..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

Translate

mercoledì 30 gennaio 2019

Crimethlnc: interrompere i processi che producono povertà

La provocazione che caratterizzò la nostra gioventù fu prendere alla lettera il motto situazionista NON LAVOREREMO MAI. Alcuni di noi decisero di provare sulla propria pelle se fosse realmente possibile. Questo atto di spavalderia rivelò tutto l’ingegno della spontaneità giovanile, e tutte le sue insidie. Anche se molti altri avevano percorso questa via in passato, per noi fu come essere i primati lanciati per primi nello spazio. In ogni caso, facevamo qualcosa, prendevamo il sogno della rivoluzione sul serio, come un progetto che si può avviare immediatamente nella propria vita, con – come si diceva allora – un aristocratico disprezzo per le conseguenze.
Di per sé, né la disoccupazione volontaria, né gli atti di vandalismo gratuito sembrano in grado di scuotere la società e indirizzarla verso una situazione rivoluzionaria. Nel giro di un decennio la storia ha reso obsoleto il nostro esperimento, accogliendo, per assurdo, la nostra rivendicazione di una classe inadatta al lavoro. Il tasso di disoccupazione negli Stati Uniti, presunto al 4% nel 2000, alla fine del 2009 era salito al 10% – contando soltanto le persone che cercavano attivamente un impiego. Gli eccessi della società dei consumi una volta offrivano a chi se ne chiamava fuori un certo margine di errore; la crisi economica ha eroso questo margine e ha conferito alla disoccupazione un sapore decisamente involontario.
È ormai evidente che il capitalismo non ha più bisogno di noi di quanto noi abbiamo bisogno di lui. E questo non vale soltanto per gli anarchici refrattari, ma per milioni di lavoratori negli Stati Uniti. Nonostante la crisi economica, le grandi multinazionali continuano a registrare enormi profitti, ma invece di usare queste entrate per assumere più dipendenti, investono nei mercati esteri, acquistano nuove tecnologie per ridurre il fabbisogno di manodopera, e distribuiscono i dividendi agli azionisti. Ciò che fa bene alla General Motors non fa bene al paese, insomma. Le aziende statunitensi più redditizie stanno ora trasferendo la produzione e i consumi all’estero, nei “mercati in via di sviluppo”.
In questo contesto, la cultura dell’autoesclusione assomiglia un po’ troppo a un programma volontario di austerità; ai ricchi conviene, se rifiutiamo il materialismo consumistico, dato che in ogni caso non c’è abbastanza per tutti. Alla fine del Ventesimo secolo, quando la maggior parte delle persone si identificava con la propria professione, il rifiuto di abbracciare il lavoro quale forma di realizzazione personale esprimeva il rigetto dei valori capitalistici. Oggi il lavoro saltuario e l’identificazione con le proprie attività ricreative, invece che con la carriera professionale, sono ormai normalizzati come condizione economica piuttosto che politica.
Il capitalismo sta facendo propria anche la nostra convinzione che le persone dovrebbero agire secondo la propria coscienza, invece che per un salario. In un’economia che offre abbondanti possibilità di vendere il proprio lavoro, è ragionevole sottolineare l’importanza di altre motivazioni per svolgere un’attività; in un’economia in crisi, essere disposti a lavorare gratuitamente ha implicazioni diverse. Lo Stato, per compensare gli effetti deleteri del capitalismo, fa sempre più assegnamento sulla stessa etica dell’autoproduzione che un tempo animava il movimento punk. Lasciare che i volontari ambientalisti ripuliscano la chiazza di petrolio provocata dalla BP costa molto meno di farlo fare a dipendenti retribuiti, per esempio. Lo stesso vale per Food Not Bombs, se lo si considera un programma di beneficenza anziché un metodo per generare flussi sovversivi di risorse e solidarietà.
Oggi la sfida non è convincere la gente a rifiutarsi di vendere il proprio lavoro, ma dimostrare come una classe in esubero sia capace di sopravvivere e resistere. Di disoccupazione ne abbiamo in abbondanza: dobbiamo interrompere i processi che producono povertà.

domenica 27 gennaio 2019

La macchina

Il termine “macchina”, deriva proprio dalla parola greca mechané, che significa inganno, artificio, astuzia. «Testimonianza dell’antica illusione che si possa trasformare l’ambiente eludendone le leggi», la macchina è il risultato della manipolazione della Natura finalizzata a sovvertirne il corso per porla al servizio degli scopi stabiliti dagli umani. «Preposta alla costruzione di entità artificiali, di trappole tese alla natura per catturarne l’energia e volgerla in direzione dei vantaggi e dei capricci degli uomini», la macchina appartiene «al regno dell’astuzia e di ciò che è “contro natura”».
In questa guerra contro natura finalizzata alla sottomissione della Natura, anche gli umani (che sono Natura) diventano terreno di conquista della macchina, suo luogo di soggezione, suo strumento. Asserviti da quella stessa logica del dominio che rivolgono verso la Terra, ne replicano (come pedine) il potere d’intervento. Il mito di una forza meccanica che domina tutto per il bene della Società si fa ideologia, riversando contro quegli stessi umani che l’hanno pensata la pratica di un adattamento passivo ai bisogni del Potere. Il mondo diventa insomma un immenso campo di battaglia ove individui sempre più dipendenti dalle macchine inventano ogni giorno nuove macchine per assoggettare tutto ciò che è vivo al dominio delle macchine, compresi loro stessi.
Chiuso il cerchio delle auto-giustificazioni, tutto corre e concorre a rafforzare il paradigma del dominio. La tecnologia, in quanto incarnazione dell’ideologia della macchina (e cioè della perfezione meccanica che tutto controlla e tutto dirige) ci addestra appunto quotidianamente ad una dimensione mentale e sostanziale intrisa di rapporti di forza. Per noi, e per l’intero schieramento in riga dell’intelligencija internazionale, il dominio è talmente parte del nostro modo di pensare che lo consideriamo un’espressione stessa della natura umana, non della cultura.

