..............................................................................................................L' azione diretta è figlia della ragione e della ribellione

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sabato 30 settembre 2017

Reset G7 Torino: serata di lotta e iniziative di disturbo contro la zona rossa

Il corteo di ieri 29 settembre è partito attorno alle ore 10 da piazza XVIII dicembre facendo tappa in alcuni luoghi simbolo sul tema dell'alternanza scuola-lavoro: il grattacielo San Paolo, bloccato poi sotto la sede di Confindustria e la sede del MIUR. Un vertice costuito attorno all'industria 4.0 e smart della Torino post-industriale. Ma mentre i visi rugosi della Fedeli e di Poletti parlano per bocca dei giovani la realtà vissuta da questi è fatta sfruttamento e mancanza di prospettive.
Durante la mattinata ci sono state due cariche della polizia, posta a presidio della zona rossa. Una prima carica all'altezza di Corso Vittorio e una verso la fine del corteo. Uno studente fermato è stato poi successivamente rilasciato. Nel mezzo una deviazione del corteo è riuscita a sfondare un cordone di agenti di polizia in borghese penetrando per diverse centinaia di metri nella zona rossa in direzione di piazza Carlina dove si trovano gli alberghi in cui alloggiano le delegazioni del G7.
Azione di protesta contro il vertice anche da parte di un folto gruppo di No Tav, trovatisi inizialmente alla stazione di Porta Nuova e poi mossasi per raggiungere il corteo studentesco. Le azioni di disturbo dei no tav hanno tenuto impegnate le forze dell'ordine a più riprese: aggirando i blocchi di celere, bloccando il traffico. Il corteo si è infine concluso all'università occupando Palazzo Nuovo. L'appuntamento per il prosieguo della mobilitazione con iniziative diffuse è appunto a Palazzo Nuovo alle ore 18, mentre alle 18 è in programma un corteo di lavoratori in zona Barriera di Milano.
Dopo la mattinata segnata dal corteo nazionale degli studenti e delle studentesse delle scuole superiori, a Torino la giornata di contestazioni al vertice sul lavoro che si sta svolgendo alla Reggia di Venaria - alle porte della città - è proseguita fino a tarda sera.
Intorno alle 19 il primo appuntamento convocato a Palazzo Nuovo (la sede delle facoltà umanistiche occupata al termine del corteo del mattino) si è trasformato in un corteo selvaggio che si è diretto verso la centralissima piazza Vittorio per organizzare un blocco del traffico. Dopo alcuni minuti il corteo è poi ripartito, muovendosi velocemente per le vie del centro per aggirare i tentativi delle forze dell'ordine di bloccarne il passaggio e per fare pressione sulla zona rossa costruita attorno all'hotel in cui alloggiano le delegazioni di ministri del G7.
Rientrati in Università i manifestanti hanno promesso di non voler far dormire sonni tranquilli ai rappresentanti del vertice: intorno alle 22 un secondo corteo selvaggio è ripartito in direzione delle vie del centro. Il corteo notturno ha cercato nuovamente di violare la zona rossa all'altezza di via Po con lanci di razzi e fuochi d'artificio verso i cordoni della polizia. Successivamente a una carica dell'antisommossa gruppi di agenti in borghese hanno rincorso il corteo fino a piazza Castello, seminando confusione tra gli stand della Notte dei Ricercatori. Tre ragazze sono state fermate e poi rilasciate dopo alcune ore con una denuncia a piede libero.

Il corteo, ricompattatosi, ha fatto ritorno a Palazzo Nuovo dando appuntamento per domani mattina, sabato, per l'ultima giornata di mobilitazione. Nelle ultime ore è stata confermata la notizia della chiusura anticipata dei lavori del G7, nel tentativo di permettere ai ministri del lavoro di abbandonare la Reggia prima del corteo conclusivo previsto per sabato pomeriggio alle 14.30: l'ennesimo cambio di programma all'interno di un vertice sempre più ridotto all'osso e organizzato in modo tale da tenere al riparo i rappresentanti del G7 da qualsiasi contestazione ed evitargli di assumersi le proprie responsabilità e decisioni davanti a disoccupati, precari e lavoratori. Alla conferma della notizia la rete cittadina Torino Reset G7 ha deciso di raddoppiare gli appuntamenti di mobilitazione previsti per sabato 30/09: la giornata di lotta comincerà già oggi alle 10:30 al mercato del quartiere Vallette (corso Cincinnato 168) e poi proseguirà alle 14:30 con il corteo previsto in largo Toscana.

venerdì 29 settembre 2017

Torino 30 settembre ResetG7: roviniamogli il banchetto!

