Il suo scritto più originale, Anarchia e
comunismo del 1880, muove dalla convinzione che la rivoluzione sia una legge che
regola la storia dell’umanità e che rende possibile il progresso dei popoli nel
corso del tempo: “la rivoluzione è causa ed effetto di ogni progresso umano, è la
condizione di vita, la legge naturale dell’umanità: arrestarla è un crimine; ristabilire
il suo corso è un dovere umano”. Non è difficile scorgere in questa affermazione,
un’eco marxiana. Cafiero era convinto che la società borghese dell’Ottocento fosse
profondamente ammalata e che per essa non vi fosse speranza di guarigione se non
attraverso una rivoluzione, della cui necessità il proletariato cominciava a rendersi
conto, come gli scioperi, le manifestazioni di protesta e le rivolte sempre più
frequenti in tutti gli stati europei dimostravano eloquentemente. La mèta a cui
bisogna tendere è la libertà, che non può consistere nel semplice riconoscimento
dei diritti borghesi, incapaci di incidere sulle condizioni di vita dei lavoratori
e di soddisfare le loro esigenze più importanti; la via a cui ricorrere per liberare
l’umanità da ogni catena è la rivoluzione violenta. Fin qui, egli concorda con Marx
ed Engels. Per questo motivo, Cafiero è contrario al socialismo ufficiale che persegue
il proprio disegno nel rispetto pieno della legalità, attraverso una via evoluzionistica
(l’attuazione graduale di una politica di riforme a vantaggio del proletariato),
e giudica il passaggio di Andrea Costa nel 1881 dall’anarchismo al socialismo e
all’azione parlamentare un vero tradimento della causa del proletariato. Per Cafiero
non c’è vera libertà senza l’anarchismo, come non può esserci effettiva uguaglianza
tra gli uomini senza il comunismo. Infatti l’anarchia viene concepita come la condizione
del libero sviluppo sia dell’individuo che della società e il comunismo viene considerato
come riappropriazione, da parte dell’umanità nel suo complesso, di tutte le ricchezze
della terra, delle quali era stata espropriata ad opera di una minoranza: anche
qui l’influsso marxiano è fin troppo evidente. Il suo pensiero, per il quale accetta
le definizioni di collettivismo e di comunismo, che considera sinonimi, ha sulla
scia di Bakunin, un orientamento nettamente anti-individualistico:
“non
solo si può essere comunisti; bisogna esserlo, a rischio di fallire lo scopo della
rivoluzione una volta ci dicevamo "collettivisti" per distinguerci dagli
individualisti e dai comunisti autoritari, ma in fondo eravamo semplicemente comunisti
antiautoritari, e, dicendoci "collettivisti" pensavamo di esprimere in
questo modo la nostra idea che tutto dev’essere messo in comune, senza fare differenze
tra gli strumenti e i materiali di lavoro e i prodotti del lavoro collettivo....
Non si può essere anarchici senza essere comunisti. Dobbiamo essere comunisti, perché
nel comunismo realizzeremo la vera uguaglianza. Dobbiamo essere comunisti perché
il popolo, che non afferra i sofismi collettivisti, capisce perfettamente il comunismo.
Dobbiamo essere comunisti, perché siamo anarchici, perché l'anarchia e il comunismo
sono i due termini necessari della rivoluzione”.