mercoledì 23 gennaio 2019

Lavoro e dignità

“Il lavoro rende liberi” recitava la famigerata scritta posta all’ingresso del campo di sterminio di Auschwitz: una frase che, a cominciare dall’accoppiata dei concetti di “lavoro” e “libertà”, suonava come una presa in giro, trattandosi di un ossimoro, che però molti ancora non esitano a negare. Lavoro, fatica, come necessità per la sopravvivenza, ma anche come eccezione da riservare allo stretto necessario, per quanto, l’eccezione col tempo sia diventata regola.
È vero che da sempre popolazioni e individui costretti da sistemi sociali iniqui alla fame, alla disoccupazione e alla precarietà, hanno visto nel lavoro, e soprattutto in un lavoro rispettoso delle regole e della dignità umana, un modo per emanciparsi dalla condizione di sfruttamento. Ed è stato compito delle socialdemocrazie e delle chiese di tutto il mondo limitare a questo tipo di “libertà” gli orizzonti emancipatori: ognuno al suo posto, il padrone in cima alla piramide sociale, con la sua libertà di sfruttare, arricchirsi, determinare le sorti dei subalterni; i lavoratori alla base della stessa piramide, con la loro libertà di lavorare, obbedire, fare andare avanti la macchina del capitale, ricevendo in cambio quei beni necessari al perpetuarsi della loro funzione nella società. Tanto che, a secondo del tempo e/o del luogo, se al termine lavoratore si sostituisse quello di schiavo, il risultato non cambierebbe.
Oggi la grande mattanza che si è fatta dei diritti dei lavoratori, la disoccupazione voluta dai padroni per avere una vasta platea di richiedenti lavoro da poter facilmente ricattare, o gettare nell’arena di una guerra fra i poveri sempre più cruenta, conduce a una rivalutazione mistificante della frase di cui sopra.
Chi non ha lavoro non ha libertà; milioni di persone non hanno libertà; solo il lavoro potrà renderli liberi. Due cose sono chiare: la mancanza di libertà è un fatto diffuso quanto quella di lavoro; il lavoro permette di conquistare la libertà di consumare, spendere, girovagare nel supermercato mondiale. Una libertà, dunque, tutta interna al sistema capitalistico, scambiata o venduta come LA Libertà; un lavoro tutto interno ai meccanismi di riproduzione del capitale e delle merci, a sua volta scambiato e vissuto come LA Libertà.
L’ideologia nazista e l’ideologia capitalista, che in Italia possiamo coniugare come Renziana, ma che è la stessa della organizzazioni sindacali, è tutta addentro alle dinamiche dello sfruttamento dell’uomo sull’uomo, o dell’uomo sulla natura; essa non sottrae l’individuo, o la classe di individui costretti a chiedere, mendicare, supplicare, praticare un lavoro per vivere, al ricatto del più forte, del padrone nelle sue varie accezioni.
Invece, proprio ora che il lavoro si configura come uno stato di necessità, negato o imbrigliato perché possa essere concetto mistificante, occorre tornare all’origine del significato: lavoro non è libertà finché resta attività presa in ostaggio dalle leggi capitalistiche, o schiavistiche comunque esse si presentino. È libertà la ricerca di un’attività appagante, di un’attività improntata alla realizzazione di rapporti sociali egualitari; è libertà la lotta per sottrarsi ai ricatti padronali e statali, quindi per sganciare il lavoro dallo sfruttamento.
Festeggiare il lavoro è festeggiare lo sfruttamento; fare la festa al lavoro è intraprendere un percorso di liberazione. Chiedere un lavoro, lottare per il lavoro, contro la precarietà e la disoccupazione, è soltanto agire dentro i meccanismi del sistema, barattare benessere con perdita di autonomia. Ci può salvare solo la dignità: dignità di lottare con consapevolezza e coscienza degli obiettivi e dei loro limiti; dignità di contrattare col padrone a partire da rapporti di forza alla pari; dignità di possedere un sapere conquistato, da considerare un’arma per poter fare a meno del padrone, e instaurare delle relazioni sociali libere e autogestite.