Già da qualche giorno alla Venaria Reale si riuniscono i rappresentanti di sette tra i paesi più potenti del mondo per discutere di lavoro, industria e scienza. Sono i sette che hanno approfittato della epocale crisi del 2008 per attaccare i diritti di giovani e lavoratori, per abbattere la qualità delle nostre condizioni di vita, per saccheggiare e devastare territori e popolazioni che già vivevano in condizioni difficili. Hanno scaricato la crisi su di noi, ci hanno detto che non c'era alternativa, mentre salvavano le banche, mentre le tasche dei più ricchi si gonfiavano sempre di più, mentre la concentrazione delle risorse e il danno ambientale che le loro politiche infami hanno provocato sconvolgono il pianeta.
La crisi ha anche, però, fatto cadere la maschera della presunta democrazia occidentale, ha reso evidente la funzione degli stati a tutela delle grandi ricchezze e sempre pronti a rifarsi su i più deboli. Nessuna fiducia, in occidente come altrove, è riposta nelle classi dirigenti di questi paesi. Il G7, come le altre riunioni dei potenti, non sono che un'umiliazione per miliardi di persone che subiscono le decisioni elaborate in queste assise.
Già lo sappiamo cosa ci diranno: siamo qui per risolvere il problema della disoccupazione tecnologica, parleremo della delocalizzazione del lavoro, cercheremo una soluzione alla finitezza delle risorse. Ma la verità è che se si lavora con salari da fame, se c'è chi lavora troppo e chi non lavora affatto, se le tutele e le professionalità sono state distrutte è colpa loro. Se la tecnologia invece di ridistribuire la ricchezza è la trappola che ci impoverisce è colpa loro. Se le risorse mancano è perché se ne sono appropriati, le hanno rubate.
La loro industria delocalizza, si ristruttura per dividere i lavoratori, per renderli ricattabili, per pagare di meno il costo del lavoro. Diventa smart, pesa i pochi megabyte di una app, ma dentro di sé porta il peso di un lavoro a cottimo per pochi euro, della sofferenza di tutti quei giovani esposti alle nocività, alla disoccupazione, alle malattie da stress, alla fatica.
La loro scienza è scienza della guerra, della devastazione ambientale, del controllo e dell'ordine, della paura. Non c'è etica che importi, l'unico faro della loro scienza è il profitto di pochi contro la vita di molti.
Dopo qualche pacca sulle spalle e qualche foto di rito ci annunceranno che la tormenta è finita, che siamo fuori dalla crisi ancora una volta. Però ci terranno a precisare che non c'è alternativa, che bisogna stringere i denti e fare qualche sacrificio in più. Quello che non diranno è che i sacrifici serviranno per tenerli sui loro troni ad abbuffarsi di ciò che resta di questo paese malato.
Un'alternativa c'è ed è una sola. Guastargli il banchetto. Mettersi in mezzo.
La nostra unica alternativa è smetterla di accettare che siano loro a decidere sulle nostre vite.
La nostra unica forza è l'unione di tutti coloro che sono sfruttati, emarginati, affamati, umiliati e derisi da loro.
La nostra unica salvezza, l'unica salvezza di questo paese è ribellarsi. Ora.
Sul lavoro bisogna ripartire da zero:
1) Lavorare meno per lavorare tutti.
Nel mondo non c’è mai stata così tanta ricchezza e così mal distribuita. Eppure si lavora fino a sempre più vecchi mentre i giovani muoiono di disoccupazione, si lavora anche la domenica, anche di notte. Serve una diminuzione della settimana lavorativa a parità di reddito.
2) Lavorare meno per lavorare meno.
L’automazione deve essere un vero progresso. Deve servire a liberarci dalla fatica e dal ricatto del lavoro. Deve servire a liberare tempo per gli affetti, per la socialità, per coltivare i propri interessi non a produrre disoccupazione.
3) C’è lavoro e lavoro.
Quante volte il lavoro rappresenta qualcosa di nocivo per chi lo porta avanti e per ciò che produce? Il criterio che deve guidare il lavoro è l’utilità sociale di tutti non i profitti di pochi.
4) Lavoro o non lavoro devo poter campare.
La diminuzione del lavoro socialmente necessario non deve portare alla miseria nessuno. Casa, welfare e bisogni primari devono essere garantiti a tutti.

