso, fondata sul rispetto delle diversità sociali e culturali, per una parità reale tra uomo e donna, sulla autogestione, sulla economia sociale si sta affermando.
Non tutti forse lo sanno, questa realtà si chiama Confederalismo Democratico ed è un laboratorio sociale che nasce dalle idee di Ocalan, leader curdo del PKK imprigionato da 25 anni nelle prigioni turche, senza il minimo rispetto dei suoi diritti e delle sue garanzie. È un esempio di coesistenza tra i popoli e quindi porta pace e sicurezza in un’area sociale così instabile e travagliata, scossa da attentati, conflitti, stragi...
Ora questa realtà, costruita col sangue di oltre 11.000 curdi e 36 volontari nternazionali, è minacciata e potrebbe essere distrutta.
L'esercito turco e i gruppi paramilitari che Erdogan sostiene nell'area -che non sono altro che un altro modo con cui l'ISIS prova a riproporsi- si stanno preparando ad attaccare il Rojava per eliminare la rivoluzione curda e tutto quello che rappresenta.
Questa aggressione militare turca si può ancora fermare, se c’è una mobilitazione generale.
Vi chiediamo: se abbiamo pianto per Lorenzo riconoscendo la bellezza del suo gesto davvero non vogliamo fare nulla per impedire questa nuova guerra ?
Abbiamo ancora voglia di scendere in piazza, protestare, gridare il nostro sdegno e la nostra rabbia indicando i mandanti e le colpe, mostrando la nostra voglia di un mondo più giusto e umano?
Il governo italiano prenderà posizione? E la Regione Toscana? E il comune di Firenze?
Tutto serve per fermare questa aggressione e serve ora.
Lorenzo ha combattuto ad Afrin nel 2018, dove sono stati migliaia i morti causati dall'invasione turca: vogliamo continuare a sostenere Erdogan, l'esercito turco e l'Isis in questa guerra ingiusta fornendo armi con le nostre fabbriche e soldi dell’Unione Europea per non aprire il corridoio balcanico ai migranti ?
Molti hanno pianto per Lorenzo-Orso Tekoser combattente colpiti dalla sua morte, ma ora potrebbe morire nuovamente e con lui tanti giovani curdi e altri popoli che vivono nel Rojava.
Non facciamolo morire nuovamente, facendo morire gli ideali e la causa per la quale si è sacrificato.
Lorenzo ci ha mostrato che nessuna causa è così lontana e così estranea alla nostra vita e che spesso è questione di scelte.
Alessandro, Annalisa e Chiara Orsetti



Sorveglianza Speciale: La spada di Damocle penzola un altro po'


Dal gennaio 2019 la procura di Torino sta cercando di applicare una misura restrittiva a chi è partito dall'Italia per andare a combattere l'Isis e altri gruppi fondamentalisti, e a difendere le popolazioni civili e le conquiste sociali nella regione rivoluzionaria del Rojava/Siria del nord. Questa vicenda non si è ancora conclusa, e per questo vi invitiamo a leggere quanto segue e ad agire in nostra solidarietà.
Poiché sarebbe stato impossibile accusarci di un reato, visto che ciò che abbiamo fatto non è proibito dalla legge italiana o dal diritto internazionale, il pubblico ministero Emanuela Pedrotta ha proposto per noi una misura speciale, originatasi nel ventennio fascista: la “sorveglianza speciale” che permette di espellere un individuo dalla propria città, confinarlo in un altra, imporgli di restare a casa in certi orari e addirittura privarlo del diritto di riunione e di espressione pubblica senza accuse e senza processo, sulla base della semplice “premonizione” poliziesca che potrebbe in futuro essere “socialmente pericoloso”.
La battaglia politica che in tanti hanno portato avanti per la nostra libertà e contro questa offesa alla reputazione internazionale delle forze mediorientali e internazionali che combattono il fondamentalismo e ai caduti di questa lotta - primo tra tutti Lorenzo Orsetti, che ci ha dedicato i suoi ultimi interventi pubblici prima di cadere in battaglia durante gli assalti decisivi contro lo Stato islamico, ha permesso di ottenere a giugno una sentenza favorevole ai combattenti internazionali Ypg: aver combattuto con queste forze, infatti, non può essere considerato per i giudici motivo di pericolosità sociale.
Ciononostante, il collegio ha voluto sollevare soltanto due di noi dalla spada di Damocle di questa misura (Jak e Davide, ed anche per un combattente sardo sotto accusa separatemente a Cagliari, Luisi) ma rimandare a una nuova udienza, il 15 ottobre, gli altri tre (Eddi, Jacopo e Paolo) per cui la sorveglianza speciale è ancora del tutto possibile. Perché?
I giudici hanno scritto, in sostanza, che se aver partecipato alla rivoluzione del Rojava non poteva giustificare una simile misura (che per noi è comunque ingiustificabile e non dovrebbe neanche esistere), alcuni comportamenti tenuti in Italia da Eddi, Paolo e Jacopo negli ultimi due anni devono essere analizzati e valutati ancora.
Di cosa si tratta, intanto: di un capodanno davanti al carcere, per ciò che riguarda Paolo, nel 2018, e di un raduno musicale di fronte a un locale notturno per Jacopo e Eddi nello stesso periodo. Nel primo caso si voleva testimoniare la propria vicinanza ai detenuti, che vivono nelle carceri situazioni penose, sovraffollamento, prevaricazioni e suicidi; nel secondo chiedere ai proprietari del locale di pagare finalmente il giovane cuoco che, come molti lavoratori al giorno d’oggi, aspettava migliaia di euro di arretrati da mesi, mentre i datori di lavoro si facevano i selfie in costose località balneari all’estero.
Non ci sembra che nessuno possa eccepire su attività del genere. È gravissimo che la procura abbia avviato un’azione penale per cose di questo genere, che sono pienamente legittime e rientrano nel diritto di manifestazione e di parola, oltre che nel dovere di solidarietà e di lotta per migliorare le condizioni di vita nella nostra società e nel nostro paese. Figuriamoci assegnare una misura (storicamente fascista, ricordiamolo ancora) “preventiva”: ma di cosa stiamo parlando?
Se i giudici avessero dato ragione alla tesi della procura, secondo cui le Ypg sono un’organizzazione pericolosa o terroristica, e i volontari internazionali persone che vogliono nuocere alla società europea, si sarebbe creato un precedente gravissimo. La vostra solidarietà e gli sforzi di Lorenzo hanno impedito che questo accadesse.
Ma se adesso, con una manovra bieca, il collegio dovesse privare Eddi, Jacopo e Paolo della loro libertà personale e di movimento, e della loro libertà politica, per essersi espressi assieme a tanti altri contro lo sfruttamento sul lavoro o la degradazione dell’essere umano che avviene quotidianamente nelle carceri, il precedente sarebbe forse meno grave rispetto a ciò che accade in Siria, ma ancora più grave in riferimento alla situazione politica dell’Italia e dell’Europa. Quali spazi di libertà rimarrebbero a ciascuno di noi? Quali possibilità di vivificare le nostre società con la critica e il cambiamento?
Per questo non soltanto vogliamo affermare che chi tocca uno di noi tocca tutti, e questo vale tanto per l’amicizia con la rivoluzione confederale e la lotta all’Isis, quanto per le battaglie sociali e politiche in Italia; ma anche chiamarvi ancora una volta alla mobilitazione verso il 15 ottobre, e al presidio che quel giorno si terrà davanti al Tribunale di Torino, alle h 8.30 del mattino.