venerdì 18 gennaio 2019

L’ordine spontaneo


I gruppi di volontari, organizzatisi in ogni caseggiato, in ogni strada, in ogni quartiere, non avranno difficoltà a mantenersi in contatto e ad agire all’unisono... se i sedicenti teorici «scientifici» si asterranno dal ficcare il naso... Anzi, spieghino pure le loro teorie confusionarie, purché non venga loro concessa alcuna autorità, alcun potere! E le meravigliose capacità/organizzative di cui dispone il popolo - che così raramente gli viene concesso di mettere in pratica - consentiranno di dar vita, anche in una città grande come Parigi, e nel bel mezzo di una rivoluzione, a una gigantesca associazione di liberi lavoratori, pronti a fornire a se stessi e alla popolazione i generi di prima necessità. Date mano libera al popolo, e in dieci giorni il rifornimento alimentare funzionerà con la precisione di un orologio. Solo coloro che non hanno mai visto la gente lavorar sodo, solo quelli che hanno passato la vita tra montagne di documenti, possono dubitarne. Parlate del genio organizzativo del «grande incompreso», il popolo, a chi ha assistito, a Parigi, ai giorni delle barricate o a chi ha avuto modo di vederlo in azione durante il grande sciopero dei portuali londinesi, quando si trattò di dar da mangiare a mezzo milione di gente affamata: essi vi dimostreranno quanto sia più efficace dell’ufficiale inettitudine di Bumbledom. (Pètr Kropotkin, La conquista del pane).
Una componente importante nell’impostazione anarchica dei problemi organizzativi è costituita da quella che potremmo definire la teoria dell’ordine spontaneo. Essa sostiene che, dato un comune bisogno, le persone sono in grado, tentando e sbagliando, con l’improvvisazione e l’esperienza, di sviluppare le condizioni per il suo ordinato soddisfacimento; e che l’ordine cui si approda per questa via è di gran lunga più duraturo, e funzionale a quel bisogno, di qualsiasi altro imposto da un’autorità esterna. Kropotkin derivò la sua versione di questa teoria dai suoi studi sulla storia della società umana e dalla riflessione sui fenomeni che caratterizzarono i primi passi della Rivoluzione francese e della Comune parigina del 1871. Essa è stata confermata in quasi tutte le situazioni rivoluzionarie, nelle forme organizzative con cui la gente reagisce alle catastrofi naturali, e in ogni attività che si svolga in assenza di modelli precostituiti di organizzazione o strutture gerarchiche dell’autorità. Il principio di autorità permea a tal punto ogni aspetto della nostra società che solo nelle rivoluzioni, in situazioni di emergenza o nell’ambito di «happening» il principio dell’ordine spontaneo riesce a emergere. E abbastanza, comunque, perché ci si possa fare un’idea del comportamento umano che gli anarchici considerano «normale» e gli autoritari semplicemente una stranezza.

martedì 15 gennaio 2019

Il capitalismo e l'informatica

Il capitalismo non si interessa alle attività all'utilità ecc., ma solo alla produzione di valore. E non basta aver lavorato per creare del valore, bisogna anche averlo fatto in un modo che riproduce il capitale con cui è stato pagato il salario ricevuto. Per quanto riguarda l'informatica, bisogna dire che i suoi prodotti rappresentano in generale solo dosi omeopatiche di lavoro umano, e dunque di valore: così, un software, una volta inventato, può essere riprodotto milioni di volte, quasi senza ulteriore impiego di forza lavoro, e tutte le sue copie insieme rappresentano di conseguenza solo una piccola quantità di valore. L'informatica, il cuore della rivoluzione dell'immateriale, lungi dal costituire un nuovo stadio del capitalismo caratterizzato da ulteriori aumenti di produttività, porta piuttosto alla crisi, perché riducendo fortemente, ad un grado storicamente inaudito, l'impiego di lavoro vivo, riduce anche la produzione di valore. Il postfordismo è dunque tutto fuorché un nuovo modello di accumulazione. La sua esistenza si basa piuttosto sulla finanziarizzazione, cioè sul credito e sul capitale fittizio. L'accumulazione reale mancante viene sostituita dalla sua simulazione, cioè da una esplosione di credito in dimensioni astronomiche e il credito non è altro che un consumo anticipato di un futuro guadagno che non potrebbe arrivare mai.