giovedì 28 settembre 2017

G7. É tempo che la paura cambi di campo

Il fronte del lavoro pare essersi inabissato nell’immaginario di tanta parte dei movimenti di opposizione. La trasformazione sociale è processo che non incardina più la guerra di classe alla contrapposizione tra capitale e lavoro, tra dominanti e dominati.
Come se la lunga serie di sconfitte degli ultimi trent’anni avesse reso inessenziale questo terreno di lotta, come se la diversa configurazione materiale dello sfruttamento rendesse marginale lo spazio e il tempo del lavoro.
In realtà stato e padroni continuano a fare la guerra di classe con crescente durezza.
Se lo studio era stato una delle maggiori conquiste per i figli dei lavoratori degli anni Settanta, ora, con il trucco dell’alternanza tra scuola e lavoro, i ragazzi vengono avviati alla servitù salariata già negli anni della scuola. Imparare a lavorare gratuitamente è un addestramento al domani che li aspetta. Spesso studenti e famiglie sono complici di questa trappola perché sperano di acquisire punti per affrontare al meglio la giungla lavorativa.
La statalizzazione del movimento dei lavoratori, che nel dopoguerra aveva garantito, a prezzo di lotte molto dure, tutele e diritti, ma ne aveva smorzato la carica rivoluzionaria, sembra essere la ricetta vecchia per i tempi nuovi. Se la disoccupazione – al 10,9% quella generale, al 40% quella giovanile – è divenuta strutturale dopo la quarta rivoluzione industriale, se la precarietà è sempre più diffusa tra chi lavora, la ricetta del reddito garantito dallo Stato è insieme un’illusione e una trappola.
Non per caso il governo ha promosso un’elemosina ad una manciata di persone in povertà assoluta, a condizione che queste si pieghino a condizioni e controlli che ne certifichino la “buona volontà” di uscirne. Il reddito di inclusione stabilisce che la povertà è una colpa, che chi è povero se l’è meritato e per “riemergere” deve comportarsi secondo canoni stabiliti dallo Stato. La ricetta applicata da anni ai rom, sta per essere estesa anche ai poveri italiani.
L’elemosina di Stato, anche se avesse la forma giuridica del diritto e non quella cattolica dell’aiuto, è comunque parte del problema e non la sua soluzione.
La disoccupazione, la precarietà strutturale nei suoi diversi modi, non possono essere affrontate con lotte e trattative rinchiuse nel reticolo statale. Vengono stanziate risorse per gli ammortizzatori del conflitto sociale solo quando la radicalità del conflitto obbliga Stato e padroni a fare un passo indietro. Altrimenti il meglio cui si possa aspirare è un’elemosina offerta in cambio dell’obolo versato nell’urna elettorale.
Perché sprecare le forze grandi o piccole che si riescono a mettere in campo per ottenere quello che Stato e padroni sono disposti concedere in cambio della pace sociale? La pace sociale è un uroboro, un serpente che si morde la coda, perché è il punto di partenza per un nuovo attacco dei padroni.
Non solo.
Le linee di cesura tra oppressi ed oppressori sono molteplici ed è grazie ai movimenti antisessisti, ambientalisti, antirazzisti che se ne è evidenziata l’importanza, offrendo un orizzonte più ampio alla prefigurazione di una diversa organizzazione sociale e politica.
É peraltro merito di chi, nei movimenti, ha evitato la trappola della riduzione della complessità del reale ad un unico orizzonte interpretativo, aver colto la necessità di adottare un punto di vista intersezionale. In altre parole: i fili immaginari che rappresentano le linee di cesura, pur separati per necessità analitica, nei fatti si intrecciano e vanno fotografati nel loro attorcigliarsi, senza privilegiare una chiave esplicativa tra le altre.
L’approccio libertario a questi temi, costitutivamente segnato da una maggiore capacità di cogliere la complessità sociale nei suoi aspetti materiali e culturali, deve tuttavia affinare i propri strumenti analitici.
La sfida è grande, le difficoltà enormi. Prova ne è l’emergere di tentazioni sovraniste, autarchiche, iperstataliste, che aprono la via a formazioni di “sinistra” che approdano a lidi dall’agre sapore rossobruno. Lo stesso successo di una aggregazione costitutivamente ambigua, giustizialista e statalista, liberale e protezionista come il Movimento 5 stelle la dice lunga sulla natura reattiva ed intrinsecamente reazionaria, delle risposte agli effetti della globalizzazione capitalista.
Il rischio, evidente, è la crescita della destra sociale, che i temi della sovranità, dell’intervento statale in economia sa trattarli molto bene, facendo leva sulla paura, sulla chiusura identitaria, sul razzismo.
Il governo Gentiloni, che pure ha segnato un punto alla destra, con gli accordi con le milizie libiche e la cacciata delle Ong dal Mediterraneo, mantiene una politica economica liberale, che ha fatto della precarietà l’orizzonte “normale” di vita per la maggioranza di chi vive nel nostro paese.
É tempo che la paura cambi di campo. É tempo che siano padroni e governanti a dover temere quelle che un tempo, e non per sbaglio, venivano chiamate le classi pericolose. Pericolose per un ordine del mondo basato sullo sfruttamento, sulla dominazione, sulla schiavitù salariata.
Il G7 lavoro che si svolge alla reggia di Venaria rappresenta una straordinaria occasione per i movimenti di opposizione sociale di smontare la retorica dello sviluppo, della “crescita” infinita, che caratterizza le potenze che ogni anno si incontrano per allineare le politiche sul lavoro, per promuovere le legislazioni che stanno schiacciando sotto un tallone di ferro i chi per vivere deve vendere le proprie capacità ed il proprio tempo.
I lavoratori francesi il 12 settembre hanno dato un segnale forte e chiaro. La prima legge che ha demolito diritti e tutele venne firmata dall’attuale presidente della Republique, Macron. Due anni fa la lunga primavera di lotta contro la Loi Travail dimostrò che “l’emergenza terrorismo”, le leggi speciali e la repressione non fermavano né confondevano chi sapeva che i propri nemici siedono sui banchi del governo e nei consigli di amministrazione di banche ed aziende.
Il G7 sarà anche un’occasione per rimettere al centro chi agisce le lotte, grandi e piccole, che provano a fare del male alla controparte, per obbligarla a fare un passo indietro, sul terreno del salario, della sicurezza, dell’orario lavorativo, della qualità dei servizi nelle scuole, negli ospedali, nei trasporti.
La decisione di fare un corteo in periferia, in Barriera di Milano, è la scommessa di riannodare i fili della guerra di classe, in un quartiere dove la lotta per la casa, il reddito, la servitù del lavoro è anche lotta contro la militarizzazione, le retate, le repressione. Sono passati cent’anni dall’agosto 1917. La Barriera era al centro dello sciopero generale e dell’insurrezione contro la guerra e la fame. Le barricate messe a difesa del quartiere sono incise nella memoria di chi oggi ha raccolto il testimone di quelle lotte.
Il corteo del 29 settembre attraverserà le strade del quartiere e si concluderà con un’assemblea in cui prenderanno parola i protagonisti delle lotte. Gli addetti alle pulizie nelle scuole, i lavoratori dei trasporti e della logistica, quelli delle fabbriche, i precari e i fattorini, gli immigrati sotto il ricatto della clandestinità.
Il corteo che, il giorno successivo, da un’altra periferia, quella delle case dormitorio, tra il carcere e lo stadio si dirigerà verso la Reggia blindatissima dove si svolgerà il vertice, è legato alla dimensione simbolica della rappresentazione pubblica dell’inimicizia verso una bella fetta dei signori del mondo. La scommessa è che anche questo corteo abbia una ampia partecipazione popolare, che dia un segnale forte e chiaro in vista delle sfide durissime dei prossimi mesi.
Che i signori del mondo sappiano che ci sarà la pace sociale quando gerarchia, oppressione, sfruttamento saranno solo parole sui libri di storia.

mercoledì 27 settembre 2017

Contro i padroni del mondo per un mondo senza padroni

A fine settembre alla reggia di Venaria si incontreranno i ministri del lavoro, dell'industria e della ricerca di Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Francia, Giappone, Germania e Canada.

Roviniamo la vetrina dei padroni del mondo!
No al G7!
Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile.
Tocca a noi costruirlo.


Ecco gli appuntamenti per gli spezzoni rossoneri:

Venerdì 29 settembre
ore 17,30
Corteo dei lavoratori e delle lavoratrici contro il G7
Partenza da Corso G. Cesaren. 11, vicino a Porta Palazzo (ex stazione Torino-Ceres)
assemblea finale ai giardinetti tra corso Giulio e via Montanaro

Sabato 30 settembre
ore 14
Corteo contro il G7
Ritrovo quartiere Vallette in direzione Reggia di Venaria


martedì 26 settembre 2017

Contro il G7 lavoro. Per un mondo senza servi e senza padroni

A fine settembre alla reggia di Venaria si incontreranno i ministri del lavoro, dell’industria e della ricerca di Stati Uniti, Gran Bretagna, Italia, Francia, Giappone, Germania e Canada. L’incontro doveva svolgersi a Torino, ma in luglio gli appuntamenti torinesi, comprese le cene e le visite culturali, sono stati cancellati o spostati a Venaria. Solo gli sherpa delle delegazioni verranno ospitati nell’albergo di lusso di piazza Carlina, fiore all’occhiello della “nuova” Torino, quella che negli ultimi vent’anni ha allontanato dal centro gli abitanti più poveri, cambiando poco a poco pelle. La decisione di relegare il summit nella reggia di Venaria è stata presa perché il governo teme le contestazioni di chi non ha casa, reddito, pensione, di chi fa mille lavori precari e supersfruttati, di chi non crede che il lavoro gratuito sia educativo. Il governo ha paura che tanti si ribellino a chi sta costruendo un futuro peggiore del presente che siamo forzati a vivere. L’impegno dei movimenti sociali in vista del G7 è ovviamente di rendere reali i timori di Gentiloni, Minniti, Padoan… Torino è stata per decenni uno dei laboratori, dove si sono sperimentate imponenti strategie di asservimento e controllo sociale, indispensabili alle grandi trasformazioni in atto. È quindi luogo simbolico e reale di uno scontro di classe durissimo, dove governanti e padroni, nonostante i tanti punti segnati, esitano a confrontarsi.