sabato 12 gennaio 2019

Gilets Jaunes: non è tempo di democrazia on-line


Nono sabato di mobilitazione del movimento dei Gilets Gialli che sembra trovare nuovo slancio in questo 2019.
Dopo i pugni ben assestati dall’ex pugile di Massy Christophe Dettinger all’indirizzo di un celerino che aggrediva i manifestanti il campo della protesta si è fatto ancora più coeso. Una campagna in solidarietà a Christophe ha coinvolto a tutte le altezze il movimento, in particolar modo ponendo al centro delle preoccupazioni comuni la necessità dell’uso della forza per difendersi dalle violenze poliziesche. “Legittima sfida” recitava uno striscione in testa al corteo oggi a Toulouse.
Una dura controffensiva mediatica ha prima colpito il pugile e poi la solidarietà diffusa che lo ha circondato. Una colletta on-line per sostenere “l’atleta” è stata censurata dal governo con la minaccia di indagare tutti i firmatari i quali sarebbero, nel delirio della ministra alle pari opportunità Marléne Schiappa, complici delle violenze e sostenuti dal governo italiano (sic). Un attacco che ha insomma fortificato il fronte della protesta, determinato a seguire l’invito di Dettinger che in un toccante video messaggio registrato prima di costituirsi ha pregato i manifestanti di proseguire nella loro lotta.
La vicenda ha rappresentato non solo uno scontro significativo con il governo ma ha anche fatto chiarezza nel campo del movimento. Da sinistra in tanti hanno attaccato Dettinger e i gilets colti dall’ansia di stigmatizzare la violenza o speculando su presunte simpatie di questo per il Front National. In realtà la biografia del pugile e le sue parole rispecchiano l’autenticità di un corpo sociale in movimento, venato da ordini di discorso anche generici  - il popolo, il patriottismo, il senso di comunità - e talvolta contradditori con le istanze materiali, ma sicuramente accomunati da un’insopportabilità del regime di governo di questa società, da una tendenziale linea di classe e dalla non affiliazione a formazioni o a tradizioni politiche pregresse. Ancora una volta l’al lupo al lupo sui fascisti non si è rivelato essere una gran strategia per i detrattori di ogni forma di insorgenza sociale, a maggior ragione quando i fascisti vengono poi concretamente allontanati dai cortei di gilets quando si presentano in forma organizzata.
I cortei di oggi quindi hanno scandito con forza il coro “libertà per Christophe” confermandosi, sembra, per partecipazione e diffusione. Si manifesta anche a Bourges, la cittadina al centro esatto dell’esagono francese scelta come epicentro dell’atto IX da una parte dei gilets. “Vogliamo convergere verso il centro del paese”, dichiara Priscilla Ludosky, prima firmataria della petizione contro l’aumento dei carburanti. Un segnale importando a tre giorni dall’inizio del “Grand Debat National”, la mossa diplomatica di Macron che prova a dialettizzare con una consultazione diffusa le istanze del territorio sui temi della fiscalità, della transizione ecologica e dei servizi pubblici nel tentativo di recuperare la protesta dei gilets gialli. Si tratta infatti della promozione di una serie di forum diffusi a livello locali, con amministratori o gruppi di cittadini per “ascoltare i francesi”. Ogni discussione che si inserisca nel quadro del “Grand Débat” verrà registrata su una piattaforma on-line e arriverà alle orecchie di Macron. Ma i cahiers du doleance sono già stati stesi dal movimento il quale, anzi, sembra essere passato oltre. I gilets non sembrano abboccare. Nonostante le fantasie nostrane di Di Maio che ha offerto ai gilets la piattaforma Rousseau non è ora tempo di democrazia on-line.
Altro epicentro dell’atto IX è ovviamente Parigi, dove sono già diverse decine di migliaia i gilets per strada con numeri in evidente crescita rispetto agli scorsi appuntamenti. Nonostante il clima surreale procurato dall’esplosione per una fuga di gas nei pressi dell’Opera con due morti e diversi feriti i cortei del mattino hanno visto un’altissima partecipazione in ogni punto di ritrovo. Un concentramento delle donne è stato dato alla Gare du nord mentre si sono dati anche concentramenti nei quartieri meno centrali e più prossimi alla banlieue. Particolarmente significativa la folla che ha raggiunto a Bastille. Primi lacrimogeni in avenue Wagram. Cariche e gas nei pressi dell’Arc du Triomphe dove una forte folla si è concentrata con largo anticipo rispetto e verso il quale stanno convergendo i vari cortei selvaggi. Barricate a Strasburgo. Cortei anche a Marsiglia, con le donne incordonate in testa, a Lione, dove dalla testa veniva scandito il coro "Nessuna piazza per i fascisti, nessun fascista nelle nostre piazze”. I Gilets sfilano anche a Bordeaux, Lille, Perpignan, Rouen, Caen, Nîmes, Nizza. Diversi anche i blocchi stradali, come quelli dei camion che si sono visti oggi ad Auxerre.
Sono 80 mila gli agenti di polizia schierati oggi da Castaner, il ministro degli Interni di Macron che ha dichiarato guerra aperta a questo movimento con una strategia isterica a metà tra il continuo fallimento del tentativo di criminalizzare la protesta e l’aperta repressione. Sono 12 i morti dall’inizio delle proteste e non si contano i feriti, comunque oltre duemile, e i mutilati dalle armi da guerra della polizia. 216 i manifestanti incarcerati. I gilets però non abbandonano le strade.

venerdì 11 gennaio 2019

Omaggio a Cristophe, il pugile parigino

Pubblichiamo la traduzione di questa lettera giunta al settimanale francese Lundi.am in omaggio a quello che verrà identificato come Cristophe Dettinger, il pugile che ha difeso i gilet gialli durante la mobilitazione di sabato scorso a Parigi.

«Non ero a Parigi questo weekend. Portavo il mio Gilet Giallo in una città del sud, dove eravamo più numerosi delle scorse settimane. Ciò che ha illuminato la mia giornata, però, non è stata la visione delle centinaia di casacche fosforescenti ma, tornando a casa, la scoperta del video di Cristophe, il pugile parigino. Non firmerò questa lettera col mio nome, mi dispiace per quelli che l’avrebbero apprezzato, ma è a causa della (attenzione giornalisti, turatevi le orecchie) repressione. Ciò che dirò non piacerà alla folla odiosa dei macronisti, ne a quelli che hanno cambiato casacca gialla. Ma, sì, Cristophe è un supereroe. Non perché sa ristabilirsi come Spiderman o perché tira saracche come Sagat. Più semplicemente, ed è cosa rara, perché ci ha mostrato una maniera degna di agire.
Non parlerò del famoso “contesto”. I GG e i loro sostenitori lo conoscono. Il contesto generale: le migliaia di feriti e di arresti arbitrari, le mani strappate e gli occhi spappolati nel silenzio mediatico e con la benedizione del governo. Il contesto particolare: dei gendarmi che bloccano il corteo dei Gilet su un ponte, e che fanno non si sa bene cosa (che buona idea!). I commentatori, loro, se ne fregano del contesto. O meglio, se ne servono esattamente come vogliono, purché permetta loro di far passare i poliziotti come vittime o scusare le loro violenze. A Mantes-la-Jolie la polizia filma dei ragazzini inginocchiati per ore con le mani sulla testa? Si impugna il contesto (de brutti scontri da parte di cattivi ragazzi delle banlieue). A Parigi dei manifestanti tirano oggetti sulla polizia in moto? Si metterà il contesto e le granate (tirate su una folla che non gli aveva chiesto nulla) sotto il tappeto.
No, poco importa il contesto, i video sono bastati a rendermi felice, vedendo Cristophe tuffarsi di testa per cominciare a far indietreggiare una linea di robocop da solo.
In una prima sequenza, si vede quest’uomo, grande, vestito di nero e con un cappello, effettuare una figura aerea, atterrare nonostante tutto sulle gambe, riaggiustare il suo copricapo e poi far susseguire i jab contro lo scudo di un gendarme, che cede sotto i colpi ed è obbligato a indietreggiare mentre i suoi colleghi rinunciano a sostenerlo. Questo video ha provocato la mia ilarità ma anche la solita cacofonia: “violenza”, “inaccettabile”, “intollerabile”, blablabla. Persino la Federazione di Boxe ha fatto un comunicato.
Di quale violenza parliamo? Di quella di un uomo che non ha protezioni, né armi che boxa, in uno contro quattro, contro un poliziotto dotato di gilet rinforzato, scudo, casco con visiera anti-proiettili, ginocchiere, robe sulle spalle, manganello, granate disposte sulla schiena e decine di colleghi intorno. Un uomo a mani nude davanti a un robot (dove è la fessura per infilare i soldi dell’aumento [concesso da Macron per continuare a reprimere le proteste]?). Quali ferite si inventeranno?
Allora si dirà che il tipo è un pugile e che, benché non sia armato, è il suo corpo ad essere un’arma! È vero… è vero che dopo aver eseguito cosi tanti arresti di GG per “attruppamento armato” perché avevano quattro cavolate nel portabagagli, dopo aver confiscato delle maschere a gas (perché comunque se i GG non sputano i polmoni non vale), si potrebbe arrestare i manifestanti a causa del loro corpo o delle loro competenze. Un punching-ball da fiera al pedaggio e si testano i GG uno a uno. Troppo forte? Divieto di manifestare.
Si potrebbe anche imporre i guantoni in corteo.
In realtà non c’è storia. Nel combattimento di Cristophe, c’è sempre la stessa disproporzione tra una polizia sovra-armata da un lato e dei manifestanti che non hanno altro che loro mani.
Non c’è neanche lo scatenarsi di una violenza in quelle immagini. Perché in realtà ciò che “sconvolge” la maggior parte dei politici e dei giornalisti (in fusione da due mesi a questa parte) è che non siamo deboli. Che non diamo l’immagine di gente debole. Quando è ciò che vorrebbero vedere. Ci vorrebbero vedere in primo luogo poco numerosi. Grande è stata la delusione quando a fine giornata il Ministero è stato obbligato di ammettere che si assisteva a una “ripresa” del movimento. Sabato, all’inizio del pomeriggio, il canale LCI titolava “meno di mille manifestanti in tutta la Francia, a parte Parigi”. Meno di mille! Perché mille? Perché non due? “Due gilet gialli avvistati ai lati della D332 con un cric” sarebbe stato quasi più credibile.