Dall’auto al Luna Park
Torino si è convertita da città dell’auto a vetrina di grandi eventi, un grande Luna Park per turisti, mentre le periferie sono in bilico tra riqualificazioni escludenti e un parco giochi per carabinieri, alpini e poliziotti. Sfruttamento, lavori precari e pericolosi, morti in mare, leggi razziste, militari per le strade, guerra sono i tasselli del puzzle che disegna il nostro vivere. La gente delle periferie sente in bocca il sapore agre di una vita sempre più precaria. L’amministrazione è stata per decenni nelle mani del Partito Democratico. Oggi governano i Cinque Stelle. Bisognava che tutto cambiasse perché ogni cosa restasse come prima. La nuova sindaca è apprezzata dalle banche, dai padroni, da settori del movimento No Tav, da alcuni centri sociali e dai comitati xenofobi e razzisti. Un gran minestrone sulla cui tenuta è lecito interrogarsi, senza tuttavia farsi eccessive illusioni su possibili rapide implosioni. Appendino imita Fassino: fa la guerra ai rom delle baracche lungo la Stura, sguinzaglia i vigili urbani a caccia di mendicanti, lavavetri, spacciatori di accendini, senza casa. Chi aveva creduto alla retorica della partecipazione sta scoprendo che per i poveri non è cambiato nulla. La sindaca a Cinquestelle ha subito applicato le leggi del governo Gentiloni sulla sicurezza urbana. É finita con le cariche della celere contro chi beveva una birretta in via santa Giulia.

La criminalizzazione della povertà
Lo scorso 29 agosto il consiglio dei ministri ha approvato il decreto legislativo che attua la legge, approvata nel marzo scorso, sul reddito di inclusione (ReI). Una manciata di soldi per una minoranza esigua, una mossa dallo squisito sapore elettorale. Ma anche un ulteriore salto di paradigma. I beneficiari degli assegni vengono messi sotto tutela, sottoposti al costante controllo dei servizi sociali, perché sono tenuti a dimostrare di voler uscire da uno stato del quale sono considerati responsabili. È la quadratura del cerchio del governo del nobile Gentiloni. Per chi si piega c’è l’elemosina di Stato, per chi lotta multe, galera, manganelli e daspo urbano. Se sei povero la responsabilità è tua, non di chi si arricchisce sul lavoro altrui, non di un sistema politico e sociale che nega una vita decorosa alla maggior parte della popolazione del pianeta. Per il governo chi occupa una casa vuota offende il decoro, i proprietari che affittano a prezzi altissimi sono invece bravi cittadini. Ci raccontano che viviamo nel migliore dei mondi possibili, che liberismo e democrazia garantiscono pace, libertà, benessere. Ci raccontano le favole e pretendono che ci crediamo. Il governo dice che non ci sono soldi per ospedali, trasporti locali, scuole. Ma spende 68 milioni di euro al giorno per fare la guerra. Gentiloni investe in telecamere, polizia, militari per le strade. L’Italia ha pagato le milizie che controllano la costa libica e gestiscono il traffico di esseri umani, petrolio e armi, perché blocchino i profughi delle guerre combattute con armi made in Italy. In agosto sono seccamente diminuiti gli sbarchi. Chi resta intrappolato finisce nelle galere libiche, dove omicidi, torture, ricatti e stupri sono il pane quotidiano. Nuovi lager stanno sorgendo nel cuore dell’Africa subsahariana. Il candidato premier a 5Stelle Di Maio plaude la violenza poliziesca contro gli immigrati del ministro dem Minniti.

Sul fronte del lavoro
In questi anni i padroni si sono arricchiti, i poveri sono diventati più poveri. Il lavoro non c’è o è precario, pericoloso, malpagato. Il job act ha fatto piazza pulita delle poche tutele rimaste a chi lavora, lasciando mano libera ai padroni. Soffiano sul fuoco della guerra tra poveri, per mettere i lavoratori italiani contro quelli immigrati. Ci vogliono divisi per poterci meglio comandare e sfruttare. Chi si fa ricco con il lavoro altrui non guarda in faccia nessuno. Chi governa racconta la favola che sfruttati e sfruttatori stanno sulla stessa barca ed elargisce continui regali ai padroni. Il governo vuole la fine delle lotta di classe, la resa senza condizioni dei lavoratori. Cigl, Cisl e Uil, veri sindacati di Stato, firmano contratti indecenti, frenano le lotte, pur di mantenere i propri burocrati e i propri privilegi. C’è chi non ci sta, chi si ribella ad un destino già scritto, chi vuole riprendersi il futuro. Sono gli antimilitaristi, che lottano contro le basi militari, le fabbriche d’armi, la militarizzazione dei nostri quartieri. Sono i prigionieri dei CIE che bruciano le celle e scavalcano i muri. Sono gli sfrattati che non si rassegnano alla strada e si prendono le case vuote. Sono i lavoratori che bloccano e occupano magazzini e strade per vivere meglio. Questo G7 è un’occasione per dare visibilità a chi lotta, per riprenderci le periferie, per dimostrare, che al di là della retorica su sviluppo, innovazione, ricerca, il vertice di Venaria è solo la vetrina lucida dietro alla quale c’è una realtà dove tanta parte del genere umano è diventata inutile, persino per chi si fa ricco sulla povertà altrui. Chi lavora è una pedina intercambiabile in una macchina che corre veloce la sua galoppata senza limiti. Neppure quelli fisici di un pianeta allo stremo. Per qualcuno la partita si gioca nella visibilità mediatica delle contestazioni, a costo di relegarle in zone in bilico tra il nulla metropolitano e i quartieri dormitorio della Torino del secolo scorso. Per tanti altri il vertice è una buona occasione per raccogliere le forze in vista delle dure sfide dell’autunno. Le aree post autonome, come di consueto si muovono cercando di mantenere il complesso equilibrio tra conflitto di piazza ed interlocuzioni istituzionali in vista della tornata elettorale di primavera. Nonostante il fallimento della partita sul referendum costituzionale, continuano ad agitare lo spauracchio del ducetto di Rignano, ma sono in affanno di fronte all’esplicitarsi delle posizioni paraleghiste del premier in pectore Di Maio. I sindacati di base non hanno saputo cogliere l’occasione, strangolati dalla competizione intorno ai rituali scioperi d’autunno, ed hanno annunciato e poi ritirato lo sciopero del 29 settembre. Nonostante queste indubbie difficoltà ampi settori di movimento si stanno organizzando in vista del G7. Iniziative si svolgeranno in tutto il mese con un focus sul 28, 29 e 30 settembre, quando sono previste le principali manifestazioni. Gli anarchici federati di Torino stanno costruendo spezzoni rossi e neri e fanno appello a tutti per una partecipazione ampia. Cambiare la rotta è possibile. Con l’azione diretta, aprendo spazi politici non statali, moltiplicando le esperienze di autogestione, intessendo reti sociali che sappiano inceppare la macchina e rendano efficaci gli scioperi, le lotte territoriali.