Ci vogliono vedere poco numerosi e inoffensivi. Prima ci avrebbero voluto veder fare un pic-nic (il 24 novembre), poi manifestare in gabbia (l’1 dicembre), poi manifestare in stato di fermo (l’8 dicembre), poi non manifestare affatto (durante le feste). Visto che non abbiamo esaudito nessuno di questi desideri dei poliziotti e degli editorialisti, ogni nuova manifestazione delle nostra determinazione è un oltraggio. Ed è dunque qui il vero scandalo: questo sabato non eravamo deboli. Nonostante la conta falsa eravamo numerosi. E nonostante le intimidazioni, le minacce, i blocchi, le perquisizioni non ci siamo lasciati fare. Soprattutto Cristophe.
In un secondo video si vede sulla passerella un corpo a corpo tra Gilet Gialli e gli stessi agenti in assetto anti-sommossa. In mezzo a questa rissa, Cristophe tira dei calci a un gendarme cascato a terra. Secondo scandalo. Oltre a essere violento sarebbe quindi un vigliacco. È vero che non è un gesto di gran classe. Deve saperlo Cristophe visto che pratica la nobile arte. È squalifica assicurata. La zuffa è catturata dalle telecamere sotto-televisive di internet. Che si affretteranno a diffondere gli estratti hollywodiani quasi in diretta. Come qualche settimana prima con gli scontri tra GG e motociclisti della polizia sugli Champs. Con questi video attira-mosche, i merdaioli del governo formeranno la pillolina da far ingoiare alle agenzia di stampa: “linciaggio”, “fazioso”, “antisemiti”! Macron ne ha fatto un rosario il primo dell’anno: è la “folla odiosa” che se la prende contro “gli eletti, le forze dell’ordine, i giornalisti, gli ebrei, gli stranieri, gli omosessuali”. Nei salotti televisivi si richiede a bocca aperta questo genere di zuccherini, i videoclip di “violenze” trovati su internet, titolati in sovraimpressione col linguaggio del partito del presidente.
L’ineguaglianza dei mezzi a disposizione dei belligeranti: un gilet giallo davanti a un’armatura, può spiegare questo genere di colpi bassi. Forse anche la curiosità, che spinge a muovere con la punta di piedi una carcassa di plastica e metallo come a verificare se c’è davvero qualcosa di umano là dentro. Certo di poca classe ma vigliacco pertanto? I GG si ricordano tutti di un evento che permette forse meglio di stabilire cosa è la vigliaccheria. Il primo dicembre (giornalisti: copritevi gli occhi parlerò di violenza della polizia) un uomo è picchiato al suolo da 8 agenti in anti-sommossa. L’hanno inseguito in una strada. Erano armati e l’hanno picchiato a più riprese con i manganelli. Se quest’atto è un una vigliaccheria innominabile non è perché l’uomo era a terra. Non è perché erano 8 contro 1, perché avevano delle armature e lui solo un cappello, perché avevano dei manganelli e lui assolutamente nulla. È perché quei poliziotti sapevano che sarebbero stati coperti. Potevano picchiare senza timore.
Cristophe è stato arrestato dopo qualche ora, perché è stato celermente identificato (non era nemmeno a viso coperto). Se i poliziotti violenti potessero essere identificati altrettanto rapidamente sarebbero puniti non è vero? Il giorno stesso degli exploit di Cristophe, un poliziotto è stato filmato mentre prendeva a pungi un manifestante senza protezioni. La sua identità è stata rapidamente resa nota sui social. Il Procuratore della Repubblica ha comunque deciso di non aprire alcuna inchiesta contro di lui. È libero.
Chi sono i deboli e vigliacchi? Su una rotonda, poi in un corteo, due poliziotti diversi mi hanno detto: “non bisognerà venirci a chiamare quando ci saranno degli attentati”. Sui social diversi poliziotti invitavano Cristophe a un duello, a dei combattimenti di boxe uno contro uno. A Nantes lo stesso sabato un poliziotto portava una maschera di Punisher. È tutto il dramma dei poliziotti: si vedono come degli eroi, degli uomini forti, l’ultima barriera della Francia davanti al caos quando ciò che fanno, da due mesi, tutti i sabati, è tirare proiettili di gomma sulla testa dei liceali, lanciare granate esplosive senza mirare e nella folla, dare colpi di manganello ai vecchi, strappare i telefoni che li filmano, trascinare giovani donne al suolo e per i capelli, confiscare occhialetti da piscina, bloccare la gente su un ponte perché vuole arrivare al parlamento. Abbiamo visto supermen migliori.

Che le cose siano chiare. La debolezza e la vigliaccheria non sono le saracche di Cristophe. È sfigurare manifestanti mentre si nega di mirare alla testa. È fare tutti i giorni il provocatore su Twitter e scappare dalla porta sul retro del Ministero quando qualcuno viene a suonare. È fare una denuncia per “violenza” contro qualcuno che si è appena picchiato. È dire “che mi vengano a prendere” con due elicotteri pronti a decollare nel cortile. È lanciare granate disaccerchianti sulla folla e poi reclamare 45 giorni di prognosi per choc psicologico perché ti hanno lanciato contro due monopattini. È dire “forza e onore” e non avere né l’una né l’altro.
Mi hanno avvertito di “non sostenere Cristophe senza sapere chi è”. Forse è un pedo-nazi o peggio un macronista inflitrato. La questione non è quella dell’uomo né del pugile ma del suo gesto. Che ci ha ridato coraggio e che deve ispirarci. Non significa mettersi a fare boxe inglese. Vuol dire: avanzare, non indietreggiare, restare determinati.»
da Lundi.am


giovedì 10 gennaio 2019

Chiesta la sorveglianza speciale per cinque italiani che hanno sostenuto la lotta all’ISIS in Siria


Il 3 gennaio la Digos di Torino ha notificato la richiesta della sorveglianza speciale per due anni con divieto di dimora da Torino, avanzata dalla procura di Torino contro chi ha sostenuto la rivoluzione del Rojava.
I destinatari di questa misura sono Paolo, Eddi, Jak, Davide e Jacopo, cinque giovani che a vario titolo negli ultimi due anni hanno sostenuto sul campo gli sforzi delle popolazioni della Siria del Nord in difesa della rivoluzione confederale contro l’aggressione dello Stato Islamico. La sorveglianza speciale è una misura di controllo invasivo che impone, dopo il pronunciamento di un giudice, il divieto di allontanarsi dall’abitazione nella quale si viene domiciliati e l’obbligo di presentarsi alle autorità di sorveglianza nei giorni stabiliti e ogni qualvolta venga richiesto. Una misura fortemente lesiva della libertà personale, derivata dal codice Rocco fascista ma più volte confermata peggiorativamente, e che può essere rinnovata dal tribunale che la impone.
La richiesta, avanzata dal Pubblico Ministero Emanuela Pedrotta, specializzata nella sistematica persecuzione della lotta No Tav e dei militanti politici torinesi, parte dall’ipotesi della pericolosità sociale dei cinque i quali, unendosi alle YPG e alle YPJ, le unità di protezione popolare impegnate nella lotta contro ISIS, avrebbero imparato l’uso delle armi. Una ricostruzione al tempo stesso sommaria e lapalissiana. Se da un lato è scontato che in una zona di guerra sia necessario difendere la popolazione civile con tutti i mezzi dalle formazioni terroristiche esattamente come fanno le YPG e le YPJ con un’ovvia funzione di protezione e non di pericolosità sociale è anche vero, come testimoniato dalle svariate corrispondenze e testimonianze degli stessi cinque, che non tutti si sono uniti alle formazioni militari e popolari ma hanno contribuito alla difesa del Rojava anche sostenendo e partecipando alle strutture civili della Federazione della Siria del Nord. Una generalizzazione pericolosa che sembra minare il diritto e dovere di cronaca di quanti raggiungono e vivono la realtà complessa delle zone di guerra, soprattutto in uno scenario altamente mistificato nei media occidentali come quello del conflitto siriano. Su questo portale abbiamo infatti con piacere ospitato le corrispondenze di alcuni dei cinque sull’andamento della resistenza popolare alle bande jihadiste nelle città di Afrin o Manbij. Un contributo meritorio, pressoché assente nel panorama informativo di questo paese, e che, come ripete in queste ore uno dei destinatari della richiesta della procura, “rifarei altre cento volte”.
Per il 23 gennaio alle ore 10 è stata fissata l’udienza della richiesta avanza dalla procura di Torino. Seguiranno aggiornamenti sulle mobilitazioni che si terranno da qui al 23 gennaio contro questo attacco e intimidazione che vorrebbe colpire chi lotta e sostiene la libertà delle popolazioni contro la tirannia dello Stato Islamico.
Solidarietà ai cinque, Biji YPG, Biji YPJ