Roviniamo la vetrina dei padroni del mondo! No al G7!
Un mondo senza sfruttati né sfruttatori, senza servi né padroni, un mondo di liberi ed eguali è possibile.
Tocca a noi costruirlo.

domenica 24 settembre 2017

Amore sotto ricatto

L'amore è un sentimento che dovrebbe essere gratuito, ma non soltanto quello inteso comunemente tra due esseri viventi che si uniscono nell'eros. Ci sono altri tipi di amore. Tutte le relazioni e gli equilibri tra individui, o tra individui e ambiente, dovrebbero basarsi sull'amore, intendo dire altri tipi di amore, sempre gratuito, ad esempio l'empatia, il rispetto, la solidarietà, la passione per l'armonia comune o per la natura o per gli animali. Ora, possiamo noi chiamare amore quello praticato sotto il ricatto di una punizione o di un premio? Io credo di no, il ricatto forza le relazioni ed è sempre un disvalore che disumanizza e crea conflitto. Eppure, siamo in un contesto sociale mondiale progettato apposta sul ricatto. Il ricatto è diventato la regola, e la società se ne serve credendola presupposto necessario all'amore. Siamo ricattati quando ci costringono a lavorare (addio amore per la propria passione d'infanzia), siamo ricattati quando ci dicono che occorre tranquillità sociale (addio amore per l'armonia naturale spontanea), siamo ricattati quando ci dicono che i nostri soldi servono per il benessere di tutti (addio amore per la cooperazione sociale), siamo ricattati quando ci ordinano di studiare (addio amore per l'apprendimento) ... gli esempi non si contano. Il fare le cose per amore gratuito e libero, senza cioè aspettarsi premi in cambio o punizioni se non le si fanno, dovrebbe essere la condizione umana e naturale (e lo è stata prima dello Stato). Non siamo bestie da addestrare col biscottino e con la frusta, e anche se ci provano da 3000 anni il risultato è nullo, come è ovvio. Puoi costringere ad amare? Cosa genera la costrizione se non il conflitto? E infatti io vedo solo conflitto nelle società statalizzate. Purtroppo però, il sistema ha fatto in modo che non soltanto il ricatto sia diventato la regola, ma ha creato una società di servi che a quella regola disumana crede profondamente (perché non riflette e non s'informa se non nei libri che sforna il sistema, capirai!). Io invece credo nell'amore gratuito, ci credo ancora, anche perciò sono anarchico. Chi mi chiama illuso non sa amare, non sa pensare a un altro tipo di società, non sa che nasciamo liberi, ma non può neanche dimostrare che la società statalizzata in cui crede (e in cui si fossilizza) sia amore, e che funzioni.

venerdì 22 settembre 2017

12 settembre 1977: muore Steve Biko

Steve Biko nacque il 18 dicembre 1946 e fu un noto militante nella lotta contro l'apartheid e lo sfruttamento della popolazione nera sudafricana e appartenete al Black Consciousness Movement (BCM).
Nel 1972 fu espulso dall'università di Natal a causa della sua militanza. Fu costretto quindi a rimanere nel distretto di King William's Town, gli fu vietato di parlare in pubblico, scrivere o parlare con i giornalisti e frequentare più di una persona alla volta. In più fu vietato a chiunque di citare qualsiasi suo scritto.
Durante il suo soggiorno coatto nel distretto di King William's Town iniziò a coinvolgere la popolazione nera e le altre minoranze etniche in collettivi auto organizzati
Nonostante la repressione Biko e il BCM ebbero un ruolo fondamentale nell'organizzazione della rivolta di Soweto del giugno 1976, durante la quale studenti neri erano scesi in piazza contro la politica segregazionista del National Party, per essere poi duramente repressi dalla polizia, che uccise diverse centinaia di persone durante i dieci giorni di scontri. Dopo la rivolta, per i funzionari razzisti sudafricani, divvenne fondamentale l'eliminazione fisica di Biko.
L'occasione venne quando Biko fu fermato in un posto di blocco della polizia e arrestato con l'accusa di terrorismo il 18 agosto 1977. In caserma fu interrogato per ventidue ore di fila, picchiato e torturato dagli ufficiali di polizia Harold Snyman e Gideon Nieuwoudt nella stanza interrogatori 619.A causa del vile pestaggio Biko entrò in coma.
A questo punto i due sbirri lo ammanettarono e caricarono nudo nel bagagliaio della loro Land Rover per portarlo al carcere di Pretoria distante 1100 Km. Morì il 12 settembre 1977 a causa di una vasta emorragia cerebrale appena arrivato a Pretoria.
La polizia subito spiegò la morte come la conseguenza di un ipotetico sciopero della fame, ma l'autopsia rivelò le ferite del pestaggio tra cui quella mortale alla testa. Nonostante le prove evidenti del brutale omicidio la polizia riuscì ad insabbiare la storia.
Solo i gironalisti Helen Zille e Donald Woods, molto amici di Biko, qualche tempo dopo, riuscirono con un costante lavoro di controinchiesta a far emergere la verità sull'assassinio del loro amico.
Data la popolarità di Biko la notizia della sua morte si diffuse rapidamente aprendo molti occhi sulla brutalità del regime Sud Africano.
Al suo funerale parteciparono decine di migliaia di persone.
I giornalisti che indagarono su questa storia furono costretti a scappare dal Sud Africa a causa delle persecuzioni della polizia e nessuno dei due poliziotti omicidi fu mai processato dal governo razziata bianco né dal successivo governo "democratico".

giovedì 21 settembre 2017

Il diritto di proprietà

Il diritto di proprietà è un ostacolo al progresso, è un nemico del benessere dell’uomo, è una sorgente di vizi, di discordie, di delitti, di usure; è una istituzione divenuta incompatibile con i bisogni, con le idee e coi sentimenti della nostra epoca.
In virtù di questo diritto pochi individui hanno sequestrato e usurato tutti i benefici della civiltà. Pochi capitalisti tassano a loro piacere il lavoro. A misura che aumenta la popolazione e i bisogni dell’umanità, essi aumentano le loro pretese, elevano le loro rendite e i loro profitti, ed accrescono il valore della loro proprietà e dei loro capitali.
Questo valore deriva interamente da fatti e condizioni estranee ed indipendenti dal merito dei proprietari e capitalisti, esso è opera e creazione della società. E perciò alla società tutta quanta, non a pochi monopolisti, dovrebbero appartenere la terra e i capitali. Gli strumenti di lavoro spettano ai lavoratori associati. La proprietà individuale deve essere abolita, deve succedere la proprietà comune o societaria.
Noi anarchici sosteniamo che l’interesse dei più deve prevalere all’ingordigia dei pochi; e in nome dei diritti dell’umanità intera a vivere, a lavorare, a godere del frutto del lavoro, ad istruirsi, ad educare i nostri figli, ad avere il pane assicurato per la nostra vecchiaia, a non essere schiavi e succubi di nessuno, combattiamo il cosiddetto diritto di proprietà.

domenica 17 settembre 2017

Abolire il carcere

Il proposito di abolire il carcere, nonché ogni forma di prigionia, è senza dubbio saggio, nobile, ammirevole e, soprattutto, radicalmente umano. Purtroppo, però, quando ci si addentra nella questione nei suoi aspetti teorici, com’è necessario, in quelli pratici e propositivi, ci si accorge di aver messo la mano in un nido di vipere, tutte altrettanto seppure diversamente mordaci, o, se proprio va bene, di avere di fronte un gioco di scatole cinesi. Un problema rimanda ad un altro, un’ipotetica soluzione ne azzanna un’altra, tuttavia non meno ipotetica, e via andando.
Quindi abolire il carcere è possibile?
Per un “radicale”, se è possibile, allora significa che questa abolizione è nell’interesse della società presente, che peraltro egli vuole combattere, cambiare o distruggere, e dunque non val troppo la pena di occuparsene; lo faranno comunque altri e, in ogni caso questa “abolizione” sarebbe soltanto spettacolare, mentre verrebbero rinnovate e rimodernate le forme di controllo sociale e perciò di prigionia in senso ampio. Per un “riformista”, se è veramente impossibile, è piuttosto utile mettere mano a delle modificazioni che, da un lato, lascino fuori dal carcere quanti più possibili e, dall’altro, ammorbidiscano le condizioni di quanti dentro ci restano.
Il “radicale” rischia di disinteressarsene, se non attraverso vaghe e fumose dichiarazioni di principio, affaccendandosi, nel frattempo, in altre faccende e lasciando mano libera ai professionisti del problema, aspettando un momento catartico X o Y o Z in cui tutto si risolverà. Il “riformista”, quale che sia la sua indole e natura, rischia di contribuire alla perpetuazione in eterno di carceri, leggi ecc., attraverso il loro addolcimento e la loro modernizzazione.
Abolire il carcere è un processo, nel quale l’astuzia, l’intelligenza, il realismo e l’utopismo vanno saviamente combinati, affinché siano un vero cocktail esplosivo.

venerdì 15 settembre 2017

Bakunin e il banditismo sociale

Sul piano organizzativo Bakunin faceva leva su due elementi centrali: le masse diseredate e degradate, soprattutto le plebi contadine e un'avanguardia intellettuale declassata, emarginata dagli strati sociali superiori, è rimase sempre fedele alla formula della setta clandestina; sul piano politico la sua rivoluzione, molto simile alle jacqueriescontadine e al banditismo sociale, avrebbe dovuto immediatamente abolire lo stato e ogni altra autorità: "Chi dice stato o diritto politico, dice forza, autorità, predominio: ciò presuppone l'ineguaglianza di fatto". Accusava i comunisti di essere "nemici delle istituzioni politiche esistenti perché tali istituzioni escludono la possibilità di realizzare la propria dittatura" e di essere al tempo stesso "gli amici più ardenti del potere statale", poiché volevano costruire una società integralmente dominata e programmata dall'alto. Il pensiero di Bakunin, apparentemente privo di sistematicità, è in realtà caratterizzato da una forte coesione intorno ad alcune tesi fondamentali: la liberazione totale dell'uomo attraverso l'abolizione dello stato, il rifiuto di qualunque socialismo di stato, la valorizzazione di quelle forze sociali che il processo d'industrializzazione tendeva ad emarginare. Per Bakunin è lo stato la causa principale d'ogni forma di oppressione e di tirannia, per cui il capitalismo non è altro che lo strumento di cui questo ente superiore, burocratizzato e gerarchizzato, si serve per attuare i suoi disegni. Sono queste le considerazioni che portano Bakunin a guardare più che alla classe operaia, nel senso marxiano del termine, alle masse popolari: invece di agire sul proletariato, che si serve della lotta di classe, egli propone di trasformare lo stato usando la violenza del sottoproletariato e quindi di rinviare ad un momento successivo l'attuazione di quei mutamenti sociali da cui scaturirà la società anarchico-egualitaria. Al centralismo soffocante e burocratico, nato con l'assolutismo e affermatosi ovunque con la rivoluzione francese, Bakunin contrappone il comune popolare, dove il cittadino ha la possibilità di manifestare il proprio patriottismo, identificandosi col libero sviluppo della collettività di cui fa parte. A loro volta i comuni si riuniscono in una libera federazione su scala regionale e in seguito le regioni si uniranno in una federazione ancora più ampia, che, al limite, potrà estendersi a tutta l'umanità. Per queste idee federalistiche Bakunin è influenzato dal pensiero di Proudhon, con il quale condivide la convinzione che per questa via l'umanità possa garantirsi non solo il progresso, l'armonia e la solidarietà, ma anche la pace.