domenica 6 gennaio 2019

Torna a una strategia dislocata la mobilitazione dei Gilets Jaunes: manifestazioni in tutta la Francia e attacchi agli snodi strategici.


Una risposta determinata che conferma la combattività dei gilet in questo 2019 a partire anche dalla consapevolezza che il rapporto di forza con governo regge fintanto che regge la capacità mobilitativa e la continuità delle strutture di base: presidi e assemblee. Una dinamica bene esemplificata dalla conferenza stampa del portavoce del governo Benjamin Griveuax il quale ha provato a mettere alle strette la protesta dichiarando che “ciò che resta dei gilets gialli è in mano agli agitatori che vogliono rovesciare il governo”. Una sfida al movimento, il quale certo non si è mai sottratto alla promessa di far dimettere Macron ma che sa che per portarla fino in fondo dovrà crescere ancora, articolarsi e soprattutto cercare di non farsi circoscrivere e contare.
A questa esigenza rispondono gli svariati appelli sulle modalità con le quali scendere in piazza nelle principali città di Francia: restare in zone circoscritte ma con un’alta mobilità, non darsi punti di concentramento facilmente circondabili dalla polizia, darsi orari precisi di incontro, con poco preavviso e rispettando un’estrema puntualità, indossare il gilet solo al momento dell’inizio della manifestazione per non farsi individuare prima, filmare e diffondere i comportamenti polizieschi. I Gilets riaggiornano continuamente la tattica sapendo che è su questa che si svilupperà la tenuta strategica del movimento, la sua capacità di durare. Le mobilitazioni d’altra parte non sono mancate durante le festività. Anzi episodi significativi si sono avuti anche la notte dell’ultimo dell’anno con duri scontri in particolare a Bordeaux. Il due gennaio, alle prime ore del mattino, circa cento gilets hanno bloccato il deposito petrolifero Rubis di Grand-Quevilly, nei pressi di Rouen, il quale rifornisce tutta l’alta Normandia. L’altro eri in duecento hanno bloccato il deposito petrolifero Esso e Total a Tolosa e la polizia ha reagito effettuando cinque arresti. Sempre ieri un hub di Amazon è stato circondato e bloccato da un centinaio di gilets innescando scontri con la polizia che ha provato a sgomberare i picchetti dai quali si è resistito con lanci di pietre.
Anche ieri i siti strategici hanno rappresentato un bersaglio importante: un importante corteo ha provato a raggiungere l’aeroporto di Parigi Beauvais incontrando sulla statale i lacrimogeni dei CRS. Blocco nella mattinata anche alla stazione marittima di Saint-Malo. L’invasione dei binari a Sedan ha provocato diversi ritardi alla linea del TGV. A Quimper in Bretagna un corteo motorizzato si è mosso dai presidi sulle rotonde verso la zona commerciale di Gourvily. Si registrano corteo con diverse migliaia di manifestanti a Rouen, Bordeaux, Lione, Grenoble, Brest, Tours e Marsiglia.
A Digione la gendarmerie ha attaccato il corteo sul viale maresciallo Joffre, dove a più riprese però i manifestanti sono riusciti a mettere in fuga gruppi isolati di poliziotti che provavano ad aggredire il corteo ai lati. A Rennes i manifestanti forzano gli accessi del municipio. A Caen forti scontri con lanci di lacrimogeni. Più di mille in corteo a Nantes con alla testa del corteo diversi cordoni di sole donne che resistono ai lanci di lacrimogeni della polizia.
Dopo le prime tensioni nei pressi dell’Hôtel de Ville a Parigi un corteo che aumentava mano a mano di numero si è mossoo verso l’Assemblée Nationale. All’altezza di Place du Châtelet si sono avuti fronteggiamenti corpo a corpo e lanci di sassi e bottiglie all’indirizzo della polizia. Barricate in fiamme sul Boulevard st. Germain. Nella mattinata di ieri diverse centinaia di Gilets si sono radunati nei pressi dell’Arc du Triomphe sugli Champs Elysées. Degli appuntamenti assembleari sono stati dati in place de la République. Intanto, a conferma della tenuta in prospettiva del movimento, un secondo appuntamento per l’assemblea delle assemblee dei Gilets gialli è stato convocato per il 26 gennaio a Commercy.