martedì 12 settembre 2017

Noi siamo partiti dal nulla

Noi siamo partiti dal nulla per giungere alla miseria.
SI
La gratuità del gesto, l’organizzazione spontanea della produzione nelle mani dei produttori, la realtà della necessità immediata, l’organizzazione passionale e la generosità complice, sono la fraternizzazione cosciente di ciò che costruiamo: il potere dei consigli operai. La lealtà teorica deve trovare la sua pratica: la coscienza della realtà.
COSI’
Cambiare la vita, saper morire, praticare la festa fourierista, vivere il quotidiano, trarre speranza dalla disperazione, significa sapere il 1905, CRONSTADT, LA CATALOGNA, BUDAPEST 1956 …
ANCHE
Distruggere il potere senza prenderlo. Distruggere per essere l’altro e sé stessi.
LA POESIA VISSUTA NON E’ NULLA DI DIVERSO.
La libertà, grazie al rovesciamento dei rapporti, trova il suo momento di costruzione. Così non dir più: “Scusi, signor agente” ma “Crepa … porco” implica:
L’INTERNAZIONALIZZAZIONE DEL VISSUTO
La coscienza è la sola a non cadere nella trappola del costruttivismo. È, per ora, la sola poesia delle piazze in cammino. Il programma minimo è l’ATTO DI DISTRUZIONE: è, per eccellenza, l’atto politico. Per esso non esiste controllo, non c’è regola. La rivoluzione non può essere che quotidiana, se si vuol lottare contro il fascino del potere. Il desiderio di dominio resta ancora la legge del momento, la mentalità di schiavo affrancato, la vertigine d’obbedienza per essere obbedito, la mistica delle istituzioni e la religione dell’ordine. Estirpare il fascismo e far morire DIO passa attraverso il CAOS.
La nostra vita è in questione, non fermiamoci per paura di perderla. I lupi sono in agguato. La vita è breve. O siamo tutti signori o non siamo nulla. A questa condizione il lavoro diventa una grande risata, o TUTTO.
Io ci amo tutti.
Viva il potere dei consigli operai.
Abbasso l’autogestione Yugoslava.
UN COMPAGNO YUGOSLAVO CHE LA SA LUNGA


(Volantino distribuito a Parigi e altrove nel maggio 1968)

lunedì 11 settembre 2017

La democrazia totalitaria

Attualmente la Democrazia versa in uno stato pietoso. È rimasta senza avversario, ma anche senza sostanza. Il disamore dei cittadini nei confronti della sua presunta formula di auto-governo non può più essere nascosta: astensionismo elettorale di massa, discredito generalizzato dei dirigenti e delle loro cricche, alta marea della tendenza apolitica. Regna una diffusa disillusione politica che in realtà è disaffezione per la democrazia. Tutto ciò che la Democrazia ha promesso (il governo del popolo per il popolo, la trasparenza della gestione pubblica, la libertà politica...) è venuto meno; ciò nonostante, sepolte le altre modalità d’organizzazione politica, è questa la formula che ha trionfato. Ma la sua vittoria ha un sapore amaro, i cittadini sono infelici, apatici e indifferenti alle sorti di una Democrazia intorpidita.
Ma è veramente sprofondata nel torpore? O invece questo è il momento in cui la Democrazia comincia a mostrare il suo vero volto, a svelarci le sue intenzioni? Solo adesso, dominante, egemonica, incontestabile, priva della possibilità di legittimarsi per mezzo del contrasto, quando anche i suoi adulatori iniziano ad annoiarsi, incomincia a mostrarci il rachitismo del suo organismo e la malvagità dei suoi propositi. Le democrazie liberali stanno avanzando lungo nuove strade verso un modello di società e di gestione politica che si caratterizza per un’enigmatica e inquietante docilità della popolazione e un letargo del criticismo e della dissidenza che renderà quasi superfluo l’attuale apparato di repressione fisica, dal momento che ogni essere umano agirebbe, in una certa qual misura, come poliziotto di sé stesso.
Auschwitz non è stato uno scivolone della Civiltà, un passo falso dell’Occidente, un incomprensibile smarrimento della Ragione Moderna, ma un frutto della democrazia i cui semi e germogli circolano in modo terribilmente sospetto nel cuore e nel sangue dei nostri regimi democratici. Auschwitz è stato un segnale di ciò che dobbiamo aspettarci dalla nostra Cultura: lo sterminio globale della Differenza. La democrazia totalitaria.

giovedì 7 settembre 2017

È possibile fare un uso sostenibile della schiavitù?