sabato 5 gennaio 2019

Riflessioni sulla strada dell’anarchismo

Solchiamo tempi strani, dove poche bussole non risultano impazzite e le strade della libertà non sono asfaltate. Scegliere la pista dell’anarchismo è in primo luogo, una precisa scelta di campo.
E se il movimento libertario, nella sua molteplicità di approcci e tendenze, offre disponibilità al confronto e riconosce come compagni di lotta anche chi non condivide le idee anarchiche, questo non significa affatto che sia un ombrello sotto cui porre qualsiasi interpretazione personale dell’anarchia.
Si può essere individualisti o comunisti, organizzatori o antiorganizzatori, educazionisti o insurrezionalisti, ma comunque certi presupposti sono fuori discussione perché definiscono l’anarchismo stesso.
Nessuno/a è obbligato a condividerli, ma sia chiaro che alcuni punti sono fondamentali per l’anarchismo. Il rifiuto coerente di ogni potere (politico, militare, religioso…) e di ogni sfruttamento (sia questo capitalista o statale), di tutte le discriminazioni (razziste, di genere…), delle diverse forme di coercizione (polizie, leggi, carceri, lager, sedie elettriche, torture, repressione, proibizionismo…) non sono un di più, bensì punti fermi di un pensiero davvero alternativo e antagonista al dominio.
Un metodo incentrato sull’auto-emancipazione, attraverso l’impegno per l’autoformazione individuale, l’azione diretta e l’autogestione collettiva. Perché la liberazione è rivoluzione quotidiana, a partire dal proprio intessere relazioni e vivere in un mondo che certo non è il migliore possibile.
La libertà non ammette limitazioni da parte dei suoi nemici. Fuori da questi paletti c’è l’autoritarismo comunque mascherato o l’illusione riformista, ossia la convinzione di poter pacificamente umanizzare l’inumano. D’altra parte la libertà non è obbligatoria, così come nessuna/o è tenuto ad essere sovversivo.

giovedì 3 gennaio 2019

Crisi del capitalismo finanziario

Larga parte del mondo sta scendendo nelle strade e nelle piazze, un movimento ampio polimorfo intransigente forse non del tutto consapevole una sollevazione diffusa che occupa tenacemente le piazze del potere. Politici dirigenti, banchieri affamatori in genere sorridono nervosamente, si invita alla calma alla tolleranza alla compostezza. Nei loro occhi c'è paura, essi sanno che questo movimento non smobiliterà, per la semplice ragione che questa sollevazione non propone soltanto principi morali o ideologie, ma si fonda sulla materialità di una condizione di precarietà, di sfruttamento, di  immiserimento crescente, di assenza di vita e di futuro. L'energia che lo muove è la rabbia. La rabbia talvolta alimenta l’intelligenza, altre volte i mostri dell'irrazionalità. La violenza infinita del capitalismo nella sua fase agonica può produrre patologie mortali, le convulsioni della società dello spettacolo ferita e incapace di riprodursi generano mostri di ogni genere: razzismo, fascismo, nazismo. È ciò a cui stiamo assistendo in molti luoghi del globo, Torino, Firenze, Liegi, Utoya sono solo alcuni sintomi del risveglio del mostro che mai vinto sopravvive negli angoli più oscuri e cancrenosi delle menti di coloro che si nutrono di odio e morte, dei figli prediletti di questa società mercantile avida di vite e speranze.
Tutto questo può non piacere. Ma questo è.
La dittatura del capitalismo sta nella mente di tutti coloro che non sanno immaginare una forma di vita libera.
Nei prossimi anni probabilmente continueremo ad assistere a continui sussulti del mostro che sopravvive fra noi e in noi. Assisteremo a violenze senza capo né coda di chi perde il lavoro, di chi non può mandare a scuola i propri figli, di chi non arriva a fine mese, di chi perde la casa, di chi non ha più niente mangiare, violenza senza capo né coda da parte delle istituzioni poliziesche degli stati, un esercito di morti viventi di zombie alla ricerca di un nemico immaginario da assassinare, da bruciare, da colpire, da violentare. Uomini e donne di un altro colore, omosessuali, zingari, giovani resistenti, miserabili, insomma coloro che per qualche motivo risultano essere diversi, coloro che più o meno consapevolmente risultano essere eretici nei confronti della dottrina dominante della società della merce, saranno inevitabilmente i bersagli di tale esercito di assassini. Occorrerà allora avere nervi saldi occorrerà intelligenza e lucidità, dovremo far fronte alla follia mantenendo il nostro spirito limpido, la visione chiara e consapevole del fatto che non c’è altro colpevole che il sistema mercantile della rapina sistematica che prosciuga l'essenza delle nostre vite. Ma in tutti i casi occorre non dimenticare, che è indispensabile stanare il mostro dai lerci anfratti in cui si nasconde, non dovremo dimenticare di ripulire i covi del nazismo e del fascismo, dovremo inesorabilmente tacitare una volta per tutte gli apologeti delle diversità raziale quale che siano i pulpiti da cui vomitano le loro più o meno ambigue o sottese parole.
Dobbiamo proteggere i nostri fratelli, i nostri compagni, nessuno deve restare indietro alla mercè di questi assassini.