Nel mondo delle macchine, stiamo diventano macchine a nostra volta. Come tanti automi telecomandati siamo chiamati soltanto a seguire le istruzioni che ci vengono impartite e ad adempiere ai comandi imposti.
Non c’è un dittatore umano che ci costringa a trasformarci in congegni dal rendimento utile, è la mentalità che abbiamo acquisito che ci dirige: la nostra educazione, la nostra istruzione, la nostra accettata libertà vigilata, i nostri sbrigativi rapporti con gli altri (e con noi stessi), la nostra indotta convinzione di non poter fare altrimenti. L’inganno che ci confina al ruolo di cinghie di trasmissione del Grande Motore, trova nell’ideologia della Macchina la sua stessa natura svelata, persino etimologicamente.
Se nel mondo delle macchine stiamo diventando macchine è anche perché nel mondo delle macchine noi non esistiamo più. E questa progressiva espulsione dell’umano dal mondo degli umani è semplicemente inarrestabile, se non fermando la tecnologia per intero. La tecnica, infatti, può solo correre verso la via di una sempre maggiore invasione della tecnica, è nella sua logica. Conseguentemente, più aumenterà l’uso di ritrovati di tecnologia, più saranno questi ultimi a prendere il sopravvento sulla vita, incrementando ogni nostra distanza emozionale verso le sorti del mondo. Figlia della logica stessa che la produce (logica della perfezione meccanica, dell’efficienza operativa, della velocità di esercizio, dell’ordine e dell’obbedienza), la tecnologia è l’incarnazione del mondo che la promuove e la diffonde. Ne supporta dunque tutti i valori, tutte le categorie, tutte le forme di alienazione. Parlare di tecnologia significa parlare di divisione del lavoro, di specializzazione, di efficienza e competitività, di produttività, di sviluppo, di dominio sulla Natura. Significa parlare di accentramento delle funzioni, di dipendenza dal mercato, di freddezza ed operatività, di distanza emozionale, d’inflessibilità, d’irresponsabilità, appunto. Che sono, guarda caso, valori opposti a quelli portati dall’attrezzo: e cioè flessibilità, decentramento, relazione, eguaglianza, responsabilità, autonomia (autonomia dagli esperti, dal mercato, dal lavoro produttivo). Insomma, la tecnologia è tutt’altro che neutrale, e l’idea che essa sia soltanto un fenomeno neutro non è un’idea diffusa a caso: serve a convincere. Ci spinge cioè a sottovalutare il potere invasivo e pervasivo della tecnologia, la sua capacità manipolativa (dell’ambiente ma anche della percezione umana) e quindi ci induce a credere che essa non sia un problema ma un’opportunità. La tecnologia, invece, è un problema. Un grosso problema!
Quello che si dovrebbe aver chiaro è che quando si parla di “tecnologia”, si parla di schiavitù. Una simile chiarificazione, peraltro, consente di rispondere da sola al quesito che qualche favoreggiatore di un eco-mondo-tecnologico non manca mai di porre per cercare un conforto alla propria visione ideologica: è possibile fare un uso sostenibile di tecnologia? Basta mettere le parole giuste al loro posto e la risposta viene da sé: è forse possibile fare un uso sostenibile della schiavitù?

mercoledì 6 settembre 2017

Disprezzo delle credenze e della cultura dei domesticati


La domesticazione sociale progredisce, da un punto di vista antropologico, nei modi più insospettati. A partire dal 1492, l'espansione del mondo occidentale ha alterato le lingue del pianeta terra in modo irreversibile. Oggi, metà dei sei miliardi di individui che popolano il pianeta parlano una lingua indo-europea come lingua materna. Questa osservazione introduce due interrogativi: quali furono i vantaggi che permisero a questa lingua di trionfare, quali quelli che si acquisirono? In cinquecento anni l'inglese e lo spagnolo hanno supplito alla maggior parte delle lingue indigene di America e di Australia. Una tale espansione è il risultato di una superiorità, che ha negli strumenti della domesticazione i suoi capisaldi: armi da fuoco, diffusione più o meno deliberata di germi infettivi, uso del ferro e dei suoi derivati, organizzazione politica, disprezzo delle credenze e della cultura dei domesticati. Gli emigrati bianchi non sono stati i primi colonizzatori dell'Australia, cinquantamila anni prima lo furono quelli che oggi sono chiamati aborigeni o neri. Con l'installazione degli inglesi la maggior parte di loro fu uccisa come conseguenza, diretta o indiretta, della colonizzazione. Così, nel 1988, il bicentenario della nascita dell'Australia, poteva festeggiare il fatto che era divenuto bianco.

domenica 3 settembre 2017

Il luddismo di Capitan Swing

La nascita del luddismo va individuata nel punto critico dell’abrogazione delle leggi paternalistiche e dell’imposizione dell’economia del laissez-faire alla (e contro la) volontà e coscienza dei lavoratori. Dalla nuova libertà del capitalista di distruggere le consuetudini del mestiere, o con il nuovo macchinario, o con il sistema di fabbrica, o con una concorrenza sfrenata, riducendo i salari, battendo sul prezzo i rivali, e minando il codice di una lavorazione a regola d’arte.
Capitan Swing era il rappresentante dei braccianti. Caratteristica di rilievo del movimento di Swing è la sua multiformità nell’agire. Incendio doloso, lettere minatorie, volantini e manifesti sediziosi, brigantaggio, meeting per i salari, assalti ad ispettori dei poveri, parroci e proprietari, distruzione di vari tipi di macchine. Dietro queste diverse forme d’azione, gli obiettivi fondamentali dei braccianti-luddisti sono però particolarmente ben definiti: ottenere nell’immediato un salario sufficiente per vivere, porre fine alla disoccupazione ed impedire che le macchine agricole snaturino il rapporto uomo-terra. Per raggiungere questo scopo i mezzi usati variano a seconda dell’occasione e delle possibilità che si presentano. Possono seguire la via elementare dei meeting per decidere la somma da chiedere, redigendo un foglio o un documento da presentare ai datori di lavoro, e, nel caso incontrassero resistenza, accompagnano le loro richieste con assemblee illegali e minacce di violenza.
Questa forma di brigantaggio assume proporzioni notevoli soprattutto nelle contee meridionali e centrali dell’Inghilterra, anche se non è tanto questa forma di agitazione, seppur rilevante, quanto la distruzione di macchine ad imprimere il suo marchio a tutto il movimento dei braccianti. Infatti il segno distintivo di Swing non sono tanto gli incendi o le lettere minatorie quanto la distruzione delle macchine agricole.
Le fonti popolari raccontano di Capitan Swing e banda vestiti da gentlemen che viaggiano per le campagne su calessi verdi, fanno misteriose domande sulla misura dei salari e sulle trebbiatrici, distribuiscono denaro e danno fuoco ai pagliai con pallottole incendiarie, razzi, palle di fuoco e altri congegni diabolici (dai giornali dell’epoca citiamo “Sembra che lo strumento incendiario abbia la caratteristica di esplodere lentamente, si accenda ed esploda dopo un certo periodo che è stato collocato sotto il covone”). Per far digerire meglio spiegazioni del genere giunse al ministero dell’interno una lettera da parte del dottor Edmund Skiers, membro della facoltà di medicina di Parigi e del Regio Collegio di Surgeon di Londra, il quale afferma che una miscela di fosforo, zolfo e limatura di ferro può, a contatto con l’acqua, provocare un’accensione improvvisa per un processo di combustione spontanea.